ROSASPINA:

LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO

di Antonio Bigliardi

 

 

C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto.

Andavano tutti gli anni nei Santuari Mariani e nei luoghi delle Acque di Luce, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla al momento apparentemente giovava a quel tanto.

Il Re e la Regina ogni giorno dicevano: “Ah se avessimo un bimbo”, ma bambini non ne arrivavano.

Allora accadde che, mentre la Regina faceva il bagno nell’Acqua vivente di un bel fiumiciattolo, dall’Acqua saltò fuori un Ranocchio Montanaro, si avvicinò a riva e così parlò alla Regina: “Il tuo desiderio sta per essere esaudito: in capo ad un anno partorirai una bella bambina, portala a contatto diretto con la Natura e le sue bellezze, ma rimani sveglia e presta attenzione affinché non venga punta a tradimento e mangiata dagli orchi”.

Quello che il Ranocchio Montanaro aveva detto si avverò, la Regina rimase incinta, e partorì una bambina talmente bella che il Re non sapeva più contenere la propria gioia e ordinò che venisse allestita una grandissima festa in onore alla figlia chiamata Rosaspina.

Fu fatto un Battesimo di gala; si diedero per comari alla Principessina tutte le Fate che si poterono trovare nel paese (ce n'erano dodici) perché ciascuna di esse le facesse un regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo.

Dopo la cerimonia del Battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle Fate.

Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d'oro solare massiccio, dove c'era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d'oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini.

Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia Fata arimanica di nome Malefica De Lorenz, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant'anni non usciva più dalla sua torre oscura e tutti la credevano morta e incantata.

Il Re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d'oro solare massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente dodici, per le dodici Fate. La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti alcune parole di minaccia.

Una delle giovani Fate, che era accanto a lei, la sentì, e per paura che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina, appena alzati da tavola, andò a nascondersi dietro una porta, per potere in questo modo esser l'ultima a parlare, e rimediare, fin quanto fosse stato possibile, al male che la vecchia avesse fatto.

Intanto le Fate cominciarono a distribuire alla Principessa i loro doni. La più giovane di tutte le diede in regalo che ella avrebbe conosciuto l’Angelo della Bellezza che dona la Gioia: un'altra, che ella avrebbe avuto il dono dello Spirito, grazie al quale poter vedere quei fili d’Oro che ci legano a tutta la Vita di ogni luogo: la terza, che avrebbe conosciuto l’incantevole Angelo della Grazia che apre gli occhi allo splendore del Sole nascente e mostra le bellezze della Natura vivente, gli Alberi sacri e tutte le sue Creature: la quarta che avrebbe conosciuto il nutrimento dell’Anima ovvero l’Arte: la quinta che avesse una Voce stupenda e avrebbe cantato come un usignolo e parlato con gli Angeli di Dio: la sesta che avrebbe conosciuto la Musica e suonato tutti gli strumenti con una perfezione eccelsa: la settima che avrebbe imparato a conoscere l’Angelo vivificante della Luce del Sole: l’ottava che avrebbe conosciuto il Cielo azzurro dove dimora l’Angelo dell’Aria: la nona che avrebbe conosciuto l’abbraccio dell’Angelo dell’Acqua purificatrice: la decima che avrebbe conosciuto la Sapienza e l’Umiltà generatrice di Purezza e Vita dell’Angelo della Terra: l’undicesima che avrebbe conosciuto l’Angelo dell’Amore che porta all’Armonia e alla Pace, la chiave di tutta la Conoscenza, di tutti i Misteri e di tutta la Vita.

Essendo venuto il momento della vecchia Fata, essa disse tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che tutti i bimbi del castello sarebbero stati punti dodici volte a tradimento, perché i suoi aghi erano stati concepiti in camere sterili di oscuri laboratori, sotto luce artificiale, per essere malefici dispensatori di morte, contenevano sostanze occulte radioattive mutagene e tossiche biomagnificanti, anche in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e così penetrare nel cervello, provocando gravi danni al sistema nervoso, inoltre che la Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso, e che ne sarebbe morta!

Questo orribile regalo uscì dalla bocca della Fata Malefica in forma biforcuta, il suono della voce si divise in due correnti, proprio come due torrenti, una parte delle persone lo interpretò come un dono salvifico per la Salute, in grado di proteggere dalle malattie e di difendere il corpo come uno scudo invincibile, mentre fece venire i brividi a tutte le altre persone della corte, e non ci fu tra loro uno solo che non fosse preoccupato e piangesse.

A questo punto, la giovane Fata uscì da dietro la porta e disse forte queste parole: "Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si pungerà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, ma per lei sarà un solo attimo, perché l’Amore è in grado di fermare il Tempo e Unire i Cuori, in capo ai quali un Principe coraggioso, figlio di un Re la verrà a svegliare, gli darò la facoltà di vincere la Paura e conoscere la Natura vivente affinché i loro figli e tutti i bimbi non vengano più punti a tradimento con sostanze tossiche o nocive, arrivando a comprendere che è attraverso la Purezza, ovvero purificando il Corpo, l’Anima e lo Spirito, che si arriva alla Salute, e allora la Natura diventerà la loro alleata; se volete che i Figli degli Uomini si salvino e trovino la Vita eterna, dovrete insegnare loro come vivere e come nutrirsi, tornando a leggere le pagine viventi di Madre Terra. Perché la Legge dell’Amore guaritore è scritta in tutto ciò che è Movimento e Vita, ed è proprio questa Vita che dona la Salute e l’Unione con il Padre Celeste".

 Il Re, per la passione di scansare la sciagura annunziatagli dalla vecchia, fece subito bandire un editto, col quale era proibito a tutti di filare col fuso e di tenere fusi per casa, pena la vita.

Rosaspina cresceva bellissima e amava andare nel bosco a parlare e cantare con gli Uccellini, con i Conigli, i Gatti e le Volpi, amava gli Alberi, i piccoli Cervi, le Lucciole, le Api, e tutta la Natura era in festa accanto al suo Cuore dolcissimo.

 

 

Fatto sta, che passati quindici - sedici anni, il Re e la Regina essendo andati a una loro villa, accadde che la Principessina, correndo un giorno per il castello e mutando da un quartiere all'altro, salì fino in cima a una torre, dove in una piccola soffitta c'era una vecchina, che se ne stava sola, filando la sua rocca.

Questa buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal Re di filare col fuso. "Che fate voi, buona donna?", disse la Principessa. "Son qui che filo, mia bella ragazza", le rispose la vecchia, che non la conosceva punto. "Oh! carino, carino tanto!", disse la Principessa, "ma come fate? datemi un po' qua, che voglio vedere se mi riesce anche a me." Vivacissima e anche un tantino avventata com'era (e d'altra parte il decreto della Fata voleva così), non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e cadde svenuta.

La buona vecchia, non sapendo che cosa fare, si mise a gridare aiuto. Corse gente da tutte le parti; spruzzarono dell'acqua sul viso alla Principessa: le sganciarono i vestiti, le batterono sulle mani, le stropicciarono le tempie con acqua profumata della Regina Isabella d'Ungheria; ma non c’era verso di farla tornare in sé.

Allora il Re, che era accorso al rumore, si ricordò della predizione delle Fate: e sapendo bene che questa cosa doveva accadere, perché le Fate l'avevano detto, fece mettere la Principessa nel più bell'appartamento del palazzo, sopra un letto tutto ricami d'oro e d'argento, come il Sole e la Luna. Si sarebbe detta un Angelo, tanto era bella: perché lo svenimento non aveva scemato nulla alla bella tinta rosa del suo colorito: le gote erano di un bel carnato, e le labbra come il corallo. Ella aveva soltanto gli occhi chiusi: ma si sentiva respirare dolcemente; e così dava a vedere che non era morta. Il Re ordinò che la lasciassero dormire in pace finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi.

 

 

La buona Fata, che le aveva salvata la Vita, condannandola a dormire per cento anni, si trovava nel regno di Matacchino, distante di là dodici mila chilometri, quando capitò alla Principessa questa disgrazia: ma ne fu avvertita in un baleno da un piccolo Nano che portava ai piedi degli stivali di sette chilometri (erano stivali, coi quali si facevano sette chilometri per ogni gambata). La Fata partì subito, e in men di un'ora fu vista arrivare dentro un carro di fuoco, tirato dai draghi. Il Re andò ad offrirle la mano, per farla scendere dal carro. Ella diede un'occhiata a quanto era stato fatto: e perché era molto prudente, pensò che quando la Principessa venisse a svegliarsi, si vedrebbe in un brutto impiccio, a trovarsi sola in quel vecchio castello; ed ecco quello che fece.

Toccò con la sua bacchetta tutto ciò che era nel castello (meno il Re e la Regina) governanti, damigelle d'onore, cameriste, gentiluomini, ufficiali, maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, svizzeri, paggi e servitori; e così toccò ugualmente tutti i cavalli, che erano nella scuderia coi loro palafrenieri e i grossi mastini di guardia nei cortili e la piccola Puffe, la cagnetta della Principessa, che era accanto a lei, sul suo letto. Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di verdure grigliate prelibate, si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d'occhio; perché le Fate sono sveltissime nelle loro faccende.

Allora il Re e la Regina, quand'ebbero baciata la loro figliuola, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero bandire che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi. E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d'un quarto d'ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non c'era pericolo che uomo o animale potesse passarvi attraverso. Si vedevano appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran distanza. E anche qui è facile riconoscere che la Fata aveva trovato un ripiego del suo mestiere, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse a temere l'indiscretezza dei curiosi.

 

 

In capo a cent'anni, il figlio del Re che regnava allora, e che era di un'altra Famiglia che non aveva a far nulla con quella della Principessa addormentata, andando a caccia in quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella folta boscaglia. Ciascuno gli rispose, secondo quello che ne avevano sentito dire: chi gli diceva che era un vecchio castello abitato dagli spiriti; chi raccontava che tutti gli stregoni del vicinato ci facevano il loro sabato.

La voce più comune era quella che ci stesse di casa un Orco Burlone, il quale portava dentro tutti i ragazzi che poteva agguantare, per poi farli pungere con l’inganno e mangiarseli a suo comodo, e senza pericolo che qualcuno lo rincorresse, perché egli solo credeva di aver la virtù della scienza infusa ed era in grado di aprirsi una strada attraverso il bosco.

Il Principe non sapeva a chi dar retta, quando un vecchio umile contadino prese la parola e gli disse: "Mio buon Principe, sarà ormai più di cinquant'anni che ho sentito raccontare da mio Padre che in quel castello c'era una Principessa, la più bella che si potesse mai vedere; che essa doveva dormirvi cento anni, e che sarebbe destata dal figlio di un Re, al quale era destinata in Sposa".

A queste parole, il Principe s'infiammò; senza esitare un attimo, pensò che sarebbe stato lui, quello che avrebbe condotto a fine una sì bella avventura, e spinto dall'Amore e dalla gloria, decise di mettersi subito alla prova.

Appena si mosse verso il bosco, ecco che la Natura vivente si mise in movimento, subito tutti gli Alberi d'alto fusto e i pruneti e i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare.

Egli s'incamminò verso il castello, che era in fondo a un viale, ed entrò dentro; e la cosa che gli fece un po' di stupore, fu quella di vedere che nessuno delle sue genti aveva potuto seguirlo, perché gli Alberi, appena passato lui, erano tornati a ravvicinarsi. Ma non per questo si peritò a tirare avanti per la sua strada: un Principe giovane e innamorato è sempre pieno di valore e di Valori.

Entrò in un gran cortile, dove lo spettacolo che gli apparve dinanzi agli occhi sarebbe bastato a farlo gelare di spavento.

C'era un Silenzio, che metteva Paura: dappertutto l'immagine della Morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto addormentati, e i loro bicchieri, dove c'erano sempre gli ultimi sgoccioli di vino rosso, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando. Passò quindi in un altro gran cortile, tutto lastricato di marmo; salì la scala ed entrò nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila con la carabina in braccio, e russavano come tanti ghiri; attraversò molte altre stanze piene di cavalieri e di dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere.

Entrò finalmente in una camera tutta dorata, e vide sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una Principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgoreggiante c'era qualcosa di Luminoso e di Divino, che brillava e fluiva nella Luce del Cielo che imbruniva, e si poteva scorgere, come in filigrana, la Luna crescente della Pace nell’Amore immortale.

 

 

Si accostò tremando e ammirando, e si pose in ginocchio accanto a lei, aprendo a quella Grazia tutto il suo Cuore. In quel punto, siccome la fine dell'incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!"

Il Principe, incantato da queste parole, e più ancora dal modo col quale erano dette, non sapeva come fare a esprimerle la sua grazia e la sua gratitudine. Giurò che l'amava più di se stesso. I suoi discorsi furono sconnessi e per questo piacquero di più; perché, poca eloquenza, grande Amore! Esso era più imbrogliato di lei, né c'è da farsene meraviglia, a motivo che la Principessa aveva avuto tutto il tempo per poter pensare alle cose che avrebbe avuto da dirgli: perché, a quanto pare (la storia peraltro non ne fa parola), durante un sonno così lungo, la sua buona Fata le aveva regalato dei piacevolissimi sogni colorati. Fatto sta, che erano già quattro ore che parlavano fra loro due, fitto fitto, e non si erano ancora detta la metà delle cose che avevano da dirsi.

Intanto tutte le persone del palazzo si erano svegliate con la Principessa Rosaspina: e ciascuno aveva ripreso le sue faccende: e siccome tutti non erano innamorati, così non si reggevano in piedi dalla fame. La dama d'onore, che sentiva sfinirsi come gli altri, perse la pazienza e disse ad alta voce alla Principessa che la zuppa era in tavola. Il Principe diede mano alla Principessa perché si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu abbastanza prudente da farle osservare, che era vestita come la mia nonna, e che aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come costumava un secolo addietro. Ma non per questo era meno bella. Passarono nel gran salone degli specchi e lì cenarono, serviti a tavola dagli ufficiali della Principessa.

Gli oboe e i violini suonarono delle sinfonie vecchissime, ma sempre belle, quantunque fosse quasi cent'anni che nessuno pensava più a suonarle: e dopo cena, senza metter tempo in mezzo, il grande elemosiniere li maritò nella cappella di corte, e la dama d'onore tirò le cortine del parato. Dormirono poco. La Principessa non ne aveva un gran bisogno, e il Principe, appena fece giorno, la lasciò per ritornare in città, dove il padre suo stava in pensiero per lui. Il Principe gli dette a intendere che, nell'andare a caccia, s'era perso in una foresta e che aveva dormito nella capanna d'un carbonaio, dove aveva mangiato del pane nero e un po' di formaggio.

Quel buon uomo di suo padre, che era proprio un buon uomo, ci credette: ma non fu così di sua madre, la quale, vedendo che il figliuolo andava quasi tutti i giorni a caccia e che aveva sempre degli ammennicoli pronti per giustificarsi, tutte le volte che gli accadeva di passare tre o quattro nottate fuori di casa, finì col mettersi in capo che ci doveva essere di mezzo qualche amoretto. Perché bisogna sapere che egli passò più di due anni insieme con la Principessa, e ne ebbe due figli; di cui il maggiore, che era una femmina, si chiamava Aurora, e il secondo che era maschio, fu chiamato Giorno, affinché promettesse di essere anche più bello della sorella.

La Regina Lo Renzolina, discendente di Malefica De Lorenz, provò più volte a interrogare il figlio, e a metterlo su per levargli di sotto qualche parola: dicendogli che in questo mondo ognuno è padrone di fare il piacer suo: ma egli non si arrisicò mai a confidarle il segreto del suo cuore. Voleva bene a sua madre; ma ne aveva paura, perché essa veniva da una famiglia d'Orchi pungitori, e il Re s'era indotto a sposarla unicamente a cagione delle sue grandi ricchezze.

Anzi c'era in corte la diceria che ella avesse tutti gli istinti dell'Orco Burlone; e che, quando vedeva passare dei ragazzetti, facesse sopra di sé degli sforzi inauditi per trattenersi dalla voglia di avventarsi su di essi, di pungerli a tradimento e di mangiarseli vivi. Ecco perché il Principe non volle mai dir nulla dei suoi segreti.

Ma quando il Re morì, e questo accadde due anni dopo, e che egli diventò il padrone del regno, fece subito bandire pubblicamente il suo matrimonio e andò con grande scialo a prendere la Regina Rosaspina sua moglie al castello. Le fu preparato un solenne ingresso nella capitale del Regno, dov'ella entrò in mezzo ai suoi due figli.

Di lì a poco tempo il Re andò a far la guerra al Re Cantalabutta, suo vicino. Lasciò la reggenza del Regno alla Regina Lo Renzolina sua madre, e le raccomandò tanto e poi tanto la moglie Rosaspina e i figliuoli suoi. Si contava che egli dovesse restare alla guerra tutta l'estate, che appena fu partito la Regina mandò la nuora e i suoi ragazzi in una casa in mezzo ai boschi, per poter meglio soddisfare le sue orribili voglie.

Dopo qualche giorno, vi andò essa pure, e una tal sera disse al suo capo cuoco: "Domani a pranzo voglio mangiare la piccola Aurora". "Ah, signora!", esclamò il cuoco. "Voglio così", rispose la Regina; e lo disse col tono di voce di un’Orchessa, che ha proprio voglia di pungere e mangiare della carne viva. "E la voglio mangiare in salsa piccante." Quel pover'uomo del cuoco, vedendo che con un'Orchessa c'era poco da scherzare, prese una grossa coltella e salì su nella camera della piccola Aurora.

Ella aveva allora quattro anni appena, e corse saltellando e ridendo a gettarglisi al collo e a chiedergli delle chicche. Egli si mise a piangere, la coltella gli cascò di mano, e così andò giù nella corte a raccogliere sterco di Vacca, e lo cucinò con una salsa piccante così buona, che la sua padrona ebbe a dire di non aver mai mangiato una cosa così squisita in tempo di vita sua. In quello stesso tempo egli aveva portato via la piccola Aurora e l'aveva data in custodia alla sua moglie, perché la nascondesse nel quartierino di sua abitazione in fondo al cortile.

Otto giorni dopo quella strega della Regina disse al suo capo cuoco: "Voglio mangiare a cena il piccolo Giorno". Egli non rispose né sì né no, risoluto com'era a farle lo stesso tiro della volta passata. Andò a cercare il piccolo Giorno, e lo trovò con una spada in mano, che tirava di scherma con una grossa scimmia: eppure non aveva più di tre anni. Lo prese e lo portò alla sua moglie, la quale lo nascose insieme con la piccola Aurora: e in luogo del fanciullo, servì in tavola dello sterco di Pecora camuffato in salsa piccante, che l'orchessa trovò delizioso.

Fin lì le cose erano andate bene; ma una sera la malvagia Regina disse al cuoco: "Voglio mangiare la Regina Rosaspina, cucinata con la stessa salsa dei suoi figliuoli". Fu allora che il povero cuoco sentì cascarsi le braccia, perché non sapeva proprio come fare a ingannarla per la terza volta.

La giovane Regina aveva vent'anni suonati, senza contare i cento passati dormendo; e la sua pelle, quantunque sempre bella e bianchissima, era diventata un po' tosta: e ora come trovare nello stallino uno sterco d’animale che avesse per l'appunto la pelle tigliosa a quel modo? Per salvare la propria vita, prese la risoluzione di tagliar la gola alla Regina e salì nella camera di lei, col fermo proposito di non dovercisi rifare due volte. Egli fece di tutto per eccitarsi e per andare in bestia, e con un pugnale in mano entrò nella camera della giovane Regina: ma non volendola prendere di sorpresa, le raccontò con grandissimo rispetto l'ordine ricevuto dalla Regina madre. "Fate pure, fate pure", ella gli disse, porgendogli il collo, "eseguite l'ordine che vi hanno dato; io andrò così a rivedere i miei figli, i miei poveri figli, che ho tanto amato."

Ella li credeva morti fin dal momento che li aveva veduti sparire, senza saperne altro. "No, no, o signora", rispose il povero cuoco, tutto intenerito, "voi non morirete nient'affatto: e non lascerete per questo di andare a rivedere i vostri figliuoli: ma li vedrete a casa mia, dov'io li ho nascosti, e anche per questa volta ingannerò la Regina, facendole mangiare qualcos’altro invece di voi." La condusse subito nella sua camera, dove, lasciandola che si sfogasse a baciare le sue creature, e a piangere con esse, se ne andò diviato a cucinare uno sterco di Cerva in salsa molto piccante, che la Regina mangiò per cena, col medesimo gusto, come se avesse mangiato la giovane Regina. Ella era molto soddisfatta della sua crudeltà; e già studiava il modo per dare a intendere al Re, quando fosse tornato, che i Lupi affamati avevano morso e divorato la Regina sua moglie e i suoi ragazzi.

Una sera che la Regina madre, secondo il suo solito, ronzava in punta di piedi per le corti e per i cortili, a fiutare l'odore della carne cruda, sentì in una stanza terrena il piccolo Giorno che piangeva, perché la sua mamma lo voleva picchiare, a causa che era stato cattivo, e sentì nello stesso tempo la piccola Aurora che implorava perdono per il suo fratellino.

L'Orchessa riconobbe la voce della Regina e dei suoi figliuoli, e furibonda d'essere stata ingannata, con una voce spaventevole, che fece tremar tutti, ordinò che la mattina dopo fosse portata in mezzo alla corte una gran vasca, e che la vasca fosse riempita di vipere, di rospi, di ramarri e di serpenti per farvi gettar dentro la Regina, i figliuoli, il capo cuoco, la moglie di lui e la sua serva di casa.

Ella aveva ordinato che fossero menati tutti con le mani legate di dietro. Essi erano lì, e già i carnefici si preparavano a gettarli nella vasca, quand'ecco che il Re, il quale non era aspettato così presto di ritorno, entrò nella corte a cavallo: esso era venuto con la posta, e domandò tutto stupito che cosa mai volesse dire quell'orrendo spettacolo.

Nessuno aveva coraggio di aprir bocca, quando l'Orchessa, presa da una rabbia indicibile nel vedere quel che vedeva, si gettò da se stessa con la testa avanti nella vasca, dove in un attimo fu punta e divorata da tutte quelle bestiacce, che c'erano state messe dentro per suo comando. A ogni modo il Re se ne mostrò addolorato, perché in fin dei conti era sua madre: ma trovò la maniera di consolarsene presto con la sua bella moglie e coi suoi bambini, finalmente Liberi di vivere la vera Vita con Amore nella Gioia e nel Rispetto della Natura vivente.

 

 

Siete Luce, Figli delle Stelle, conoscerete gli Angeli della Natura, dell’Amore e della Vita.

 

 

 

 

 

 

 

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