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La Divina Commedia
PURGATORIO
I
Per
correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel
secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì
resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio
canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color
d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei
ricominciò diletto,
tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta
che m'avea contristati li occhi e 'l petto.
Lo bel pianeto che
d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta.
I' mi volsi a man
destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l ciel
di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle!
Com' io da loro sguardo
fui partito,
un poco me volgendo a l'altro polo,
là onde 'l Carro già era sparito,
vidi presso di me un
veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di
pel bianco mista
portava, a' suoi capelli simigliante,
de' quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le
quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante.
«Chi siete voi che
contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss' el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v'ha guidati, o
che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d'abisso
così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi
diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio.
Poscia rispuose lui:
«Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch'è tuo voler
che più si spieghi
di nostra condizion com' ell' è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai
l'ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com' io dissi, fui
mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i' mi son messo.
Mostrata ho lui tutta
la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com' io l'ho tratto,
saria lungo a dirti;
de l'alto scende virtù che m'aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir
la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, ché non ti
fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni
per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che 'n
vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li
tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d'esser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto
a li occhi miei
mentre ch'i' fu' di là», diss' elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal
fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n'usci' fora.
Ma se donna del ciel
ti move e regge,
come tu di', non c'è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che
tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria,
l'occhio sorpriso
d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch'è di quei di paradiso.
Questa isoletta
intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l'onda,
porta di giunchi sovra 'l molle limo:
null' altra pianta
che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch'a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua
vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù
mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò:
«Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a' suoi termini bassi».
L'alba vinceva l'ora
mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo
solingo piano
com' om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là
've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su
l'erbetta sparte
soavemente 'l mio maestro pose:
ond' io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver' lui le
guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l'inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul
lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì
com' altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l'avelse.
Già era 'l sole a
l'orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che
opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che le bianche e
le vermiglie guance,
là dov' i' era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso
mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual,
sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra 'l suol marino,
cotal m'apparve, s'io
ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che 'l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com' io un
poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d'ogne lato ad
esso m'appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor
non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le
ginocchia cali.
Ecco l'angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li
argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l'ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l'ha dritte
verso 'l cielo,
trattando l'aere con l'etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come più e più
verso noi venne
l'uccel divino, più chiaro appariva:
per che l'occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e
quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva.
Da poppa stava il
celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
'In exitu Isräel
de Aegypto'
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor
di santa croce;
ond' ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase
lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti
saettava il giorno
lo sol, ch'avea con le saette conte
di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente
alzò la fronte
ver' noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio rispuose:
«Voi credete
forse che siamo esperti d'esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo,
innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
L'anime, che si fuor
di me accorte,
per lo spirare, ch'i' era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger
che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio
s'affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d'ire a farsi belle.
Io vidi una di lor
trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor
che ne l'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo,
mi dipinsi;
per che l'ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse
ch'io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s'arrestasse.
Rispuosemi: «Così
com' io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta:
però m'arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per
tornar altra volta
là dov' io son, fo io questo vïaggio»,
diss' io; «ma a te com' è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun
m'è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m'ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler
lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond' io, ch'era ora a
la marina vòlto
dove l'acqua di Tevero s'insala,
benignamente fu' da lui ricolto.
A quella foce ha elli
or dritta l'ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge
non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia
consolare alquanto
l'anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
'Amor che ne la
mente mi ragiona'
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e
quella gente
ch'eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti
fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza,
quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando,
cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l'usato orgoglio,
se cosa appare ond'
elli abbian paura,
subitamente lasciano star l'esca,
perch' assaliti son da maggior cura;
così vid' io quella
masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa,
com' om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.
Avvegna che la subitana
fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi ristrinsi a la
fida compagna:
e come sare' io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé
stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t'è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi
lasciar la fretta,
che l'onestade ad ogn' atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo 'ntento rallargò,
sì come vaga,
e diedi 'l viso mio incontr' al poggio
che 'nverso 'l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro
fiammeggiava roggio,
rotto m'era dinanzi a la figura,
ch'avëa in me de' suoi raggi l'appoggio.
Io mi volsi dallato
con paura
d'essere abbandonato, quand' io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e 'l mio conforto:
«Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch'io ti guidi?
Vespero è già colà
dov' è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me
nulla s'aombra,
non ti maravigliar più che d'i cieli
che l'uno a l'altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti,
caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli.
Matto è chi spera che
nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana
gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disïar vedeste
sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile
e di Plato
e di molt' altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto
a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che 'ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa
la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual
man la costa cala»,
disse 'l maestro mio fermando 'l passo,
«sì che possa salir chi va sanz' ala?».
E mentre ch'e'
tenendo 'l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra
m'apparì una gente
d'anime, che movieno i piè ver' noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss' io,
«maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con
libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch'ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol
di lontano,
i' dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser
tutti ai duri massi
de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti
com' a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già
spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti,
ditene dove la
montagna giace,
sì che possibil sia l'andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle
escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e 'l muso;
e ciò che fa la
prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei, s'ella s'arresta,
semplici e quete, e lo 'mperché non sanno;
sì vid' io muovere a
venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l'andare onesta.
Come color dinanzi
vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l'ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé
in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo 'l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda
io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che 'l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate,
ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così 'l maestro; e
quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro
incominciò: «Chiunque
tu se', così andando, volgi 'l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver' lui
e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
Quand' io mi fui
umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.
Poi sorridendo disse:
«Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond' io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella
figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice.
Poscia ch'io ebbi
rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li
peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se 'l pastor di
Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l'ossa del corpo mio
sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la
pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
dov' e' le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì
non si perde,
che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in
contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo
ch'elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi
puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m'hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s'avanza».
Quando per dilettanze
o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
l'anima bene ad essa si raccoglie,
par ch'a nulla
potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch'un'anima sovr' altra in noi s'accenda.
E però, quando s'ode
cosa o vede
che tegna forte a sé l'anima volta,
vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede;
ch'altra potenza è
quella che l'ascolta,
e altra è quella c'ha l'anima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.
Di ciò ebb' io
esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non
m'era accorto, quando
venimmo ove quell' anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».
Maggiore aperta molte
volte impruna
con una forcatella di sue spine
l'uom de la villa quando l'uva imbruna,
che non era la calla
onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e
discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e 'n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch'om voli;
dico con l'ale snelle
e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro
'l sasso rotto,
e d'ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in
su l'orlo suppremo
de l'alta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss' io, «che via faremo?».
Ed elli a me: «Nessun
tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che n'appaia alcuna scorta saggia».
Lo sommo er' alto che
vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando
cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com' io rimango sol, se non restai».
«Figliuol mio»,
disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le
parole sue,
ch'i' mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che 'l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo
ivi ambedui
vòlti a levante ond' eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima
drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n'eravam feriti.
Ben s'avvide il poeta
ch'ïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond' elli a me: «Se
Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il
Zodïaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò sia, se 'l
vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch'amendue hanno
un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui
convien che vada
da l'un, quando a colui da l'altro fianco,
se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada».
«Certo, maestro mio»,
diss' io, «unquanco
non vid' io chiaro sì com' io discerno
là dove mio ingegno parea manco,
che 'l mezzo cerchio
del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun' arte,
e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno,
per la ragion che di',
quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace,
volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché 'l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».
Ed elli a me: «Questa
montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant' om più va sù, e men fa male.
Però, quand' ella ti
parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com' a seconda giù andar per nave,
allor sarai al fin
d'esto sentiero;
quivi di riposar l'affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».
E com' elli ebbe sua
parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».
Al suon di lei
ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s'accorse.
Là ci traemmo; e ivi
eran persone
che si stavano a l'ombra dietro al sasso
come l'uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi
sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo 'l viso giù tra esse basso.
«O dolce segnor mio»,
diss' io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».
Allor si volse a noi
e puose mente,
movendo 'l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se' valente!».
Conobbi allor chi
era, e quella angoscia
che m'avacciava un poco ancor la lena,
non m'impedì l'andare a lui; e poscia
ch'a lui fu' giunto,
alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole
da l'omero sinistro il carro mena?».
Li atti suoi pigri e
le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi:
perché assiso
quiritto se'? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t'ha' ripriso?».
Ed elli: «O frate,
andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a' martìri
l'angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che
tanto il ciel m'aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
per ch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazïone in prima
non m'aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l'altra che val, che 'n ciel non è udita?».
E già il poeta
innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch'è tocco
meridïan dal sole e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco».
Io era già da quell'
ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito,
una gridò: «Ve' che
non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al
suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.
«Perché l'animo tuo
tanto s'impiglia»,
disse 'l maestro, «che l'andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e
lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l'omo in
cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l'un de l'altro insolla».
Che potea io ridir,
se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l'uom di perdon talvolta degno.
E 'ntanto per la
costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando 'Miserere' a verso a verso.
Quando s'accorser
ch'i' non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d'i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in
forma di messaggi,
corsero incontr' a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E 'l mio maestro:
«Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che 'l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua
ombra restaro,
com' io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non
vid' io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d'agosto,
che color non
tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che
preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse 'l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per
esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s'alcun di noi
unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?
Noi fummo tutti già
per forza morti,
e peccatori infino a l'ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e
perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n'accora».
E io: «Perché ne'
vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s'a voi piace
cosa ch'io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò
per quella pace
che, dietro a' piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò:
«Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che 'l voler nonpossa non ricida.
Ond' io, che solo
innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi
prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s'adori
pur ch'i' possa purgar le gravi offese.
Quindi fu' io; ma li
profondi fóri
ond' uscì 'l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov' io più sicuro
esser credea:
quel da Esti il fé far, che m'avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s'io fosse fuggito
inver' la Mira,
quando fu' sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le
cannucce e 'l braco
m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid' io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro:
«Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l'alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Io fui di
Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual
forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos' elli,
«a piè del Casentino
traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino.
Là 've 'l vocabol suo
diventa vano,
arriva' io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista
e la parola;
nel nome di Maria fini', e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu 'l
ridì tra ' vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di
costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi toglie;
ma io farò de l'altro altro governo!".
Ben sai come ne
l'aere si raccoglie
quell' umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove 'l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler
che pur mal chiede
con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come
'l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,
sì che 'l pregno aere
in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi
si convenne,
ver' lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato
in su la foce
trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse
ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch'i' fe' di me
quando 'l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai
tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che
son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma».
Quando si parte il
gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va
tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e
questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella
turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv' era l'Aretin
che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l'altro ch'annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le
mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e
l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com' e' dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia
dico; e qui proveggia,
mentr' è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da
tutte quante
quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi,
sì che s'avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par
che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega
pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia
scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio
non s'avvalla
perché foco d'amor compia in un punto
ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla;
e là dov' io fermai
cotesto punto,
non s'ammendava, per pregar, difetto,
perché 'l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto
sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.
Non so se 'ntendi: io
dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore,
andiamo a maggior fretta,
ché già non m'affatico come dianzi,
e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».
«Noi anderem con
questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù,
tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ' suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un'anima
che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne 'nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o
anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa
alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si
trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e
de la vita
ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava
«Mantüa...», e l'ombra, tutta in sé romita,
surse ver' lui del
loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di
dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell' anima gentil
fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non
stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno
da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti
racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz' esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che
dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta
fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco
ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le
stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Ch'avete tu e 'l tuo
padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.
Vieni a veder
Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni,
e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com' è oscura!
Vieni a veder la tua
Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».
Vieni a veder la
gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m'è, o
sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che
ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso?
Ché le città d'Italia
tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben
puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia
in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo
comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché
tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona,
che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai
tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte, del
tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e
vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Poscia che
l'accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
«Anzi che a questo
monte fosser volte
l'anime degne di salire a Dio,
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e
per null' altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è colui che cosa
innanzi sé
sùbita vede ond' e' si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è... non è...»,
tal parve quelli; e
poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver' lui,
e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia.
«O gloria di Latin»,
disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond' io fui,
qual merito o qual
grazia mi ti mostra?
S'io son d'udir le tue parole degno,
dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra».
«Per tutt' i cerchi
del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per
non fare ho perduto
a veder l'alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non
tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi
pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l'umana colpa essenti;
quivi sto io con quei
che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l'altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi,
alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».
Rispuose: «Loco certo
non c'è posto;
licito m'è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t'accosto.
Ma vedi già come
dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra
qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».
«Com' è ciò?», fu
risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d'altrui, o non sarria ché non potesse?».
E 'l buon Sordello in
terra fregò 'l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo 'l sol partito:
non però ch'altra
cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei
tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso».
Allora il mio segnor,
quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là 've dici
ch'aver si può diletto dimorando».
Poco allungati c'eravam
di lici,
quand' io m'accorsi che 'l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.
«Colà», disse quell'
ombra, «n'anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».
Tra erto e piano era
un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch'a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine,
cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l'ora che si fiacca,
da l'erba e da li
fior, dentr' a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura
ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
'Salve, Regina'
in sul verde e 'n su' fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
«Prima che 'l poco
sole omai s'annidi»,
cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch'io vi guidi.
Di questo balzo
meglio li atti e ' volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede
alto e fa sembianti
d'aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu,
che potea
sanar le piaghe c'hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.
L'altro che ne la
vista lui conforta,
resse la terra dove l'acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome,
e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che
stretto a consiglio
par con colui c'ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si
batte il petto!
L'altro vedete c'ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son
del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì
membruto e che s'accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d'ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui
fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir
de l'altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge
per li rami
l'umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno
mie parole
non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant' è del seme suo
minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la
semplice vita
seder là solo, Arrigo d'Inghilterra:
questi ha ne' rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso
tra costor s'atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese».
Era già l'ora che
volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo
peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand' io incominciai
a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo
le palme,
ficcando li occhi verso l'orïente,
come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'.
'Te lucis ante' sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l'altre poi
dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l'inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor,
ben li occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello
essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de
l'alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette
pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.
L'un poco sovra noi a
star si venne,
e l'altro scese in l'opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernëa in lor
la testa bionda;
ma ne la faccia l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda.
«Ambo vegnon del
grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via».
Ond' io, che non
sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m'accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: «Or
avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi credo
ch'i' scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.
Temp' era già che
l'aere s'annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei
non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver' me si fece, e io
ver' lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ' rei!
Nullo bel salutar tra
noi si tacque;
poi dimandò: «Quant' è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss' io lui,
«per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l'altra, sì andando, acquisti».
E come fu la mia
risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
L'uno a Virgilio e
l'altro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse».
Poi, vòlto a me: «Per
quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da
le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li 'nnocenti si risponde.
Non credo che la sua
madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di
lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura,
se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende.
Non le farà sì bella
sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com' avria fatto il gallo di Gallura».
Così dicea, segnato
de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti
andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E 'l duca mio:
«Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde».
Ond' elli a me: «Le
quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov' eran quelle».
Com' ei parlava, e
Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché 'n là guardasse.
Da quella parte onde
non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l'erba e ' fior
venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso
leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però
dicer non posso,
come mosser li astor celestïali;
ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso.
Sentendo fender
l'aere a le verdi ali,
fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.
L'ombra che s'era al
giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti
mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant' è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se
novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado
Malaspina;
non son l'antico, ma di lui discesi;
a' miei portai l'amor che qui raffina».
«Oh!», diss' io lui,
«per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch'ei non sien palesi?
La fama che la vostra
casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s'io
di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la
privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e 'l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che
'l sol non si ricorca
sette volte nel letto che 'l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese
oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone,
se corso di giudicio non s'arresta».
La concubina di
Titone antico
già s'imbiancava al balco d'orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua
fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de' passi
con che sale,
fatti avea due nel loco ov' eravamo,
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;
quand' io, che meco
avea di quel d'Adamo,
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai
là 've già tutti e cinque sedavamo.
Ne l'ora che comincia
i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de' suo' primi guai,
e che la mente
nostra, peregrina
più da la carne e men da' pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
in sogno mi parea
veder sospesa
un'aguglia nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea là
dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava:
'Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d'altro loco
disdegna di portarne suso in piede'.
Poi mi parea che, poi
rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e
io ardesse;
e sì lo 'ncendio imaginato cosse,
che convenne che 'l sonno si rompesse.
Non altrimenti
Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da
Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss' io, sì
come da la faccia
mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto,
come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato m'era solo il
mio conforto,
e 'l sole er' alto già più che due ore,
e 'l viso m'era a la marina torto.
«Non aver tema»,
disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se' omai al
purgatorio giunto:
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;
vedi l'entrata là 've par digiunto.
Dianzi, ne l'alba che
procede al giorno,
quando l'anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond' è là giù addorno
venne una donna, e
disse: "I' son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l'agevolerò per la sua via".
Sordel rimase e
l'altre genti forme;
ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria
mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro».
A guisa d'uom che 'n
dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
mi cambia' io; e come
sanza cura
vide me 'l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver' l'altura.
Lettor, tu vedi ben
com' io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s'io la rincalzo.
Noi ci appressammo,
ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre
gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch'ancor non facea motto.
E come l'occhio più e
più v'apersi,
vidil seder sovra 'l grado sovrano,
tal ne la faccia ch'io non lo soffersi;
e una spada nuda avëa
in mano,
che reflettëa i raggi sì ver' noi,
ch'io dirizzava spesso il viso in vano.
«Dite costinci: che
volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov' è la scorta?
Guardate che 'l venir sù non vi nòi».
«Donna del ciel, di
queste cose accorta»,
rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: "Andate là: quivi è la porta"».
«Ed ella i passi
vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a' nostri gradi innanzi».
Là ne venimmo; e lo
scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch'io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto
più che perso,
d'una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di
sopra s'ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenëa
ambo le piante
l'angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sù
di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che 'l serrame scioglia».
Divoto mi gittai a'
santi piedi;
misericordia chiesi e ch'el m'aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte
mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se' dentro, queste piaghe» disse.
Cenere, o terra che
secca si cavi,
d'un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
L'una era d'oro e
l'altra era d'argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch'i' fu' contento.
«Quandunque l'una
d'este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss' elli a noi, «non s'apre questa calla.
Più cara è l'una; ma l'altra
vuol troppa
d'arte e d'ingegno avanti che diserri,
perch' ella è quella che 'l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e
dissemi ch'i' erri
anzi ad aprir ch'a tenerla serrata,
pur che la gente a' piedi mi s'atterri».
Poi pinse l'uscio a
la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi 'n dietro si guata».
E quando fuor ne'
cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si
mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento
al primo tuono,
e 'Te Deum laudamus' mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto
mi rendea
ciò ch'io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch'or sì or no s'intendon le parole.
Poi fummo dentro al
soglio de la porta
che 'l mal amor de l'anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti'
esser richiusa;
e s'io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una
pietra fessa,
che si moveva e d'una e d'altra parte,
sì come l'onda che fugge e s'appressa.
«Qui si conviene
usare un poco d'arte»,
cominciò 'l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».
E questo fece i
nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor
di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,
ïo stancato e amendue
incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove
confina il vano,
al piè de l'alta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto l'occhio mio
potea trar d'ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.
Là sù non eran mossi
i piè nostri anco,
quand' io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo
candido e addorno
d'intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.
L'angel che venne in
terra col decreto
de la molt' anni lagrimata pace,
ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva
sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria
ch'el dicesse 'Ave!';
perché iv' era imaginata quella
ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave;
e avea in atto
impressa esta favella
'Ecce ancilla Deï', propriamente
come figura in cera si suggella.
«Non tener pur ad un
loco la mente»,
disse 'l dolce maestro, che m'avea
da quella parte onde 'l cuore ha la gente.
Per ch'i' mi mossi
col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m'era colui che mi movea,
un'altra storia ne la
roccia imposta;
per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato lì nel
marmo stesso
lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa,
per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente;
e tutta quanta,
partita in sette cori, a' due mie' sensi
faceva dir l'un 'No', l'altro 'Sì, canta'.
Similemente al fummo
de li 'ncensi
che v'era imaginato, li occhi e 'l naso
e al sì e al no discordi fensi.
Lì precedeva al
benedetto vaso,
trescando alzato, l'umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.
Di contra, effigïata
ad una vista
d'un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.
I' mossi i piè del
loco dov' io stava,
per avvisar da presso un'altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv' era storïata
l'alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i' dico di Traiano
imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea
calcato e pieno
di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro
sovr' essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra
tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch'è morto, ond' io m'accoro»;
ed elli a lei
rispondere: «Or aspetta
tanto ch'i' torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor s'affretta,
«se tu non torni?»;
ed ei: «Chi fia dov' io,
la ti farà»; ed ella: «L'altrui bene
a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»;
ond' elli: «Or ti
conforta; ch'ei convene
ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene».
Colui che mai non
vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Mentr' io mi
dilettava di guardare
l'imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,
«Ecco di qua, ma
fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne 'nvïeranno a li alti gradi».
Li occhi miei, ch'a
mirare eran contenti
per veder novitadi ond' e' son vaghi,
volgendosi ver' lui non furon lenti.
Non vo' però, lettor,
che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che 'l debito si paghi.
Non attender la forma
del martìre:
pensa la succession; pensa ch'al peggio
oltre la gran sentenza non può ire.
Io cominciai:
«Maestro, quel ch'io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».
Ed elli a me: «La
grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ' miei occhi pria n'ebber tencione.
Ma guarda fiso là, e
disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».
O superbi cristian,
miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete voi
che noi siam vermi
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l'animo vostro
in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar
solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non
ver vera rancura
nascere 'n chi la vede; così fatti
vid' io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno
eran contratti
secondo ch'avien più e meno a dosso;
e qual più pazïenza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: 'Più non posso'.
«O Padre nostro, che
ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia 'l tuo
nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com' è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la
pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li
angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la
cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal
ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di
legger s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest' ultima
preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé e noi buona
ramogna
quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente
angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben
per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c'hanno al voler buona radice?
Ben si de' loro atar
lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se giustizia e
pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l'ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano
inver' la scala
si va più corto; e se c'è più d'un varco,
quel ne 'nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien
meco, per lo 'ncarco
de la carne d'Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che
rendero a queste
che dette avea colui cu' io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man
destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s'io non fossi
impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch'ancor
vive e non si noma,
guardere' io, per veder s'i' 'l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato
d'un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se 'l nome suo già mai fu vosco.
L'antico sangue e
l'opere leggiadre
d'i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn' uomo ebbi in
despetto tanto avante,
ch'io ne mori', come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e
non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch'io
questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti».
Ascoltando chinai in
giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li 'mpaccia,
e videmi e conobbemi
e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
«Oh!», diss' io lui,
«non se' tu Oderisi,
l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss' elli,
«più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l'onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare' io
stato sì cortese
mentre ch'io vissi, per lo gran disio
de l'eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui
si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de
l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!
Credette Cimabue ne
la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l'uno a
l'altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido.
Non è il mondan
romore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu
più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',
pria che passin mill'
anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin
sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond' era sire quando
fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com' ora è putta.
La vostra nominanza è
color d'erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero
dir m'incora
bona umiltà, e gran tumor m'appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose,
«Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va,
sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello
spirito ch'attende,
pria che si penta, l'orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazïon lui
non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più
glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s'affisse;
e lì, per trar
l'amico suo di pena,
ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro
so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest' opera li tolse quei confini».
Di pari, come buoi
che vanno a giogo,
m'andava io con quell' anima carca,
fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse:
«Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l'ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca»;
dritto sì come andar
vuolsi rife'mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Io m'era mosso, e
seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com' eravam leggeri;
ed el mi disse:
«Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue».
Come, perché di lor
memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch'elli eran pria,
onde lì molte volte
si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a' pïi dà de le calcagne;
sì vid' io lì, ma di
miglior sembianza
secondo l'artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu
nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l'un lato.
Vedëa Brïareo fitto
dal telo
celestïal giacer, da l'altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea
Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d'i Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè
del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Nïobè, con che
occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la
propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì
vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l'opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par
che minacci
quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci.
Mostrava ancor lo
duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli
si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e
'l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t'empio».
Mostrava come in
rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in
cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!
Qual di pennel fu
maestro o di stile
che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti e i
vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant' io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via
col viso altero,
figliuoli d'Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!
Più era già per noi
del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l'animo non sciolto,
quando colui che
sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso.
Vedi colà un angel
che s'appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l'ancella sesta.
Di reverenza il viso
e li atti addorna,
sì che i diletti lo 'nvïarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!».
Io era ben del suo ammonir
uso
pur di non perder tempo, sì che 'n quella
materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venìa la
creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, e
indi aperse l'ale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale.
A questo invito
vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?».
Menocci ove la roccia
era tagliata;
quivi mi batté l'ali per la fronte;
poi mi promise sicura l'andata.
Come a man destra,
per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar
l'ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
ch'era sicuro il quaderno e la doga;
così s'allenta la
ripa che cade
quivi ben ratta da l'altro girone;
ma quinci e quindi l'alta pietra rade.
Noi volgendo ivi le
nostre persone,
'Beati pauperes spiritu!' voci
cantaron sì, che nol diria sermone.
Ahi quanto son
diverse quelle foci
da l'infernali! ché quivi per canti
s'entra, e là giù per lamenti feroci.
Già montavam su per
li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti.
Ond' io: «Maestro,
dì, qual cosa greve
levata s'è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?».
Rispuose: «Quando i P
che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com' è l'un, del tutto rasi,
fier li tuoi piè dal
buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti».
Allor fec' io come
color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ' cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano ad
accertar s'aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta;
e con le dita de la
destra scempie
trovai pur sei le lettere che 'ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise.
Noi eravamo al sommo
de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi così una cornice
lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega.
Ombra non lì è né
segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.
«Se qui per dimandar
gente s'aspetta»,
ragionava il poeta, «io temo forse
che troppo avrà d'indugio nostra eletta».
Poi fisamente al sole
li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse.
«O dolce lume a cui
fidanza i' entro
per lo novo cammin, tu ne conduci»,
dicea, «come condur si vuol quinc' entro.
Tu scaldi il mondo,
tu sovr' esso luci;
s'altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci».
Quanto di qua per un
migliaio si conta,
tanto di là eravam noi già iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi volar
furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d'amor cortesi inviti.
La prima voce che
passò volando
'Vinum non habent' altamente disse,
e dietro a noi l'andò reïterando.
E prima che del tutto
non si udisse
per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste'
passò gridando, e anco non s'affisse.
«Oh!», diss' io,
«padre, che voci son queste?».
E com' io domandai, ecco la terza
dicendo: 'Amate da cui male aveste'.
E 'l buon maestro:
«Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte d'amor le corde de la ferza.
Lo fren vuol esser
del contrario suono;
credo che l'udirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca li occhi per
l'aere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun è lungo la grotta assiso».
Allora più che prima
li occhi apersi;
guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi.
E poi che fummo un
poco più avanti,
udia gridar: 'Maria, òra per noi':
gridar 'Michele' e 'Pietro' e 'Tutti santi'.
Non credo che per
terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch'i' vidi poi;
ché, quando fui sì
presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi
parean coperti,
e l'un sofferia l'altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti.
Così li ciechi a cui
la roba falla,
stanno a' perdoni a chieder lor bisogna,
e l'uno il capo sopra l'altro avvalla,
perché 'n altrui
pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna.
E come a li orbi non
approda il sole,
così a l'ombre quivi, ond' io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;
ché a tutti un fil di
ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.
A me pareva, andando,
fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto:
per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio.
Ben sapev' ei che
volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».
Virgilio mi venìa da
quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perché da nulla sponda s'inghirlanda;
da l'altra parte
m'eran le divote
ombre, che per l'orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro e: «O
gente sicura»,
incominciai, «di veder l'alto lume
che 'l disio vostro solo ha in sua cura,
se tosto grazia resolva
le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume,
ditemi, ché mi fia
grazioso e caro,
s'anima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon s'i' l'apparo».
«O frate mio,
ciascuna è cittadina
d'una vera città; ma tu vuo' dire
che vivesse in Italia peregrina».
Questo mi parve per
risposta udire
più innanzi alquanto che là dov' io stava,
ond' io mi feci ancor più là sentire.
Tra l'altre vidi
un'ombra ch'aspettava
in vista; e se volesse alcun dir 'Come?',
lo mento a guisa d'orbo in sù levava.
«Spirto», diss' io,
«che per salir ti dome,
se tu se' quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome».
«Io fui sanese»,
rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui,
avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda
ch'io t'inganni,
odi s'i' fui, com' io ti dico, folle,
già discendendo l'arco d'i miei anni.
Eran li cittadin miei
presso a Colle
in campo giunti co' loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.
Rotti fuor quivi e
vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch'io volsi in
sù l'ardita faccia,
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!",
come fé 'l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in
su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse,
ch'a memoria m'ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi se', che
nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com' io credo, e spirando ragioni?».
«Li occhi», diss' io,
«mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l'offesa
fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è più la paura
ond' è sospesa
l'anima mia del tormento di sotto,
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa».
Ed ella a me: «Chi
t'ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui ch'è meco e non fa motto.
E vivo sono; e però
mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova
di là per te ancor li mortai piedi».
«Oh, questa è a udir
sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami;
però col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti, per quel
che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a' miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra
quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch'a trovar la Diana;
ma più vi perderanno li ammiragli».
«Chi è costui che 'l
nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
«Non so chi sia, ma
so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo».
Così due spirti,
l'uno a l'altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse l'uno: «O
anima che fitta
nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se';
ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai».
E io: «Per mezza
Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr' esso rech'
io questa persona:
dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno,
ché 'l nome mio ancor molto non suona».
«Se ben lo
'ntendimento tuo accarno
con lo 'ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli d'Arno».
E l'altro disse lui:
«Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com' om fa de l'orribili cose?».
E l'ombra che di ciò
domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che 'l nome di tal valle pèra;
ché dal principio
suo, ov' è sì pregno
l'alpestro monte ond' è tronco Peloro,
che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là 've si rende
per ristoro
di quel che 'l ciel de la marina asciuga,
ond' hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù così per nimica
si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond' hanno sì mutata
lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più
degni di galle
che d'altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi,
venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e
quant' ella più 'ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più
pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
Né lascerò di dir
perch' altri m'oda;
e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote
che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro
essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la
trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva».
Com' a l'annunzio di
dogliosi danni
si turba il viso di colui ch'ascolta,
da qual che parte il periglio l'assanni,
così vid' io l'altr'
anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch'ebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de l'una e de
l'altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che
di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi.
Ma da che Dio in te
vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch'io fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio
d'invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di livore sparso.
Di mia semente cotal
paglia mieto;
o gente umana, perché poni 'l core
là 'v' è mestier di consorte divieto?
Questi è Rinier;
questi è 'l pregio e l'onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s'è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo
sangue è fatto brullo,
tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a questi
termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov' è 'l buon Lizio e
Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un
Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar
s'io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d'Azzo che vivette nosco,
Federigo Tignoso e
sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l'una gente e l'altra è diretata),
le donne e '
cavalier, li affanni e li agi
che ne 'nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non
fuggi via,
poi che gita se n'è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval,
che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s'impiglia.
Ben faranno i Pagan,
da che 'l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d'essi testimonio.
O Ugolin de'
Fantolin, sicuro
è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco,
omai; ch'or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m'ha nostra ragion la mente stretta».
Noi sapavam che
quell' anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli
procedendo,
folgore parve quando l'aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
'Anciderammi
qualunque m'apprende';
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei l'udir
nostro ebbe triegua,
ed ecco l'altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:
«Io sono Aglauro che
divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era l'aura d'ogne
parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo
che dovria l'uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete
l'esca, sì che l'amo
de l'antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi 'l cielo e
'ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l'occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne».
Quanto tra l'ultimar
de l'ora terza
e 'l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già
inver' la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien
per mezzo 'l naso,
perché per noi girato era sì 'l monte,
che già dritti andavamo inver' l'occaso,
quand' io senti' a me
gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m'eran le cose non conte;
ond' io levai le mani
inver' la cima
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
che del soverchio visibile lima.
Come quando da
l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e
tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce
rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
«Che è quel, dolce
padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?».
«Non ti maravigliar
s'ancor t'abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch'om saglia.
Tosto sarà ch'a veder
queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».
Poi giunti fummo a
l'angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».
Noi montavam, già
partiti di linci,
e 'Beati misericordes!' fue
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.
Lo mio maestro e io
soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza'mi a lui sì
dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?».
Per ch'elli a me: «Di
sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s'ammiri
se ne riprende perché men si piagna.
Perché s'appuntano i
vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a' sospiri.
Ma se l'amor de la
spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si
dice più lì 'nostro',
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son d'esser
contento più digiuno»,
diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com' esser puote
ch'un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me: «Però
che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e
ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com' a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto
trova d'ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr' essa l'etterno valore.
E quanta gente più là
sù s'intende,
più v'è da bene amare, e più vi s'ama,
e come specchio l'uno a l'altro rende.
E se la mia ragion
non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun' altra brama.
Procaccia pur che
tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».
Com' io voleva dicer
'Tu m'appaghe',
vidimi giunto in su l'altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una
visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su
l'entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo
padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.
Indi m'apparve
un'altra con quell' acque
giù per le gote che 'l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu se'
sire de la villa
del cui nome ne' dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di quelle
braccia ardite
ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E 'l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con
viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?».
Poi vidi genti accese
in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi,
per la morte
che l'aggravava già, inver' la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l'alto Sire,
in tanta guerra,
che perdonasse a' suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l'anima mia
tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi
potea vedere
far sì com' om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se' venuto più che
mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre mio,
se tu m'ascolte,
io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu avessi
cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che vedesti fu
perché non scuse
d'aprir lo core a l'acque de la pace
che da l'etterno fonte son diffuse.
Non dimandai
"Che hai?" per quel che face
chi guarda pur con l'occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti
forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».
Noi andavam per lo
vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco
un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l'aere puro.
Buio d'inferno e di
notte privata
d'ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant' esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio
sì grosso velo
come quel fummo ch'ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l'occhio stare
aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s'accostò e l'omero m'offerse.
Sì come cieco va
dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che 'l molesti, o forse ancida,
m'andava io per
l'aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci, e
ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l'Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur 'Agnus Dei'
eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono spirti,
maestro, ch'i' odo?»,
diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d'iracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se' che 'l
nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per una voce
detto fue;
onde 'l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O creatura che
ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti seguiterò
quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l'udir ci terrà giunti in quella vece».
Allora incominciai:
«Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l'infernale ambascia.
E se Dio m'ha in sua
grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi
fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte».
«Lombardo fui, e fu'
chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco.
Per montar sù
dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui: «Per fede
mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego.
Prima era scempio, e
ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio.
Lo mondo è ben così
tutto diserto
d'ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che
m'addite la cagione,
sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir, che
duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne
cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi
fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri
movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica,
lume v'è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che,
se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a
miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.
Però, se 'l mondo
presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui
che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima semplicetta
che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in
pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge
per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi
pon mano ad esse?
Nullo, però che 'l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l'unghie fesse;
per che la gente, che
sua guida vede
pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la
mala condotta
è la cagion che 'l mondo ha fatto reo,
e non natura che 'n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che 'l
buon mondo feo,
due soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha
spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l'un con l'altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti,
l'un l'altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch'ogn' erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch'Adice
e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente
indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d'appressarsi.
Ben v'èn tre vecchi
ancora in cui rampogna
l'antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e
'l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la
Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio», diss'
io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è
quel che tu per saggio
di' ch'è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar
m'inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome
io nol conosco,
s'io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l'albor che per
lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l'angelo è ivi) prima ch'io li paia».
Così tornò, e più non volle udirmi.
Ricorditi, lettor, se
mai ne l'alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori
umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine
leggera
in giugnere a veder com' io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì, pareggiando i
miei co' passi fidi
del mio maestro, usci' fuor di tal nube
ai raggi morti già ne' bassi lidi.
O imaginativa che ne
rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se 'l
senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De l'empiezza di lei
che mutò forma
ne l'uccel ch'a cantar più si diletta,
ne l'imagine mia apparve l'orma;
e qui fu la mia mente
sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a
l'alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era
il grande Assüero,
Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine
rompeo
sé per sé stessa, a guisa d'una bulla
cui manca l'acqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone
una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t'hai per non
perder Lavina;
or m'hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina».
Come si frange il
sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così l'imaginar mio
cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch'è in nostro uso.
I' mi volgea per
veder ov' io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia
tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che
nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava.
«Questo è divino
spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa con noi, come
l'uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l'uopo vede,
malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a tanto
invito il piede;
procacciam di salir pria che s'abbui,
ché poi non si poria, se 'l dì non riede».
Così disse il mio
duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto ch'io al primo grado fui,
senti'mi presso quasi
un muover d'ala
e ventarmi nel viso e dir: 'Beati
pacifici, che son sanz' ira mala!'.
Già eran sovra noi
tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
'O virtù mia, perché
sì ti dilegue?',
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove più
non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave ch'a la piaggia arriva.
E io attesi un poco,
s'io udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
«Dolce mio padre, dì,
quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
Ed elli a me: «L'amor
del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché più aperto
intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora».
«Né creator né
creatura mai»,
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d'animo; e tu 'l sai.
Lo naturale è sempre
sanza errore,
ma l'altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch'elli è nel
primo ben diretto,
e ne' secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si
torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra 'l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender
puoi ch'esser convene
amor sementa in voi d'ogne virtute
e d'ogne operazion che merta pene.
Or, perché mai non
può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l'odio proprio son le cose tute;
e perché intender non
si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se dividendo
bene stimo,
che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo
vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia,
onore e fama
teme di perder perch' altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama;
ed è chi per ingiuria
par ch'aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che 'l male altrui impronti.
Questo triforme amor
qua giù di sotto
si piange: or vo' che tu de l'altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente
un bene apprende
nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui
veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben è che non
fa l'uom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, d'ogne ben frutto e radice.
L'amor ch'ad esso
troppo s'abbandona,
di sovr' a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
Posto avea fine al
suo ragionamento
l'alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s'io parea contento;
e io, cui nova sete
ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse
lo troppo dimandar ch'io fo li grava'.
Ma quel padre verace,
che s'accorse
del timido voler che non s'apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond' io: «Maestro, il
mio veder s'avviva
sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, dolce
padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e 'l suo contraro».
«Drizza», disse,
«ver' me l'agute luci
de lo 'ntelletto, e fieti manifesto
l'error de' ciechi che si fanno duci.
L'animo, ch'è creato
ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da
esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l'animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver'
di lei si piega,
quel piegare è amor, quell' è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come 'l foco
movesi in altura
per la sua forma ch'è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così l'animo preso
entra in disire,
ch'è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer
quant' è nascosa
la veritate a la gente ch'avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar
la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera».
«Le tue parole e 'l
mio seguace ingegno»,
rispuos' io lui, «m'hanno amor discoverto,
ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s'amore è di
fuori a noi offerto
e l'anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto».
Ed elli a me: «Quanto
ragion qui vede,
dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta
pur a Beatrice, ch'è opra di fede.
Ogne forma sustanzïal,
che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar
non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.
Però, là onde vegna
lo 'ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de' primi appetibili l'affetto,
che sono in voi sì
come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa
ogn' altra si raccoglia,
innata v'è la virtù che consiglia,
e de l'assenso de' tener la soglia.
Quest' è 'l principio
là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando
andaro al fondo,
s'accorser d'esta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di
necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s'accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile virtù
Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende».
La luna, quasi a
mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com' un secchion che tuttor arda;
e correa contra 'l
ciel per quelle strade
che 'l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade.
E quell' ombra gentil
per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per ch'io, che la
ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com' om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza
mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno già
vide e Asopo
lungo di sé di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron
suo passo falca,
per quel ch'io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr' a
noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
«Maria corse con
fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
«Ratto, ratto, che 'l
tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda».
«O gente in cui
fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e
certo i' non vi bugio,
vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca;
però ne dite ond' è presso il pertugio».
Parole furon queste
del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a
muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San
Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l'un
piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d'avere avuta possa;
perché suo figlio,
mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero».
Io non so se più
disse o s'ei si tacque,
tant' era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che m'era ad
ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a l'accidïa di morso».
Di retro a tutti
dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar s'aperse,
che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che
l'affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d'Anchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse».
Poi quando fuor da
noi tanto divise
quell' ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual più altri
nacquero e diversi;
e tanto d'uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e 'l pensamento in sogno trasmutai.
Ne l'ora che non può
'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
- quando i geomanti
lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l'alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una
femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come
'l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta
la drizzava
in poco d'ora, e lo smarrito volto,
com' amor vuol, così le colorava.
Poi ch'ell' avea 'l
parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava,
«io son dolce serena,
che ' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del
suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s'ausa,
rado sen parte; sì tutto l'appago!».
Ancor non era sua
bocca richiusa,
quand' una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio,
Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L'altra prendea, e
dinanzi l'apria
fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n'uscia.
Io mossi li occhi, e
'l buon maestro: «Almen tre
voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l'aperta per la qual tu entre».
Sù mi levai, e tutti
eran già pieni
de l'alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava
la mia fronte
come colui che l'ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand' io udi'
«Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con l'ali aperte, che
parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e
ventilonne,
'Qui lugent' affermando esser beati,
ch'avran di consolar l'anime donne.
«Che hai che pur
inver' la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l'angel sormontati.
E io: «Con tanta
sospeccion fa irmi
novella visïon ch'a sé mi piega,
sì ch'io non posso dal pensar partirmi».
«Vedesti», disse,
«quell'antica strega
che sola sovr' a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega.
Bastiti, e batti a
terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
Quale 'l falcon, che
prima a' pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec' io; e
tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n'andai infin dove 'l cerchiar si prende.
Com' io nel quinto
giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
'Adhaesit
pavimento anima mea'
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s'intendea.
«O eletti di Dio, li
cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
«Se voi venite dal
giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
Così pregò 'l poeta,
e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io
nel parlare avvisai l'altro nascosto,
e volsi li occhi a li
occhi al segnor mio:
ond' elli m'assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi ch'io potei di me
fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: «Spirto in
cui pianger matura
quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perché
vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri
cosa di là ond' io vivendo mossi».
Ed elli a me: «Perché
i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra Sïestri e
Chiaveri s'adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese e poco più
prova' io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l'altre some.
La mia conversïone,
omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non
s'acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
Fino a quel punto
misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch'avarizia fa,
qui si dichiara
in purgazion de l'anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come l'occhio
nostro non s'aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense
a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne' piedi e ne le man
legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
Io m'era
inginocchiato e volea dire;
ma com' io cominciai ed el s'accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
«Qual cagion», disse,
«in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
«Drizza le gambe,
lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo
evangelico suono
che dice 'Neque nubent' intendesti,
ben puoi veder perch' io così ragiono.
Vattene omai: non vo'
che più t'arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di là
c'ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m'è rimasa».
Contra miglior voler
voler mal pugna;
onde contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna.
Mossimi; e 'l duca
mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli;
ché la gente che
fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.
Maladetta sie tu,
antica lupa,
che più che tutte l'altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui girar
par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
Noi andavam con passi
lenti e scarsi,
e io attento a l'ombre, ch'i' sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;
e per ventura udi'
«Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: «Povera
fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo».
Seguentemente intesi:
«O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio».
Queste parole m'eran
sì piaciute,
ch'io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute.
Esso parlava ancor de
la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.
«O anima che tanto
ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle.
Non fia sanza mercé
la tua parola,
s'io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch'al termine vola».
Ed elli: «Io ti dirò,
non per conforto
ch'io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto.
Io fui radice de la
mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla,
Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là
Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.
Figliuol fu' io d'un
beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,
trova'mi stretto ne
le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno,
ch'a la corona vedova
promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la gran
dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.
Lì cominciò con forza
e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia
e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg' io, non
molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ' suoi.
Sanz' arme n'esce e
solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma
peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.
L'altro, che già uscì
preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l'altre schiave.
O avarizia, che puoi
tu più farne,
poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?
Perché men paia il
mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta
esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato
sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando
sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?
Ciò ch'io dicea di
quell' unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,
tanto è risposto a
tutte nostre prece
quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta,
contrario suon prendemo in quella vece.
Noi repetiam
Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l'oro ghiotta;
e la miseria de
l'avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.
Del folle Acàn
ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l'ira
di Iosüè qui par ch'ancor lo morda.
Indi accusiam col
marito Saffira;
lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro;
e in infamia tutto 'l monte gira
Polinestòr ch'ancise
Polidoro;
ultimamente ci si grida: "Crasso,
dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?".
Talor parla l'uno
alto e l'altro basso,
secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:
però al ben che 'l dì
ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona».
Noi eravam partiti
già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n'era permesso,
quand' io senti',
come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch'a morte vada.
Certo non si scoteo
sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse 'l nido
a parturir li due occhi del cielo.
Poi cominciò da tutte
parti un grido
tal, che 'l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido».
'Glorïa in
excelsis' tutti 'Deo'
dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.
No' istavamo immobili
e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che 'l tremar cessò ed el compiési.
Poi ripigliammo
nostro cammin santo,
guardando l'ombre che giacean per terra,
tornate già in su l'usato pianto.
Nulla ignoranza mai
con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,
quanta pareami allor,
pensando, avere;
né per la fretta dimandare er' oso,
né per me lì potea cosa vedere:
così m'andava timido e pensoso.
La sete natural che
mai non sazia
se non con l'acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava, e
pungeami la fretta
per la 'mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
Ed ecco, sì come ne
scrive Luca
che Cristo apparve a' due ch'erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un'ombra,
e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: «O frati
miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface.
Poi cominciò: «Nel
beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l'etterno essilio».
«Come!», diss' elli,
e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v'ha per la sua scala tanto scorte?».
E 'l dottor mio: «Se
tu riguardi a' segni
che questi porta e che l'angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.
Ma perché lei che dì
e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l'anima sua, ch'è tua
e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch'al nostro modo non adocchia.
Ond' io fui tratto
fuor de l'ampia gola
d'inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto 'l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai,
perché tai crolli
diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a' suoi piè molli».
Sì mi diè,
dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: «Cosa
non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d'usanza.
Libero è qui da ogne
alterazione:
di quel che 'l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d'altro, cagione.
Per che non pioggia,
non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non
paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge
più avante
ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,
dov' ha 'l vicario di Pietro le piante.
Trema forse più giù
poco o assai;
ma per vento che 'n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando alcuna
anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol
voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l'alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma
non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son
giaciuto a questa doglia
cinquecent' anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il
tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».
Così ne disse; e però
ch'el si gode
tanto del ber quant' è grande la sete,
non saprei dir quant' el mi fece prode.
E 'l savio duca:
«Omai veggio la rete
che qui vi 'mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti,
piacciati ch'io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se', ne le parole tue mi cappia».
«Nel tempo che 'l
buon Tito, con l'aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura
e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio
vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor
di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor
seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l'Eneïda dico, la
qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz' essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di
là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando».
Volser Virgilio a me
queste parole
con viso che, tacendo, disse 'Taci';
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son
tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne' più veraci.
Io pur sorrisi come
l'uom ch'ammicca;
per che l'ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca;
e «Se tanto labore in
bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?».
Or son io d'una parte
e d'altra preso:
l'una mi fa tacer, l'altra scongiura
ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e
«Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel ch'e' dimanda con cotanta cura».
Ond' io: «Forse che
tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch'io fei;
ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.
Questi che guida in
alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi.
Se cagion altra al
mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti».
Già s'inchinava ad
abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or
puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand' io dismento nostra vanitate,
trattando l'ombre come cosa salda».
Già era l'angel
dietro a noi rimaso,
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno a
giustizia lor disiro
detto n'avea beati, e le sue voci
con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro.
E io più lieve che
per l'altre foci
m'andava, sì che sanz' alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio
incominciò: «Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l'ora che tra
noi discese
nel limbo de lo 'nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza
inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch'or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come
amico mi perdona
se troppa sicurtà m'allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:
come poté trovar dentro
al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?».
Queste parole Stazio
mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose:
«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno.
Veramente più volte
appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda tuo
creder m'avvera
esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita,
forse per quella cerchia dov' io era.
Or sappi ch'avarizia
fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.
E se non fosse ch'io
drizzai mia cura,
quand' io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l'umana natura:
'Per che non reggi
tu, o sacra fame
de l'oro, l'appetito de' mortali?',
voltando sentirei le giostre grame.
Allor m'accorsi che
troppo aprir l'ali
potean le mani a spendere, e pente'mi
così di quel come de li altri mali.
Quanti risurgeran coi
crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa
che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca;
però, s'io son tra
quella gente stato
che piange l'avarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo m'è incontrato».
«Or quando tu
cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse 'l cantor de' buccolici carmi,
«per quello che Clïò
teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così è, qual sole
o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?».
Ed elli a lui: «Tu
prima m'invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come quei che
va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti:
'Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova'.
Per te poeta fui, per
te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,
a colorare stenderò la mano.
Già era 'l mondo
tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de l'etterno regno;
e la parola tua sopra
toccata
si consonava a' nuovi predicanti;
ond' io a visitarli presi usata.
Vennermi poi parendo
tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette,
sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di là
per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch'io
conducessi i Greci a' fiumi
di Tebe poetando, ebb' io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu'mi,
lungamente mostrando
paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio
cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo.
Tu dunque, che levato
hai il coperchio
che m'ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,
dimmi dov' è
Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico».
«Costoro e Persio e
io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch'altri mai,
nel primo cinghio del
carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v'è nosco e
Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
Greci che già di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de
le genti tue
Antigone, Deïfile e Argia,
e Ismene sì trista come fue.
Védeisi quella che
mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
e con le suore sue Deïdamia».
Tacevansi ambedue già
li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro
ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù l'ardente corno,
quando il mio duca:
«Io credo ch'a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo».
Così l'usanza fu lì
nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per l'assentir di quell' anima degna.
Elli givan dinanzi, e
io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
ch'a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le
dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto
si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred' io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde 'l
cammin nostro era chiuso,
cadea de l'alta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a
l'alber s'appressaro;
e una voce per entro le fronde
gridò: «Di questo cibo avrete caro».
Poi disse: «Più
pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli e intere,
ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.
E le Romane antiche,
per lor bere,
contente furon d'acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo,
quant' oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon
le vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per ch'elli è glorïoso e tanto grande
quanto per lo Vangelio v'è aperto».
Mentre che li occhi
per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi
dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole».
Io volsi 'l viso, e
'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e
cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
«O dolce padre, che è
quel ch'i' odo?»,
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo».
Sì come i peregrin
pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi,
più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era
ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava.
Non credo che così a
buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.
Io dicea fra me
stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.
Parean l'occhiaie
anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.
Chi crederebbe che
l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar
che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo
de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».
Mai non l'avrei
riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta
mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere
a l'asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia;
ma dimmi il ver di
te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch'io
lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos' io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio,
che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr' io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».
Ed elli a me: «De
l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.
Tutta esta gente che
piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar
n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta,
questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a
li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese,
da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa
in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,
come se' tu qua sù
venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond' elli a me: «Sì
tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi
devoti e con sospiri
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m'ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più
cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di
Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai.
O dolce frate, che
vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest' ora molto antica,
nel qual sarà in
pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor
mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate
fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l'antiveder
qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che
più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli».
Per ch'io a lui: «Se
tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi
volse costui
che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,
e 'l sol mostrai;
«costui per la profonda
notte menato m'ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda.
Indi m'han tratto sù
li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi
sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio è questi che
così mi dice»,
e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
Né 'l dir l'andar, né
l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento;
e l'ombre, che parean
cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continüando al
mio sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai,
dov' è Piccarda;
dimmi s'io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda».
«La mia sorella, che
tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona».
Sì disse prima; e
poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch'è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.
Questi», e mostrò col
dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l'altre trapunta
ebbe la Santa Chiesa
in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia».
Molti altri mi nomò
ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch'io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto
usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese,
ch'ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi guarda
e poi s'apprezza
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e non
so che «Gentucca»
sentiv' io là, ov' el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima», diss' io,
«che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina è nata, e
non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch'om la riprenda.
Tu te n'andrai con
questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s'i' veggio qui
colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
'Donne ch'avete intelletto d'amore'».
E io a lui: «I' mi
son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg'
io», diss' elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!
Io veggio ben come le
vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire
oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che
vernan lungo 'l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente
che lì era,
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.
E come l'uom che di
trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l'affollar del casso,
sì lasciò trapassar
la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?».
«Non so», rispuos' io
lui, «quant' io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch'io non sia col voler prima a la riva;
però che 'l loco u'
fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto».
«Or va», diss' el;
«che quei che più n'ha colpa,
vegg' ïo a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne
passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a
volger quelle ruote»,
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai;
ché 'l tempo è caro
in questo regno, sì ch'io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro».
Qual esce alcuna
volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi
con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando innanzi a
noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,
parvermi i rami
gravidi e vivaci
d'un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente sott' esso
alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e 'l
pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si partì sì come
ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
«Trapassate oltre
sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso».
Sì tra le frasche non
so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.
«Ricordivi», dicea,
«d'i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co' doppi petti;
e de li Ebrei ch'al
ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver' Madïan discese i colli».
Sì accostati a l'un
d'i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati per
la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.
«Che andate pensando
sì voi sol tre?».
sùbita voce disse; ond' io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la testa per
veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com' io vidi un che
dicea: «S'a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace».
L'aspetto suo m'avea
la vista tolta;
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,
com' om che va secondo ch'elli ascolta.
E quale,
annunziatrice de li albori,
l'aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l'erba e da' fiori;
tal mi senti' un
vento dar per mezza
la fronte, e ben senti' mover la piuma,
che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.
E senti' dir: «Beati
cui alluma
tanto di grazia, che l'amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
esurïendo sempre quanto è giusto!».
Ora era onde 'l salir
non volea storpio;
ché 'l sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa
l'uom che non s'affigge
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per
la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin
che leva l'ala
per voglia di volare, e non s'attenta
d'abbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con voglia
accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l'atto
che fa colui ch'a dicer s'argomenta.
Non lasciò, per
l'andar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca
l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto».
Allor sicuramente
apri' la bocca
e cominciai: «Come si può far magro
là dove l'uopo di nodrir non tocca?».
«Se t'ammentassi come
Meleagro
si consumò al consumar d'un stizzo,
non fora», disse, «a te questo sì agro;
e se pensassi come,
al vostro guizzo,
guizza dentro a lo specchio vostra image,
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché dentro a
tuo voler t'adage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage».
«Se la veduta etterna
li dislego»,
rispuose Stazio, «là dove tu sie,
discolpi me non potert' io far nego».
Poi cominciò: «Se le
parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che
poi non si beve
da l'assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a
tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch'a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende
ov' è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr' altrui sangue in natural vasello.
Ivi s'accoglie l'uno
e l'altro insieme,
l'un disposto a patire, e l'altro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui,
comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la
virtute attiva
qual d'una pianta, in tanto differente,
che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi, che
già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ond' è semente.
Or si spiega,
figliuolo, or si distende
la virtù ch'è dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.
Ma come d'animal
divegna fante,
non vedi tu ancor: quest' è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che per sua
dottrina fé disgiunto
da l'anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la verità che
viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
l'articular del cerebro è perfetto,
lo motor primo a lui
si volge lieto
sovra tant' arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,
che ciò che trova
attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi un'alma sola,
che vive e sente e sé in sé rigira.
E perché meno ammiri
la parola,
guarda il calor del sol che si fa vino,
giunto a l'omor che de la vite cola.
Quando Làchesis non
ha più del lino,
solvesi da la carne, e in virtute
ne porta seco e l'umano e 'l divino:
l'altre potenze tutte
quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
in atto molto più che prima agute.
Sanza restarsi, per
sé stessa cade
mirabilmente a l'una de le rive;
quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco lì la
circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.
E come l'aere, quand'
è ben pïorno,
per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
così l'aere vicin quivi
si mette
e in quella forma ch'è in lui suggella
virtüalmente l'alma che ristette;
e simigliante poi a
la fiammella
che segue il foco là 'vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella.
Però che quindi ha
poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e
quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ' sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci
affliggono i disiri
e li altri affetti, l'ombra si figura;
e quest' è la cagion di che tu miri».
E già venuto a
l'ultima tortura
s'era per noi, e vòlto a la man destra,
ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa fiamma
in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;
ond' ir ne convenia
dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa 'l foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio dicea:
«Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
però ch'errar potrebbesi per poco».
'Summae Deus
clementïae' nel seno
al grande ardore allora udi' cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti per la
fiamma andando;
per ch'io guardava a loro e a' miei passi,
compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il fine ch'a
quell' inno fassi,
gridavano alto: 'Virum non cognosco';
indi ricominciavan l'inno bassi.
Finitolo, anco
gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco».
Indi al cantar
tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo
che lor basti
per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da sezzo si ricuscia.
Mentre che sì per
l'orlo, uno innanzi altro,
ce n'andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»;
feriami il sole in su
l'omero destro,
che già, raggiando, tutto l'occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con
l'ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt' ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion
che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto
potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non
per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.
Né solo a me la tua
risposta è uopo;
ché tutti questi n'hanno maggior sete
che d'acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com' è che fai
di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
Sì mi parlava un
d'essi; e io mi fora
già manifesto, s'io non fossi atteso
ad altra novità ch'apparve allora;
ché per lo mezzo del
cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso.
Lì veggio d'ogne
parte farsi presta
ciascun' ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
così per entro loro
schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna.
Tosto che parton
l'accoglienza amica,
prima che 'l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s'affatica:
la nova gente:
«Soddoma e Gomorra»;
e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché 'l torello a sua lussuria corra».
Poi, come grue ch'a
le montagne Rife
volasser parte, e parte inver' l'arene,
queste del gel, quelle del sole schife,
l'una gente sen va,
l'altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a' primi canti
e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a me,
come davanti,
essi medesmi che m'avean pregato,
attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.
Io, che due volte
avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d'aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe
né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci sù vo per non
esser più cieco;
donna è di sopra che m'acquista grazia,
per che 'l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra
maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi
ch'è pien d'amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò
ch'ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a' vostri terghi».
Non altrimenti
stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s'inurba,
che ciascun' ombra
fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,
«Beato te, che de le
nostre marche»,
ricominciò colei che pria m'inchiese,
«per morir meglio, esperïenza imbarche!
La gente che non vien
con noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
"Regina" contra sé chiamar s'intese:
però si parton
"Soddoma" gridando,
rimproverando a sé com' hai udito,
e aiutan l'arsura vergognando.
Nostro peccato fu
ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l'appetito,
in obbrobrio di noi,
per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e
di che fummo rei:
se forse a nome vuo' saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me
volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch'a lo stremo».
Quali ne la tristizia
di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo,
quand' io odo nomar
sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d'amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir
pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m'appressai.
Poi che di riguardar
pasciuto fui,
tutto m'offersi pronto al suo servigio
con l'affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu
lasci tal vestigio,
per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole
or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d'avermi caro».
E io a lui: «Li dolci
detti vostri,
che, quanto durerà l'uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse,
«questi ch'io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose
di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi.
A voce più ch'al ver
drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.
Così fer molti
antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l'ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio
privilegio,
che licito ti sia l'andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir
d'un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar
luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l'acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato
innanzi un poco,
e dissi ch'al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò
liberamente a dire:
«Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que
plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per
aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s'ascose nel foco che li affina.
Sì come quando i
primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da
nona rïarse,
sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma
stava in su la riva,
e cantava 'Beati mundo corde!'
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia «Più non si
va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde»,
ci disse come noi li fummo
presso;
per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse
mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le
buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi!
E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo che
se dentro a l'alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d'un capel calvo.
E se tu forse credi
ch'io t'inganni,
fatti ver' lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d'i tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù
ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscïenza.
Quando mi vide star
pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro».
Come al nome di Tisbe
aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che 'l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza
fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond' ei crollò la
fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa ch'è vinto al pome.
Poi dentro al foco
innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com' fui dentro,
in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio,
per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Guidavaci una voce
che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
'Venite, benedicti
Patris mei',
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
«Lo sol sen va»,
soggiunse, «e vien la sera;
non v'arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l'occidente non si annera».
Dritta salia la via
per entro 'l sasso
verso tal parte ch'io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch'era già basso.
E di pochi scaglion
levammo i saggi,
che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che 'n tutte
le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d'uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d'un
grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e 'l diletto.
Quali si stanno
ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l'ombra,
mentre che 'l sol ferve,
guardate dal pastor, che 'n su la verga
poggiato s'è e lor di posa serve;
e quale il mandrïan
che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e
tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d'alta grotta.
Poco parer potea lì
del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì
mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.
Ne l'ora, credo, che
de l'orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d'amor par sempre ardente,
giovane e bella in
sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il
mio nome dimanda
ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo
specchio, qui m'addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell' è d'i suoi belli
occhi veder vaga
com' io de l'addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l'ovrare appaga».
E già per li
splendori antelucani,
che tanto a' pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da
tutti lati,
e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi,
veggendo i gran maestri già levati.
«Quel dolce pome che
per tanti rami
cercando va la cura de' mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me
queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra
voler mi venne
de l'esser sù, ch'ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta
sotto noi
fu corsa e fummo in su 'l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal
foco e l'etterno
veduto hai, figlio; e se' venuto in parte
dov' io per me più oltre non discerno.
Tratto t'ho qui con
ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.
Vedi lo sol che 'n
fronte ti riluce;
vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan
lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir
più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio».
Vago già di cercar
dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch'a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar,
lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d'ogne parte auliva.
Un'aura dolce, sanza
mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde,
tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u' la prim' ombra gitta il santo monte;
non però dal loro
esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d'operare ogne lor arte;
ma con piena letizia
l'ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in
ramo si raccoglie
per la pineta in su 'l lito di Chiassi,
quand' Ëolo scilocco fuor discioglie.
Già m'avean
trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch'io
non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi;
ed ecco più andar mi
tolse un rio,
che 'nver' sinistra con sue picciole onde
piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo.
Tutte l'acque che son
di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova
bruna bruna
sotto l'ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristetti e
con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d'i freschi mai;
e là m'apparve, sì
com' elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che
si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond' era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna,
che a' raggi d'amore
ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di
trarreti avanti»,
diss' io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch'io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar
dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».
Come si volge, con le
piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i
vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei
esser contenti,
sì appressando sé, che 'l dolce suono
veniva a me co' suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove
l'erbe sono
bagnate già da l'onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che
splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l'altra
riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l'alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il
fiume lontani;
ma Elesponto, là 've passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro
non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch' allor non s'aperse.
«Voi siete nuovi, e
forse perch' io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l'umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi
alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se' dinanzi
e mi pregasti,
dì s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta
ad ogne tua question tanto che basti».
«L'acqua», diss' io,
«e 'l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch'io udi' contraria a questa».
Ond' ella: «Io dicerò
come procede
per sua cagion ciò ch'ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede.
Lo sommo Ben, che
solo esso a sé piace,
fé l'uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr' a lui d'etterna pace.
Per sua difalta qui
dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.
Perché 'l turbar che
sotto da sé fanno
l'essalazion de l'acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l'uomo non facesse
alcuna guerra,
questo monte salìo verso 'l ciel tanto,
e libero n'è d'indi ove si serra.
Or perché in circuito
tutto quanto
l'aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d'alcun canto,
in questa altezza
ch'è tutta disciolta
ne l'aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch' è folta;
e la percossa pianta
tanto puote,
che de la sua virtute l'aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l'altra terra, secondo
ch'è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là
poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s'appiglia.
E saper dei che la
campagna santa
dove tu se', d'ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.
L'acqua che vedi non
surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch'acquista e perde lena;
ma esce di fontana
salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant' ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con
virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l'altra d'ogne ben fatto la rende.
Quinci Letè; così da
l'altro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri sapori
esto è di sopra.
E avvegna ch'assai possa esser sazia
la sete tua perch' io più non ti scuopra,
darotti un corollario
ancor per grazia;
né credo che 'l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.
Quelli ch'anticamente
poetaro
l'età de l'oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente
l'umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
Io mi rivolsi 'n
dietro allora tutto
a' miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l'ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna' il viso.
Cantando come donna
innamorata,
continüò col fin di sue parole:
'Beati quorum tecta sunt peccata!'.
E come ninfe che si
givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra
'l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra '
suoi passi e ' miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch'a levante mi rendei.
Né ancor fu così
nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».
Ed ecco un lustro
sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché 'l balenar,
come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: 'Che cosa è questa?'.
E una melodia dolce
correva
per l'aere luminoso; onde buon zelo
mi fé riprender l'ardimento d'Eva,
che là dove ubidia la
terra e 'l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo;
sotto 'l qual se
divota fosse stata,
avrei quelle ineffabili delizie
sentite prima e più lunga fïata.
Mentr' io m'andava
tra tante primizie
de l'etterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,
dinanzi a noi, tal
quale un foco acceso,
ci si fé l'aere sotto i verdi rami;
e 'l dolce suon per canti era già inteso.
O sacrosante Vergini,
se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami.
Or convien che
Elicona per me versi,
e Uranìe m'aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.
Poco più oltre, sette
alberi d'oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;
ma quand' i' fui sì
presso di lor fatto,
che l'obietto comun, che 'l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù ch'a ragion
discorso ammanna,
sì com' elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare 'Osanna'.
Di sopra fiammeggiava
il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi
d'ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l'aspetto
a l'alte cose
che si movieno incontr' a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.
La donna mi sgridò:
«Perché pur ardi
sì ne l'affetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
Genti vid' io allor,
come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.
L'acqua imprendëa dal
sinistro fianco,
e rendea me la mia sinistra costa,
s'io riguardava in lei, come specchio anco.
Quand' io da la mia
riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta,
e vidi le fiammelle
andar davante,
lasciando dietro a sé l'aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra
rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.
Questi ostendali in
dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.
Sotto così bel ciel
com' io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan: «Benedicta
tue
ne le figlie d'Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».
Poscia che i fiori e
l'altre fresche erbette
a rimpetto di me da l'altra sponda
libere fuor da quelle genti elette,
sì come luce luce in
ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di
sei ali;
le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme
più non spargo
rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,
tanto ch'a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechïel,
che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne
le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch'a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
Lo spazio dentro a
lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch'al collo d'un grifon tirato venne.
Esso tendeva in sù
l'una e l'altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch'a nulla, fendendo, facea male.
Tanto salivan che non
eran viste;
le membra d'oro avea quant' era uccello,
e bianche l'altre, di vermiglio miste.
Non che Roma di carro
così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che,
svïando, fu combusto
per l'orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in giro da
la destra rota
venian danzando; l'una tanto rossa
ch'a pena fora dentro al foco nota;
l'altr' era come se
le carni e l'ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la
bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l'altre toglien l'andare e tarde e ratte.
Da la sinistra
quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.
Appresso tutto il
pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
L'un si mostrava
alcun de' famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch'ell' ha più cari;
mostrava l'altro la
contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.
Poi vidi quattro in
umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette col
primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e
d'altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da' cigli.
E quando il carro a
me fu a rimpetto,
un tuon s'udì, e quelle genti degne
parvero aver l'andar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.
Quando il settentrïon
del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d'altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì
ciascuno accorto
di suo dover, come 'l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s'affisse: la
gente verace,
venuta prima tra 'l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi
da ciel messo,
'Veni, sponsa, de Libano' cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al
novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la
divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: 'Benedictus
qui venis!',
e fior gittando e di sopra e dintorno,
'Manibus, oh, date lilïa plenis!'.
Io vidi già nel
cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol
nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una
nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel
cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che
già cotanto
tempo era stato ch'a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi
aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista
mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di püerizia fosse,
volsimi a la sinistra
col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a
Virgilio: 'Men che dramma
di sangue m'è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l'antica fiamma'.
Ma Virgilio n'avea
lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die'mi;
né quantunque perdeo
l'antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché
Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi ammiraglio che
in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l'incora;
in su la sponda del
carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che
pria m'appario
velata sotto l'angelica festa,
drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.
Tutto che 'l vel che
le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l'atto
ancor proterva
continüò come colui che dice
e 'l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben
son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
non sapei tu che qui è l'uom felice?».
Li occhi mi cadder giù
nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al
figlio par superba,
com' ella parve a me; perché d'amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li
angeli cantaro
di sùbito 'In te, Domine, speravi';
ma oltre 'pedes meos' non passaro.
Sì come neve tra le
vive travi
per lo dosso d'Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in
sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza
lagrime e sospiri
anzi 'l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che 'ntesi ne
le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: 'Donna, perché sì lo stempre?',
lo gel che m'era
intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su
la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
«Voi vigilate ne
l'etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta
è con più cura
che m'intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d'una misura.
Non pur per ovra de
le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di
grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la
sua vita nova
virtüalmente, ch'ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno
e più silvestro
si fa 'l terren col mal seme e non cólto,
quant' elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il
sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su
la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a
spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi
per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né l'impetrare
ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che
tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai
l'uscio d'i morti,
e a colui che l'ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio
sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda».
«O tu che se' di là
dal fiume sacro»,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m'era paruto acro,
ricominciò, seguendo
sanza cunta,
«dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta».
Era la mia virtù tanto
confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi
disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l'acqua offense».
Confusione e paura
insieme miste
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste.
Come balestro frange,
quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e l'arco,
e con men foga l'asta il segno tocca,
sì scoppia' io
sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.
Ond' ella a me: «Per
entro i mie' disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s'aspiri,
quai fossi
attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?
E quali agevolezze o
quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?».
Dopo la tratta d'un
sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro.
Piangendo dissi: «Le
presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose».
Ed ella: «Se tacessi
o se negassi
ciò che confessi, non fora men nota
la colpa tua: da tal giudice sassi!
Ma quando scoppia de
la propria gota
l'accusa del peccato, in nostra corte
rivolge sé contra 'l taglio la rota.
Tuttavia, perché mo
vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù il seme del
piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti mia carne sepolta.
Mai non t'appresentò
natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch'io
rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte;
e se 'l sommo piacer
sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi, per lo
primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovea gravar
le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Novo augelletto due o
tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d'i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta».
Quali fanciulli,
vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav' io; ed
ella disse: «Quando
per udir se' dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».
Con men di resistenza
si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
ch'io non levai al
suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l'argomento.
E come la mia faccia
si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l'occhio comprese;
e le mie luci, ancor
poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch'è sola una persona in due nature.
Sotto 'l suo velo e
oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l'altre qui, quand' ella c'era.
Di penter sì mi punse
ivi l'ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il
cor mi morse,
ch'io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor
virtù di fuor rendemmi,
la donna ch'io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m'avea nel
fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l'acqua lieve come scola.
Quando fui presso a
la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna ne le
braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e
bagnato m'offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
«Noi siam qui ninfe e
nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi
suoi; ma nel giocondo
lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo».
Così cantando
cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: «Fa che le
viste non risparmi;
posto t'avem dinanzi a li smeraldi
ond' Amor già ti trasse le sue armi».
Mille disiri più che
fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra 'l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio
il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s'io
mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l'idolo suo si trasmutava.
Mentre che piena di
stupore e lieta
l'anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta,
sé dimostrando di più
alto tribo
ne li atti, l'altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.
«Volgi, Beatrice,
volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi
grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele».
O isplendor di viva
luce etterna,
chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver
la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t'adombra,
quando ne l'aere aperto ti solvesti?
Tant' eran li occhi
miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci e
quindi avien parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli con l'antica rete! -;
quando per forza mi
fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»;
e la disposizion ch'a
veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Ma poi ch'al poco il
viso riformossi
(e dico 'al poco' per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),
vidi 'n sul braccio
destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi
per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia del
celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.
Indi a le rote si
tornar le donne,
e 'l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.
La bella donna che mi
trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l'orbita sua con minore arco.
Sì passeggiando
l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.
Forse in tre voli
tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.
Io senti' mormorare a
tutti «Adamo»;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che
tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l'Indi
ne' boschi lor per altezza ammirata.
«Beato se', grifon,
che non discindi
col becco d'esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi».
Così dintorno a
l'albero robusto
gridaron li altri; e l'animal binato:
«Sì si conserva il seme d'ogne giusto».
E vòlto al temo
ch'elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre
piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi
si rinovella
di suo color ciascuna, pria che 'l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più
che di vïole
colore aprendo, s'innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
Io non lo 'ntesi, né
qui non si canta
l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar
come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con
essempro pinga,
disegnerei com' io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Però trascorro a
quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».
Quali a veder de'
fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e
Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro
scuola
così di Moïsè come d'Elia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna' io, e vidi
quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.
E tutto in dubbio
dissi: «Ov' è Beatrice?».
Ond' ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.
Vedi la compagnia che
la circonda:
li altri dopo 'l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».
E se più fu lo suo
parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m'era
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.
Sola sedeasi in su la
terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le facevan
di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.
«Qui sarai tu poco
tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del
mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».
Così Beatrice; e io,
che tutto ai piedi
d'i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov' ella volle diedi.
Non scese mai con sì
veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,
com' io vidi calar
l'uccel di Giove
per l'alber giù, rompendo de la scorza,
non che d'i fiori e de le foglie nove;
e ferì 'l carro di
tutta sua forza;
ond' el piegò come nave in fortuna,
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.
Poscia vidi
avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d'ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei
di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l'ossa sanza polpe.
Poscia per indi ond'
era pria venuta,
l'aguglia vidi scender giù ne l'arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;
e qual esce di cuor
che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com' mal se' carca!».
Poi parve a me che la
terra s'aprisse
tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa che
ritragge l'ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.
Quel che rimase, come
da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne
ricoperta
e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.
Trasformato così 'l
dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.
Le prime eran cornute
come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.
Sicura, quasi rocca
in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;
e come perché non li
fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché l'occhio
cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto
pieno e d'ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
'Deus, venerunt
gentes', alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
e Bëatrice, sospirosa
e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
Ma poi che l'altre
vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:
'Modicum, et non
videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me'.
Poi le si mise
innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e 'l savio che ristette.
Così sen giva; e non
credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo
aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com' io fui, com'
io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color che
troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che
sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».
Ed ella a me: «Da
tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com' om che sogna.
Sappi che 'l vaso che
'l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo
sanza reda
l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch'io veggio
certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,
nel quale un
cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia
narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;
ma tosto fier li
fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da
me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte.
E aggi a mente,
quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella
o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa.
Per morder quella, in
pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio.
Dorme lo 'ngegno tuo,
se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non
fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze
solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente.
Ma perch' io veggio
te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non
scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io: «Sì come cera
da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto sovra
mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s'aiuta?».
«Perché conoschi»,
disse, «quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da
la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond' io rispuosi lei:
«Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu ricordar non
te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco
s'argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai
saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più corusco e con
più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s'affisser, sì
come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin
d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta.
Dinanzi ad esse
Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o gloria de
la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal priego
detto mi fu: «Priega
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna:
«Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice: «Forse
maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là
diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil,
che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa
preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
S'io avessi, lettor,
più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avria sazio;
ma perché piene son
tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte.
Io ritornai da la
santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
Per CONTATTI: antoniob64@libero.it
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