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Tutti i Messaggi

per la

Giornata Mondiale della Pace

 

I Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace,

iniziati da Paolo VI, proseguiti con Giovanni Paolo II,  Benedetto XVI,

ed ora affidati a Francesco, sono delle stupende

perle che porgiamo alla Vostra attenzione,

costruttori della Pace nel Mondo.

Antonio Bigliardi

 

PACEM IN TERRIS

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
GIOVANNI PP. XXIII

Sulla pace fra tutte le genti
nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà.

 

Ai venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi,
Vescovi e altri Ordinari aventi pace e comunione con la Sede Apostolica,
al clero e ai fedeli di tutto il mondo nonché a tutti gli uomini di buona volontà

 

INTRODUZIONE

L’ordine nell’universo

1. La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio.

I progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica attestano come negli esseri e nelle forze che compongono l’universo, regni un ordine stupendo; e attestano pure la grandezza dell’uomo, che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze e volgerle a suo servizio.

2. Ma i progressi scientifici e le invenzioni tecniche manifestano innanzitutto la grandezza infinita di Dio che ha creato l’universo e l’uomo. Ha creato l’universo, profondendo in esso tesori di sapienza e di bontà, come esclama il Salmista: "O Signore, Dio nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!" (Sal 8,1). "Quanto sono grandi le opere tue, o Signore! Tu hai fatto ogni cosa con sapienza"; (Sal 104,24) e ha creato l’uomo intelligente e libero, a sua immagine e somiglianza, (cf. Gen 1,26) costituendolo signore dell’universo: "Hai fatto l’uomo - esclama ancora il Salmista - per poco inferiore agli angeli, lo hai coronato di gloria e di onore; e lo hai costituito sopra le opere delle tue mani. Hai posto tutte le cose sotto i suoi piedi" (Sal 8,5-6).

L’ordine negli esseri umani

3. Con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasicché i loro rapporti non possono essere regolati che per mezzo della forza.

Sennonché il Creatore ha scolpito l’ordine anche nell’essere degli uomini: ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire: "Essi mostrano scritta nei loro cuori l’opera della legge, testimone la loro coscienza" (Rm 2,15). Del resto come potrebbe essere diversamente? Ogni opera di Dio è pure un riflesso della sua infinita sapienza: riflesso tanto più luminoso quanto più l’opera è posta in alto nella scala delle perfezioni (cf. Sal 18,8-11).

4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.

Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all’interno delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli fra le singole persone e le comunità politiche da una parte, e dall’altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.

 

I - L’ORDINE TRA GLI ESSERI UMANI

Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e di doveri

5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.

 

I diritti

Il diritto all’esistenza e ad un tenore di vita dignitoso

6. Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà (cf. enc. Divini Redemptoris di Pio XI).

Diritti riguardanti i valori morali e culturali

7. Ogni essere umano ha il diritto al rispetto della sua persona; alla buona riputazione; alla libertà nella ricerca del vero, nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione, nel coltivare l’arte, entro i limiti consentiti dall’ordine morale e dal bene comune; e ha il diritto all’obiettività nella informazione.

Scaturisce pure dalla natura umana il diritto di partecipare ai beni della cultura, e quindi il diritto ad un’istruzione di base e ad una formazione tecnico-professionale adeguata al grado di sviluppo della propria comunità politica. Ci si deve adoperare perché sia soddisfatta l’esigenza di accedere ai gradi superiori dell’istruzione sulla base del merito; cosicché gli esseri umani, nei limiti del possibile, nella vita sociale coprano posti e assumano responsabilità conformi alle loro attitudini naturali e alle loro capacità acquisite (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

Il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza

8. Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico. Infatti, come afferma con chiarezza Lattanzio: "Siamo stati creati allo scopo di rendere a Dio creatore il giusto onore che gli è dovuto, di riconoscere lui solo e di seguirlo. Questo è il vincolo di pietà che a lui ci stringe e a lui ci lega, e dal quale deriva il nome stesso di religione" (Divinae institutionis, lib. IV, c. 28, 2 PL, 6,535). Ed il nostro predecessore di i. m. Leone XIII cosi si esprime: "Questa libertà vera e degna dei figli di Dio, che mantiene alta la dignità dell’uomo, è più forte di qualunque violenza ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora. Siffatta libertà rivendicarono con intrepida costanza gli apostoli, la sancirono con gli scritti gli apologisti, la consacrarono gran numero di martiri col proprio sangue" (Enc. Libertas praestantissimum di Leone XIII).

Il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato

9. Gli esseri umani hanno il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato; e quindi il diritto di creare una famiglia, in parità di diritti e di doveri fra uomo e donna; come pure il diritto di seguire la vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

La famiglia, fondata sul matrimonio contratto liberamente, unitario e indissolubile, è e deve essere considerata il nucleo naturale ed essenziale della società. Verso di essa vanno usati i riguardi di natura economica, sociale, culturale e morale che ne consolidano la stabilità e facilitano l’adempimento della sua specifica missione.

I genitori posseggono un diritto di priorità nel mantenimento dei figli e nella loro educazione (cf. enc. Casti connubii di Pio XI).

Diritti attinenti il mondo economico

10. Agli esseri umani è inerente il diritto di libera iniziativa in campo economico e il diritto al lavoro (cf. Radiomessaggio di Pentecoste di Pio XII, 10).

A siffatti diritti è indissolubilmente congiunto il diritto a condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e del buon costume, e non intralcianti lo sviluppo integrale degli esseri umani in formazione; e, per quanto concerne le donne, il diritto a condizioni di lavoro conciliabili con le loro esigenze e con i loro doveri di spose e di madri (cf. enc. Rerum novarum di Leone XIII).

Dalla dignità della persona scaturisce pure il diritto di svolgere le attività economiche in attitudine di responsabilità (cf. enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII). Va inoltre e in modo speciale messo in rilievo il diritto ad una retribuzione del lavoro determinata secondo i criteri di giustizia, e quindi sufficiente, nelle proporzioni rispondenti alla ricchezza disponibile, a permettere al lavoratore ed alla sua famiglia, un tenore di vita conforme alla dignità umana. In materia, il nostro predecessore Pio XII cosi si esprimeva: "Al dovere personale del lavoro imposto dalla natura corrisponde e consegue il diritto naturale in ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto altamente è ordinato per la conservazione dell’uomo l’impero della natura" (cf. Radiomessaggio di Pentecoste di Pio XII). Scaturisce pure dalla natura dell’uomo il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi: "diritto che costituisce un mezzo idoneo all’affermazione della persona umana e all’esercizio della responsabilità in tutti i campi, un elemento di consistenza e di serenità per la vita familiare e di pacifico e ordinato sviluppo nella convivenza" (Enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Torna opportuno ricordare che al diritto di proprietà privata è intrinsecamente inerente una funzione sociale (cf. ivi, p.t 430).

Diritto di riunione e di associazione

11. Dalla intrinseca socialità degli esseri umani fluisce il diritto di riunione e di associazione; come pure il diritto di conferire alle associazioni la struttura che si ritiene idonea a perseguire gli obiettivi delle medesime; e il diritto di muoversi nell’interno di esse di propria iniziativa e sulla propria responsabilità per il concreto perseguimento di detti obiettivi (cf. enc. Rerum novarum di Leone XIII).

Nell’enciclica Mater et magistra a ragione è detto che la creazione di una ricca gamma di associazioni o corpi intermedi per il perseguimento di obiettivi che i singoli esseri umani non possono efficacemente perseguire che associandosi, si rivela un elemento necessario e insostituibile perché sia assicurata alla persona umana una sfera sufficiente di libertà e di responsabilità (cf. enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Diritto di emigrazione e di immigrazione

12. Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1952). Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale.

Diritti a contenuto politico

13. Dalla dignità della persona scaturisce il diritto di prender parte attiva alla vita pubblica e addurre un apporto personale all’attuazione del bene comune. "L’uomo, come tale, lungi dall’essere l’oggetto e un elemento passivo nella vita sociale, ne è invece e deve esserne e rimanerne il soggetto, il fondamento e il fine" (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1944).

Fondamentale diritto della persona è pure la tutela giuridica dei propri diritti: tutela efficace, imparziale, informata a criteri obiettivi di giustizia.

"Dall’ordinamento giuridico, voluto da Dio, promana l’inalienabile diritto dell’uomo alla sicurezza giuridica, e con ciò stesso ad una sfera concreta di diritti, protetta contro ogni arbitrario attacco" (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

 

I doveri

Indissolubile rapporto fra diritti e doveri nella stessa persona

14. I diritti naturali testé ricordati sono indissolubilmente congiunti, nella stessa persona che ne è il soggetto, con altrettanti rispettivi doveri; e hanno entrambi nella legge naturale, che li conferisce o che li impone, la loro radice, il loro alimento, la loro forza indistruttibile.

Il diritto, ad esempio, di ogni essere umano all’esistenza è connesso con il suo dovere di conservarsi in vita; il diritto ad un dignitoso tenore di vita con il dovere di vivere dignitosamente; e il diritto alla libertà nella ricerca del vero è congiunto con il dovere di cercare la verità, in vista di una conoscenza della medesima sempre più vasta e profonda.

Reciprocità di diritti e di doveri fra persone diverse

15. Nella convivenza umana ogni diritto naturale in una persona comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone: il dovere di riconoscere e rispettare quel diritto. Infatti ogni diritto fondamentale della persona trae la sua forza morale insopprimibile dalla legge naturale che lo conferisce, e impone un rispettivo dovere. Coloro pertanto che, mentre rivendicano i propri diritti, dimenticano o non mettono nel debito rilievo i rispettivi doveri, corrono il pericolo di costruire con una mano e distruggere con l’altra.

Nella mutua collaborazione

16. Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri. Ciò richiede che la convivenza umana sia ordinata, e quindi che i vicendevoli diritti e doveri siano riconosciuti ed attuati; ma richiede pure che ognuno porti generosamente il suo contributo alla creazione di ambienti umani, in cui diritti e doveri siano sostanziati da contenuti sempre più ricchi.

Non basta, ad esempio, riconoscere e rispettare in ogni essere umano il diritto ai mezzi di sussistenza: occorre pure che ci si adoperi, secondo le proprie forze, perché ogni essere umano disponga di mezzi di sussistenza in misura sufficiente.

La convivenza fra gli esseri umani, oltre che ordinata, è necessario che sia per essi feconda di bene. Ciò postula che essi riconoscano e rispettino i loro vicendevoli diritti ed adempiano i rispettivi doveri, ma postula pure che collaborino tra loro nelle mille forme e gradi che l’incivilimento acconsente, suggerisce, reclama.

In attitudine di responsabilità

17. La dignità di persona, propria di ogni essere umano, esige che esso operi consapevolmente e liberamente. Per cui nei rapporti della convivenza, i diritti vanno esercitati, i doveri vanno compiuti, le mille forme di collaborazione vanno attuate specialmente in virtù di decisioni personali; prese cioè per convinzione, di propria iniziativa, in attitudine di responsabilità, e non in forza di coercizioni o pressioni provenienti soprattutto dall’esterno.

Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse.

Convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà

18. La convivenza fra gli esseri umani è quindi ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone, quando si fonda sulla verità, conformemente al richiamo dell’apostolo Paolo: "Via dunque da voi la menzogna e parli ciascuno col suo prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri" (Ef 4,25). Ciò domanda che siano sinceramente riconosciuti i reciproci diritti e vicendevoli doveri. Ed è inoltre una convivenza che si attua secondo giustizia o nell’effettivo rispetto di quei diritti e nel leale adempimento dei rispettivi doveri; che è vivificata e integrata dall’amore, atteggiamento d’animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, rende partecipi gli altri dei propri beni e mira a rendere sempre più vivida la comunione nel mondo dei valori spirituali; ed è attuata nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di esseri portati dalla loro stessa natura razionale ad assumere la responsabilità del proprio operare.

19. La convivenza umana, venerabili fratelli e diletti figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e i regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante.

Ordine morale che ha per fondamento oggettivo il vero Dio

20. L’ordine tra gli esseri umani nella convivenza è di natura morale. Infatti, è un ordine che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall’amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani.

Sennonché l’ordine morale - universale, assoluto ed immutabile nei suoi principi - trova il suo oggettivo fondamento nel vero Dio, trascendente e personale. Egli è la prima Verità e il sommo Bene; e quindi la sorgente più profonda da cui soltanto può attingere la sua genuina vitalità una convivenza fra gli esseri umani ordinata, feconda, rispondente alla loro dignità di persone (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942). In materia, con chiarezza si esprime san Tommaso: "La ragione umana è norma della volontà, di cui misura pure il grado di bontà, per il fatto che deriva dalla legge eterna, che si identifica con la stessa ragione divina... È quindi chiaro che la bontà della volontà umana dipende molto più dalla legge eterna che non dalla ragione umana" (Summa Theol., I-II, q. 19, a. 4; cf a. 9).

Segni dei tempi

21. Tre fenomeni caratterizzano l’epoca moderna.

Anzitutto l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici. Nelle prime fasi del loro movimento di ascesa i lavoratori concentravano la loro azione nel rivendicare diritti a contenuto soprattutto economico-sociale; la estendevano quindi ai diritti di natura politica; e infine al diritto di partecipare in forme e gradi adeguati ai beni della cultura. Ed oggi, in tutte le comunità nazionali, nei lavoratori è vividamente operante l’esigenza di essere considerati e trattati non mai come esseri privi di intelligenza e di libertà, in balia dell’altrui arbitrio, ma sempre come soggetti o persone in tutti i settori della convivenza, e cioè nei settori economico-sociali, in quelli della cultura e in quelli della vita pubblica.

22. In secondo luogo viene un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.

23. Infine la famiglia umana, nei confronti di un passato recente, presenta una configurazione sociale-politica profondamente trasformata. Non più popoli dominatori e popoli dominati: tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti.

24. Gli esseri umani, in tutti i paesi e in tutti i continenti, o sono cittadini di uno stato autonomo e indipendente, o stanno per esserlo; nessuno ama sentirsi suddito di poteri politici provenienti dal di fuori della propria comunità umana o gruppo etnico. In moltissimi esseri umani si va cosi dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica.

Al contrario è diffusa assai largamente la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità n,aturale. Per cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna giustificazione, almeno sul piano della ragione e della dottrina; ciò rappresenta una pietra miliare sulla via che conduce all’instaurazione di una convivenza umana informata ai principi sopra esposti. Quando, infatti, negli esseri umani affiora la coscienza dei loro diritti, in quella coscienza non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli.

25. E quando i rapporti della convivenza si pongono in termini di diritti e di doveri, gli esseri umani si aprono sul mondo dei valori spirituali, e comprendono che cosa sia la verità, la giustizia, l’amore, la libertà; e diventano consapevoli di appartenere a quel mondo. Ma sono pure sulla via che li porta a conoscere meglio il vero Dio, trascendente e personale; e ad assumere il rapporto fra se stessi e Dio a solido fondamento e a criterio supremo della loro vita: di quella che vivono nell’intimità di se stessi e di quella che vivono in relazione con gli altri.

 

II - RAPPORTI TRA GLI ESSERI UMANI E I POTERI PUBBLICI
ALL’INTERNO DELLE SINGOLE COMUNITÀ POLITICHE

Necessità dell’autorità e sua origine divina

26. La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente.

Tale autorità, come insegna san Paolo, deriva da Dio: "Non vi è infatti autorità se non da Dio" (Rm 13,1-6). Il quale testo dell’Apostolo viene commentato nei seguenti termini da san Giovanni Crisostomo: "Che dici? Forse ogni singolo governante è costituito da Dio? No, non dico questo: qui non si tratta infatti di singoli governanti, ma del governare in se stesso. Ora il fatto che esista l’autorità e che vi sia chi comanda e chi obbedisce, non proviene dal caso, ma da una disposizione della Provvidenza divina" (In Epist. ad Rom., c. 13, vv. 1-2, homil XXIII). Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura; e poiché non vi può essere "società che si sostenga, se non c’è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio" (Enc. Immortale Dei di Leone XIII).

27. L’autorità non è una forza incontrollata: è invece la facoltà di comandare secondo ragione. Trae quindi la virtù di obbligare dall’ordine morale: il quale si fonda in Dio, che ne è il primo principio e l’ultimo fine. "Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini che mostra l’uomo come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili, radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche lo Stato come società necessaria, rivestita dall’autorità, senza la quale non potrebbe né esistere, né vivere... E poiché quell’ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio personale, nostro Creatore, ne consegue che la dignità dell’autorità politica è la dignità della sua partecipazione all’autorità di Dio" (cf. Radiomessaggio natalizio, di Pio XII, 1944).

28. L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti. Sennonché gli esseri umani sono tutti uguali per dignità naturale: nessuno di esso può obbligare gli altri interiormente. Soltanto Dio lo può, perché egli solo vede e giudica gli atteggiamenti che si assumono nel segreto del proprio spirito.

29. L’autorità umana pertanto può obbligare moralmente soltanto se è in rapporto intrinseco con l’autorità di Dio, ed è una partecipazione di essa (cf. enc. Diuturnum illud di Leone XIII).

In tal modo è pure salvaguardata la dignità personale dei cittadini, giacché la loro obbedienza ai poteri pubblici non è sudditanza di uomo a uomo, ma nel suo vero significato è un atto di omaggio a Dio creatore e provvido, il quale ha disposto che i rapporti della convivenza siano regolati secondo un ordine da lui stesso stabilito; e rendendo omaggio a Dio, non ci si umilia, ma ci si eleva e ci si nobilita, giacché servire Deo regnare est. (cf. ivi, p. 278; e enc. Immortale Dei, di Leone XIII).

30. L’autorità, come si è detto, è postulata dall’ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza, poiché "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini"; (At 5,29) in tal caso, anzi, l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso. "La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza" (Summa Theol., I-II, q. 93, a. 3 ad 2).

31. Tuttavia per il fatto che l’autorità deriva da Dio, non ne segue che gli esseri umani non abbiano la libertà di scegliere le persone investite del compito di esercitarla; come pure di determinare le strutture di poteri pubblici, e gli àmbiti entro cui e i metodi secondo i quali l’autorità va esercitata. Per cui la dottrina sopra esposta è pienamente conciliabile con ogni sorta di regimi genuinamente democratici (cf. enc. Diuturnum illud di Leone XIII).

L’attuazione del bene comune: ragione d’essere dei poteri pubblici

32. Tutti gli esseri umani e tutti i corpi intermedi sono tenuti a portare il loro specifico contributo all’attuazione del bene comune. Ciò comporta che perseguano i propri interessi in armonia con le sue esigenze; e adducano, allo stesso scopo, gli apporti - in beni e servizi - che le legittime autorità stabiliscono, secondo criteri di giustizia, nella debita forma e nell’ambito della propria competenza; e cioè con atti formalmente perfetti e i cui contenuti siano moralmente buoni o, almeno, ordinabili al bene.

Però l’attuazione del bene comune costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici; i quali sono tenuti ad attuarlo nel riconoscimento e nel rispetto dei suoi elementi essenziali e secondo contenuti postulati dalle situazioni storiche (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

Aspetti fondamentali del bene comune

33. Vanno certamente considerati come elementi del bene comune le caratteristiche etniche che contraddistinguono i vari gruppi umani (cf. enc. Summi Pontificatus di Pio XII). Però quei valori e quelle caratteristiche non esauriscono il contenuto del bene comune. Il quale nei suoi aspetti essenziali e più profondi non può essere concepito in termini dottrinali e meno ancora determinato nei suoi contenuti storici che avendo riguardo all’uomo, essendo esso un oggetto essenzialmente correlativo alla natura umana (cf. enc. Mit brennender Sorge di Pio XI).

34. In secondo luogo quello comune è un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri di una comunità politica, anche se in grado diverso a seconda dei loro compiti, meriti e condizioni. I poteri pubblici quindi sono tenuti a promuoverlo a vantaggio di tutti senza preferenza per alcuni cittadini o per alcuni gruppi di essi, come insegna il nostro predecessore Leone XIII. "Né in veruna guisa si deve far sì che la civile autorità serva all’interesse di uno o di pochi, essendo essa invece stabilita a vantaggio di tutti" (Enc. Immortale Dei di Leone XIII: Acta Leonis). Però ragioni di giustizia e di equità possono talvolta esigere che i poteri pubblici abbiano speciali riguardi per le membra più deboli del corpo sociale, trovandosi esse in condizioni di inferiorità nel far vedere i loro diritti e nel perseguire i loro legittimi interessi (cf. enc. Rerum novarum di Leone XIII).

35. Ma qui dobbiamo richiamare l’attenzione sul fatto che il bene comune ha attinenza a tutto l’uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle esigenze del suo spirito. Per cui i poteri pubblici si devono adoperare ad attuarlo nei modi e nei gradi che ad essi convengono; in maniera tale però da promuovere simultaneamente, nel riconoscimento e nel rispetto della gerarchia dei valori, tanto la prosperità materiale che i beni spirituali (cf. enc. Summi pontificatus di Pio XII).

I principi sono indicati in perfetta armonia con quanto abbiamo esposto nella Mater et magistra: "il bene comune consiste nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona" (Enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Ma gli esseri umani, composti di corpo e di anima immortale, non esauriscono la loro esistenza né conseguono la loro perfetta felicità nell’ambito del tempo. Per cui il bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del loro fine ultraterreno ed eterno (cf. enc. Quadragesimo anno di Pio XI).

Compiti dei poteri pubblici e diritti e doveri della persona

36. Nell’epoca moderna l’attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile l’adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compito dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere" (cf. Radiomessaggio di Pentecoste).

Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia od implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la stessa loro ragione di essere e rimane per ciò stesso destituito d’ogni valore giuridico (cf. enc Mit brennender Sorge di Pio XI).

Armonica composizione ed efficace tutela dei diritti e doveri della persona

37. È quindi compito fondamentale dei poteri pubblici disciplinare e comporre armonicamente i rapporti tra gli esseri umani in maniera che l’esercizio dei diritti negli uni non costituisca un ostacolo o una minaccia per l’esercizio degli stessi diritti negli altri, e si accompagni all’adempimento dei rispettivi doveri; ed è ancora compito loro tutelare efficacemente o ripristinare l’esercizio di tali diritti (cf. enc. Divini Redemptoris di Pio XI).

Dovere di promuovere i diritti della persona

38. È inoltre un’esigenza del bene comune che i poteri pubblici contribuiscano positivamente alla creazione di un ambiente umano nel quale a tutti i membri del corpo sociale sia reso possibile e facilitato l’effettivo esercizio degli accennati diritti, come pure l’adempimento dei rispettivi doveri. Infatti l’esperienza attesta che qualora manchi una appropriata azione dei poteri pubblici, gli squilibri economici, sociali e culturali tra gli esseri umani tendono, soprattutto nell’epoca nostra, ad accentuarsi; di conseguenza i fondamentali diritti della persona rischiano di rimanere privi di contenuto; e viene compromesso l’adempimento dei rispettivi doveri.

39. È perciò indispensabile che i poteri pubblici si adoperino perché allo sviluppo economico si adegui il progresso sociale; e quindi perché siano sviluppati, in proporzione dell’efficienza dei sistemi produttivi, i servizi essenziali, quali: la viabilità, i trasporti, le comunicazioni, l’acqua potabile, l’abitazione, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, condizioni idonee per la vita religiosa, i mezzi ricreativi. E devono anche provvedere a che si dia vita a sistemi assicurativi in maniera che, al verificarsi di eventi negativi o di eventi che comportino maggiori responsabilità familiari, ad ogni essere umano non vengano meno i mezzi necessari ad un tenore di vita dignitoso; come pure affinché a quanti sono in grado di lavorare sia offerta una occupazione rispondente alle loro capacità; la rimunerazione del lavoro sia determinata secondo criteri di giustizia e di equità; ai lavoratori, nei complessi produttivi, sia acconsentito svolgere le proprie attività in attitudine di responsabilità; sia facilitata la istituzione dei corpi intermedi che rendono più articolata e più feconda la vita sociale; sia resa accessibile a tutti, nei modi e gradi opportuni, la partecipazione ai beni della cultura.

Equilibrio fra le due forme di intervento dei poteri pubblici

40. Il bene comune esige che i poteri pubblici, nei confronti dei diritti della persona, svolgano una duplice azione: l’una diretta a comporre e tutelare quei diritti, l’altra a promuoverli. In materia però va posta la più vigilante attenzione perché le due azioni siano saggiamente contemperate. Si deve quindi evitare che, attraverso la preferenza data alla tutela dei diritti di alcuni individui o gruppi sociali, si creino posizioni di privilegio; e si deve pure evitare che, nell’intento di promuovere gli accennati diritti, si arrivi all’assurdo risultato di ridurre eccessivamente o renderne impossibile il genuino esercizio. "Dev’essere sempre riaffermato il principio che la presenza dello Stato in campo economico non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà della iniziativa personale dei singoli cittadini, ma per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile, nell’effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona" (Enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Allo stesso principio devono ispirarsi i poteri pubblici nello svolgimento della loro multiforme azione diretta a promuovere l’esercizio di diritti e a renderne meno arduo l’adempimento di doveri in tutti i settori della vita sociale.

Struttura e funzionamento dei poteri pubblici

41. Non si può stabilire, una volta per sempre, qual è la struttura migliore secondo cui devono organizzarsi i poteri pubblici, come pure il modo più idoneo secondo il quale devono svolgere le loro specifiche funzioni, e cioè la funzione legislativa, amministrativa, giudiziaria.

Giacché la struttura e il funzionamento dei poteri pubblici non possono non essere in relazione con le situazioni storiche delle rispettive comunità politiche: situazioni che variano nello spazio e mutano nel tempo. Però riteniamo rispondente ad esigenze insite nella stessa natura degli uomini l’organizzazione giuridico-politica della comunità umana, fondata su una conveniente divisione dei poteri in corrispondenza alle tre specifiche funzioni dell’autorità pubblica. In essa infatti la sfera di competenza e il funzionamento dei poteri pubblici sono definiti in termini giuridici; e in termini giuridici sono pure disciplinati i rapporti fra semplici cittadini e funzionari. Ciò costituisce un elemento di garanzia a favore dei cittadini nell’esercizio dei loro diritti e nell’adempimento dei loro doveri.

42. Però affinché l’accennata organizzazione giuridica-politica delle comunità umane arrechi i vantaggi che le sono propri, è indispensabile che i poteri pubblici si adeguino nei metodi e nei mezzi alla natura e complessità dei problemi che sono chiamati a risolvere nell’ambiente in cui operano; ed è pure indispensabile che ognuno di essi svolga la propria funzione in modo pertinente. Ciò comporta che il potere legislativo si muova nell’ambito dell’ordine morale e della norma costituzionale, e interpreti obiettivamente le esigenze del bene comune nell’incessante evolversi delle situazioni; che il potere esecutivo applichi le leggi con saggezza nella piena conoscenza delle medesime e in una valutazione serena dei casi concreti; che il potere giudiziario amministri la giustizia con umana imparzialità, inflessibile di fronte alle pressioni di qualsivoglia interesse di parte, e comporta pure che i singoli cittadini e i corpi intermedi, nell’esercizio dei loro doveri, godano di una tutela giuridica efficace tanto nei loro vicendevoli rapporti che nei confronti dei funzionari pubblici (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1942).

Ordinamento giuridico e coscienza morale

43. Un ordinamento giuridico in armonia con l’ordine morale e rispondente al grado di maturità della comunità politica, di cui è espressione, costituisce, non v’è dubbio, un elemento fondamentale per l’attuazione del bene comune.

Però la vita sociale, nei nostri tempi, è così varia, complessa e dinamica, che gli ordinamenti giuridici, anche se elaborati con competenza consumata e lungimirante avvedutezza, sono sempre inadeguati.

Inoltre i rapporti fra i singoli esseri umani; fra i singoli esseri umani e i corpi intermedi da una parte, e i poteri pubblici dall’altra; come pure i rapporti fra gli stessi poteri pubblici nell’interno della compagine statale, presentano zone spesso così delicate e nevralgiche, che non sono suscettibili di essere disciplinate con quadri giuridici ben definiti. Per cui le persone investite di autorità per essere, nello stesso tempo, fedeli agli ordinamenti giuridici esistenti, considerati nei loro elementi e nella loro ispirazione di fondo, e aperti alle istanze che salgono dalla vita sociale; come pure per adeguare gli ordinamenti giuridici all’evolversi delle situazioni e risolvere, nel modo migliore, i sempre nuovi problemi, devono avere idee chiare sulla natura e sull’ampiezza dei loro compiti; e devono essere persone di grande equilibrio e di spiccata dirittura morale, fornite di intuito pratico, per interpretare con rapidità e obiettivamente i casi concreti, e di volontà decisa e vigorosa per agire con tempestività ed efficacia.

La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica

44. È un’esigenza della loro dignità di persone che gli esseri umani prendano parte attiva alla vita pubblica, anche se le forme con cui vi partecipano sono necessariamente legate al grado di maturità umana raggiunto dalla comunità politica di cui sono membri e in cui operano.

Attraverso la partecipazione alla vita pubblica si aprono agli esseri umani nuovi e vasti campi di bene, mentre i frequenti contatti fra cittadini e funzionari pubblici rendono a questi meno arduo cogliere le esigenze obiettive del bene comune; e l’avvicendarsi dei titolari nei poteri pubblici impedisce il loro logorio e assicura il loro rinnovarsi in rispondenza dell’evolversi sociale.

Segni dei tempi

45. Nell’organizzazione giuridica delle comunità politiche nell’epoca moderna, si riscontra anzitutto la carta dei diritti fondamentali degli esseri umani: carta che viene, non di rado, inserita nelle costituzioni o che forma parte integrante di esse.

In secondo luogo si tende pure a fissare in termini giuridici, per mezzo della compilazione di un documento denominato costituzione, le vie attraverso le quali si formano i poteri pubblici; come pure i loro reciproci rapporti, le sfere di loro competenza, i modi o metodi secondo cui sono tenuti a procedere nel porre in essere i loro atti.

Si stabiliscono, quindi, in termini di diritti e di doveri i rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici; e si ascrive ai poteri pubblici il compito preminente di riconoscere, rispettare, comporre armonicamente, tutelare e promuovere i diritti e i doveri dei cittadini.

Certo non può essere accettata come vera la posizione dottrinale di quanti erigono la volontà degli esseri umani, presi individualmente o comunque raggruppati, a fonte prima ed unica donde scaturiscono diritti e doveri, donde promana tanto l’obbligatorietà delle costituzioni che l’autorità dei poteri pubblici (cf. epist. apost. Annum ingressi di Leone XIII).

46. Però le tendenze, di cui si è fatto cenno, sono pure un segno indubbio che gli esseri umani, nell’epoca moderna, hanno acquistato una coscienza più viva della propria dignità: coscienza che, mentre li sospinge a prendere parte attiva alla vita pubblica, esige pure che i diritti della persona - diritti inalienabili e inviolabili - siano riaffermati negli ordinamenti giuridici positivi; ed esige inoltre che i poteri pubblici siano formati con procedimenti stabiliti da norme costituzionali, ed esercitino le loro specifiche funzioni nell’ambito di quadri giuridici.

 

III - RAPPORTI FRA LE COMUNITÀ POLITICHE

Soggetti di diritti e di doveri

47. Riaffermiamo noi pure quello che costantemente hanno insegnato i nostri predecessori: le comunità politiche, le une rispetto alle altre, sono soggetti di diritti e di doveri; per cui anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà. La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche.

Ciò non è difficile a capirsi quando si pensi che le persone che rappresentano le comunità politiche, mentre operano in nome e per l’interesse delle medesime, non possono venire meno alla propria dignità; e quindi non possono violare la legge della propria natura, che è la legge morale.

Sarebbe del resto assurdo anche solo il pensare che gli uomini, per il fatto che vengono preposti al governo della cosa pubblica, possano essere costretti a rinunciare alla propria umanità; quando invece sono scelti a quell’alto compito perché considerati membra più ricche di qualità umane e fra le migliori del corpo sociale.

Inoltre, l’autorità è un’esigenza dell’ordine morale nella società umana; non può quindi essere usata contro di esso, e se lo fosse, nello stesso istante cesserebbe di essere tale; perciò ammonisce il Signore: "udite pertanto voi, o re, e ponete mente, imparate voi che giudicate tutta la terra. Porgete le orecchie voi che avete il governo dei popoli, e vi gloriate di aver soggette molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore e la dominazione dall’Altissimo, il quale disaminerà le opere vostre, e sarà scrutatore dei pensieri" (Sap 6,2-4).

48. Infine è pure da ricordare che anche nella regolazione dei rapporti fra le comunità politiche, l’autorità va esercitata per attuare il bene comune, che costituisce la sua ragione di essere. Elemento però fondamentale del bene comune è il riconoscimento e il rispetto dell’ordine morale. "L’ordine tra le comunità politiche ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo dell’ordine naturale e da lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri incancellabili... Quale faro splendente, essa deve, coi raggi dei suoi principi, dirigere il corso dell’operosità degli uomini e degli Stati, i quali avranno da seguirne le ammonitrici, salutari e proficue segnalazioni, se non vorranno condannare alla bufera e al naufragio ogni lavoro e sforzo per stabilire un nuovo ordinamento" (cf. Radiomessaggio di Pentecoste, 1941).

Nella verità

49. I rapporti fra le comunità politiche vanno regolati nella verità. La quale esige anzitutto che da quei rapporti venga eliminata ogni traccia di razzismo; e venga quindi riconosciuto il principio che tutte le comunità politiche sono uguali per dignità di natura; per cui ognuna di esse ha il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo, ad essere la prima responsabile nell’attuazione del medesimo; e ha pure il diritto alla buona reputazione e ai dovuti onori.

Fra gli esseri umani molto spesso sussistono differenze, anche spiccate, nel sapere, nella virtù, nelle capacità inventive, nel possesso di beni materiali. Ma ciò non può mai giustificare il proposito di far pesare la propria superiorità sugli altri; piuttosto costituisce una sorgente di maggiore responsabilità nell’apporto che ognuno e tutti devono addurre alla vicendevole elevazione.

Così le comunità politiche possono differire tra loro nel grado di cultura e di civiltà o di sviluppo economico; però ciò non può mai giustificare il fatto che le une facciano valere ingiustamente la loro superiorità sulle altre; piuttosto può costituire un motivo perché si sentano più impegnate nell’opera per la comune ascesa.

50. Non ci sono esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura; ma tutti gli esseri umani sono uguali per dignità naturale. Di conseguenza non ci sono neppure comunità politiche superiori per natura e comunità politiche inferiori per natura: tutte le comunità politiche sono uguali per dignità naturale, essendo esse dei corpi le cui membra sono gli stessi esseri umani. Né va quindi dimenticato che i popoli, a ragione, sono sensibilissimi in materia di dignità e di onore.

Inoltre la verità esige che nelle molteplici iniziative rese possibili dai progressi moderni nei mezzi espressivi - iniziative attraverso le quali si diffonde la mutua conoscenza fra i popoli - ci si ispiri a serena obiettività: il che non esclude che sia legittima nei popoli una preferenza di far conoscere gli aspetti positivi della loro vita. Vanno però respinti i metodi di informazione con i quali, venendo meno alla verità, si lede ingiustamente la riputazione di questo o di quel popolo (cf. Radiomessaggio di Pio XII, 1940).

Secondo giustizia

51. I rapporti fra le comunità politiche vanno inoltre regolati secondo giustizia: il che comporta, oltre che il riconoscimento dei vicendevoli diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri.

Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il detto di sant’Agostino: "Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni, se non a grandi latrocini?" (De civitate Dei, lib. IV, c. 4: PL, 41,115; cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1939).

Certo, anche tra le comunità politiche possono sorgere e di fatto sorgono contrasti di interessi; però i contrasti vanno superati e le rispettive controversie risolte, non con il ricorso alla forza, con la frode o con l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione.

Il trattamento delle minoranze

52. Dal XIX secolo una tendenza di fondo assai estesa nell’evolversi storico è che le comunità politiche si adeguano a quelle nazionali. Però, per un insieme di cause, non sempre riesce di far coincidere i confini geografici con quelli etnici: ciò dà origine al fenomeno delle minoranze e ai rispettivi complessi problemi.

Va affermato nel modo più esplicito che una azione diretta a comprimere e a soffocare il flusso vitale delle minoranze è grave violazione della giustizia; e tanto più lo è quando viene svolta per farle scomparire.

Risponde invece ad un’esigenza di giustizia che i poteri pubblici portino il loro contributo nel promuovere lo sviluppo umano delle minoranze, con misure efficaci a favore della loro lingua, della loro cultura, del loro costume, delle loro risorse ed iniziative economiche (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1941).

53. Qui però va rilevato che i membri delle minoranze, come conseguenza di una reazione al loro stato attuale o a causa delle loro vicende storiche, possono essere portati, non di rado, ad accentuare l’importanza degli elementi etnici, da cui sono caratterizzati, fino a porli al di sopra dei valori umani; come se ciò che è proprio dell’umanità fosse in funzione di ciò che e proprio della nazione. Mentre saggezza vorrebbe che sapessero pure apprezzare gli aspetti positivi di una condizione che consente loro l’arricchimento di se stessi con l’assimilazione graduale e continuata di valori propri di tradizioni o civiltà differenti da quella alla quale essi appartengono. Ciò però si verificherà soltanto se essi sapranno essere come un ponte che facilita la circolazione della vita nelle sue varie espressioni fra le differenti tradizioni o civiltà, e non invece una zona di attrito che arreca danni innumerevoli e determina ristagni o involuzioni.

Solidarietà operante

54. I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella verità e secondo giustizia; ma quei rapporti vanno pure vivificati dall’operante solidarietà attraverso le mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria, sportiva: forme possibili e feconde nella presente epoca storica. In argomento occorre sempre considerare che la ragione d’essere dei poteri pubblici non è quella di chiudere e comprimere gli esseri umani nell’ambito delle rispettive comunità politiche; è invece quella di attuare il bene comune delle stesse comunità politiche; il quale bene comune però va concepito e promosso come una componente del bene comune dell’intera famiglia umana.

Ciò importa non solo che le singole comunità politiche perseguano i propri interessi senza danneggiarsi le une le altre, ma che mettano pure in comune l’opera loro quando ciò sia indispensabile per il raggiungimento di obiettivi altrimenti non raggiungibili: nel qual caso però occorre usare ogni riguardo perché ciò che torna di utilità ad un gruppo di comunità politiche non sia di nocumento ad altre, ma abbia anche su esse riflessi positivi.

Il bene comune universale inoltre esige che le comunità politiche favoriscano gli scambi, in ogni settore, fra i rispettivi cittadini e i rispettivi corpi intermedi.

55. Sulla terra esiste un numero rilevante di gruppi etnici, più o meno accentuatamente differenziati l’uno dall’altro. Però gli elementi che caratterizzano un gruppo etnico non devono trasformarsi in uno scompartimento stagno in cui degli esseri umani vengano impediti di comunicare con gli esseri umani appartenenti a gruppi etnici differenti: ciò sarebbe in stridente contrasto con un’epoca come la nostra, nella quale le distanze tra i popoli sono state quasi eliminate. Né va dimenticato che se, in virtù delle proprie peculiarità etniche, gli esseri umani si distinguono gli uni dagli altri, posseggono però elementi essenziali comuni, e sono portati per natura a incontrarsi nel mondo dei valori spirituali, la cui progressiva assimilazione apre ad essi possibilità di perfezionamento senza limiti. Deve quindi essere loro riconosciuto il diritto e il dovere di vivere in comunione gli uni con gli altri.

Equilibrio tra popolazione, terra e capitali

56. Come è noto, vi sono sulla terra paesi che abbondano di terreni coltivabili e scarseggiano di uomini; in altri paesi invece non vi è proporzione tra le ricchezze naturali e i capitali a disposizione. Ciò pure domanda che i popoli instaurino rapporti di mutua collaborazione, facilitando tra essi la circolazione di capitali, di beni, di uomini (cf. enc. Mater et magistra di Giovanni: XXIII).

Qui crediamo opportuno di osservare che, ogniqualvolta è possibile, pare che debba essere il capitale a cercare il lavoro e non viceversa.

In tal modo si offrono a molte persone possibilità concrete di crearsi un avvenire migliore senza essere costrette a trapiantarsi dal proprio ambiente in un altro; il che è quasi impossibile che si verifichi senza schianti dolorosi, e senza difficili periodi di riassestamento umano o di integrazione sociale.

Il problema dei profughi politici

57. Il sentimento di universale paternità che il Signore ha acceso nel nostro animo, ci fa sentire profonda amarezza nel considerare il fenomeno dei profughi politici: fenomeno che ha assunto proporzioni ampie e che nasconde sempre innumerevoli e acutissime sofferenze.

Esso sta purtroppo a indicare come vi sono regimi politici che non assicurano alle singole persone una sufficiente sfera di libertà, entro cui al loro spirito sia consentito respirare con ritmo umano; anzi in quei regimi è messa in discussione o addirittura misconosciuta la legittimità della stessa esistenza di quella sfera. Ciò, non v’è dubbio, rappresenta una radicale inversione nell’ordine della convivenza, giacché la ragione di essere dei poteri pubblici è quella di attuare il bene comune, di cui elemento fondamentale è riconoscere quella sfera di libertà e assicurarne l’immunità.

Non è superfluo ricordare che i profughi politici sono persone; e che a loro vanno riconosciuti tutti i diritti inerenti alla persona: diritti che non vengono meno quando essi siano stati privati della cittadinanza nelle comunità politiche di cui erano membri.

Fra i diritti inerenti alla persona vi è pure quello di inserirsi nella comunità politica in cui si ritiene di potersi creare un avvenire per sé e per la propria famiglia; di conseguenza quella comunità politica, nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, ha il dovere di permettere quell’inserimento, come pure di favorire l’integrazione in se stessa delle nuove membra.

58. Siamo lieti di cogliere l’occasione per esprimere il nostro sincero apprezzamento per tutte le iniziative suscitate e promosse dalla solidarietà umana e dall’amore cristiano allo scopo di rendere meno doloroso il trapianto di persone da un corpo sociale ad un altro.

E ci sia pure consentito di segnalare all’attenzione e alla gratitudine di ogni animo retto la multiforme opera che in un campo tanto delicato svolgono istituzioni internazionali specializzate.

Disarmo

59. Ci è pure doloroso costatare come nelle comunità politiche economicamente più sviluppate si siano creati e si continuano a creare armamenti giganteschi; come a tale scopo venga assorbita una percentuale altissima di energie spirituali e di risorse economiche; gli stessi cittadini di quelle comunità politiche siano sottoposti a sacrifici non lievi; mentre altre comunità politiche vengono, di conseguenza, private di collaborazioni indispensabili al loro sviluppo economico e al loro progresso sociale.

Gli armamenti, come è noto, si sogliono giustificare adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze. Quindi se una comunità politica si arma, le altre comunità politiche devono tenere il passo ed armarsi esse pure. E se una comunità politica produce armi atomiche, le altre devono pure produrre armi atomiche di potenza distruttiva pari.

60. In conseguenza gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico. Inoltre va pure tenuto presente che se anche una guerra a fondo, grazie all’efficacia deterrente delle stesse armi, non avrà luogo, è giustificato il timore che il fatto della sola continuazione degli esperimenti nucleari a scopi bellici possa avere conseguenze fatali per la vita sulla terra.

Per cui giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci. "Non si deve permettere - proclama Pio XII - che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbamenti morali si rovesci per la terza volta sull’umanità" (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1941).

61. Occorre però riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità.

62. È un obiettivo reclamato dalla ragione. È evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante.

È un obiettivo desideratissimo. Ed invero chi è che non desidera ardentissimamente che il pericolo della guerra sia eliminato e la pace sia salvaguardata e consolidata?

È un obiettivo della più alta utilità. Dalla pace tutti traggono vantaggi: individui, famiglie, popoli, l’intera famiglia umana. Risuonano ancora oggi severamente ammonitrici le parole di Pio XII: "Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra" (cf. Radiomessaggio di Pio XII, 24 agosto 1939).

63. Perciò come vicario di Gesù Cristo, Salvatore del mondo e artefice della pace, e come interprete dell’anelito più profondo dell’intera famiglia umana, seguendo l’impulso del nostro animo, preso dall’ansia di bene per tutti, ci sentiamo in dovere di scongiurare gli uomini, soprattutto quelli che sono investiti di responsabilità pubbliche, a non risparmiare fatiche per imprimere alle cose un corso ragionevole ed umano.

Nelle assemblee più alte e qualificate considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti. Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde.

Da parte nostra non cesseremo di implorare le benedizioni di Dio sulle loro fatiche, affinché apportino risultati positivi.

Nella libertà

64. I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella libertà. Il che significa che nessuna di esse ha il diritto di esercitare un’azione oppressiva sulle altre o di indebita ingerenza. Tutte invece devono proporsi di contribuire perché in ognuna sia sviluppato il senso di responsabilità, lo spirito di iniziativa, e l’impegno ad essere la prima protagonista nel realizzare la propria ascesa in tutti i campi.

L’ascesa delle comunità politiche in fase di sviluppo economico

65. Una comunanza di origine, di redenzione, di supremo destino lega tutti gli esseri umani e li chiama a formare un’unica famiglia cristiana. Per tale ragione nell’enciclica Mater et magistra abbiamo esortato le comunità politiche economicamente sviluppate a instaurare rapporti di multiforme cooperazione con le comunità politiche in via di sviluppo economico (Enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Possiamo ora costatare con soddisfazione che il nostro appello ha riscosso una larga favorevole accoglienza; e ci arride la speranza che ancor più per l’avvenire esso contribuisca a far sì che i paesi meno provvisti di beni pervengano, nel tempo più breve possibile, ad un grado di sviluppo economico che consenta ad ogni cittadino di vivere in condizioni rispondenti alla propria dignità di persona.

66. Ma non è mai abbastanza ripetuto che la cooperazione, di cui si è fatto cenno, va attuata nel più grande rispetto per la libertà delle comunità politiche in fase di sviluppo. Le quali comunità è necessario che siano e si sentano le prime responsabili e le principali artefici nell’attuazione del loro sviluppo economico e del loro progresso sociale.

Già il nostro predecessore Pio XII proclamava che "nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali non vi è posto per la lesione della libertà, dell’integrità e della sicurezza di altre nazioni, qualunque sia la loro estensione territoriale o la loro capacità di difesa. Se è inevitabile che i grandi Stati, per le loro maggiori possibilità e la loro potenza, traccino il cammino per la costituzione di gruppi economici fra essi e le nazioni più piccole e deboli, è nondimeno incontestabile - come di tutti, nell’ambito dell’interesse generale - il diritto di queste al rispetto della loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità nelle contese tra gli Stati, che loro spetta secondo il gius naturale e delle genti, alla tutela del loro sviluppo economico, giacché soltanto in tal guisa potranno conseguire adeguatamente il bene comune, il benessere materiale e spirituale del proprio popolo" (cf. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1941). Pertanto le comunità politiche economicamente sviluppate, nel prestare la loro multiforme opera, sono tenute al riconoscimento e al rispetto dei valori morali e delle peculiarità etniche proprie delle comunità in fase di sviluppo economico; come pure ad agire senza propositi di predominio politico; in tal modo portano "un contributo prezioso alla formazione di una comunità mondiale nella quale tutti i membri siano soggetti consapevoli dei propri doveri e dei propri diritti, operanti in rapporto di uguaglianza all’attuazione del bene comune universale" (Enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Segni dei tempi

67. Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato.

Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne; ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana; per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia.

Però tra i popoli, purtroppo, spesso regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in armamenti: non già, si afferma - né vi è motivo per non credervi - per aggredire, ma per dissuadere gli altri dall’aggressione.

È lecito tuttavia sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni.

 

IV - RAPPORTI DEGLI ESSERI UMANI E DELLE COMUNITÀ POLITICHE
CON LA COMUNITÀ MONDIALE

Interdipendenza tra le comunità politiche

68. I recenti progressi delle scienze e delle tecniche incidono profondamente sugli esseri umani, sollecitandoli a collaborare tra loro e orientandoli verso una convivenza unitaria a raggio mondiale. Si è infatti intensamente accentuata la circolazione delle idee, degli uomini, delle cose. Per cui sono aumentati enormemente e si sono infittiti i rapporti tra i cittadini, le famiglie, i corpi intermedi appartenenti a diverse comunità politiche; come pure fra i poteri pubblici delle medesime. Mentre si approfondisce l’interdipendenza tra le economie nazionali: le une si inseriscono progressivamente sulle altre fino a diventare ciascuna quasi parte integrante di un’unica economia mondiale; e il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, e la pace all’interno di ciascuna comunità politica è in rapporto vitale con il progresso sociale, l’ordine, la sicurezza, la pace di tutte le altre comunità politiche.

Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa; giacché il grado della sua prosperità e del suo sviluppo sono pure il riflesso ed una componente del grado di prosperità e dello sviluppo di tutte le altre comunità politiche.

Insufficienza dell’attuale organizzazione dell’autorità pubblica nei confronti del bene comune universale

69. L’unità della famiglia umana è esistita in ogni tempo, giacché essa ha come membri gli esseri umani che sono tutti uguali per dignità naturale. Di conseguenza esisterà sempre l’esigenza obiettiva all’attuazione, in grado sufficiente, del bene comune universale, e cioè del bene comune della intera famiglia umana.

Nei tempi passati si poteva, a ragione, ritenere che i poteri pubblici delle differenti comunità politiche potessero essere in grado di attuare il bene comune universale; o attraverso le normali vie diplomatiche o con incontri a più alto livello, utilizzando gli strumenti giuridici, quali, ad esempio, le convenzioni e i trattati: strumenti giuridici suggeriti dal diritto naturale, e determinati dal diritto delle genti e dal diritto internazionale.

70. In seguito alle profonde trasformazioni intervenute nei rapporti della convivenza umana, da una parte il bene comune universale solleva problemi complessi, gravissimi, estremamente urgenti, specialmente per ciò che riguarda la sicurezza e la pace mondiale; dall’altra parte i poteri pubblici delle singole comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica tra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell’elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente: e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale.

Si può dunque affermare che sul terreno storico è venuta meno la rispondenza fra l’attuale organizzazione e il rispettivo funzionamento del principio autoritario operante su piano mondiale e le esigenze obiettive del bene comune universale.

Rapporto fra contenuti storici del bene comune e struttura e funzionamento dei poteri pubblici

71. Esiste un rapporto intrinseco fra i contenuti storici del bene comune da una parte e la configurazione e il funzionamento dei poteri pubblici dall’altra. L’ordine morale, cioè, come esige l’autorità pubblica nella convivenza per l’attuazione del bene comune, di conseguenza esige pure che l’autorità a tale scopo sia efficiente. Ciò postula che gli organi nei quali l’autorità prende corpo, diviene operante e persegue il suo fine siano strutturali e agiscano in maniera da essere idonei a tradurre nella realtà i contenuti nuovi che il bene comune viene assumendo nell’evolversi storico della convivenza.

Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti.

Poteri pubblici istituiti di comune accordo e non imposti con la forza

72. I poteri pubblici, aventi autorità su piano mondiale e dotati di mezzi idonei a perseguire efficacemente gli obiettivi che constituiscono i contenuti concreti del bene comune universale, vanno istituiti di comune accordo e non imposti con la forza. La ragione è che siffatti poteri devono essere in grado di operare efficacemente; però, nello stesso tempo, la loro azione deve essere informata a sincera ed effettiva imparzialità; deve cioè essere un’azione diretta a soddisfare alle esigenze obiettive del bene comune universale. Sennonché ci sarebbe certamente da temere che poteri pubblici supernazionali o mondiali imposti con la forza dalle comunità politiche più potenti non siano o non divengano strumento di interessi particolaristici; e qualora ciò non si verifichi, è assai difficile che nel loro operare risultino immuni da ogni sospetto di parzialità: il che comprometterebbe l’efficacia della loro azione.

Le comunità politiche, anche se fra esse corrano differenze accentuate nel grado di sviluppo economico e nella potenza militare, sono tutte assai sensibili quanto a parità giuridica e alla loro dignità morale. Per cui, a ragione, non facilmente si piegano ad obbedire a poteri imposti con la forza; o a poteri alla cui creazione non abbiano contribuito; o ai quali non abbiano esse stesse deciso di sottoporsi con scelte consapevoli e libere.

Il bene comune universale e i diritti della persona

73. Come il bene comune delle singole comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i poteri pubblici della comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona: con un’azione diretta, quando il caso lo comporti; o creando un ambiente a raggio mondiale in cui sia reso più facile ai poteri pubblici delle singole comunità politiche svolgere le proprie specifiche funzioni.

Il principio di sussidiarietà

74. Come i rapporti tra individui, famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche, nell’interno delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così nella luce dello stesso principio vanno regolati pure i rapporti fra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale. Ciò significa che i poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i poteri pubblici delle singole comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive.

I poteri pubblici della comunità mondiale non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici delle singole comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su piano mondiale, di un ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza (cf. Discorso ai giovani di A.C.I. di Pio XII, 12).

Segni dei tempi

75. Come è noto, il 26 giugno 1945, venne costituita l’Organizzazione delle Nazione Unite (ONU); alla quale, in seguito, si collegarono gli istituti intergovernativi aventi vasti compiti internazionali in campo economico, sociale, culturale, educativo, sanitario. Le Nazioni Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra i popoli, sviluppando fra essi le amichevoli relazioni, fondate sui principi della uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in tutti i settori della convivenza.

Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in assemblea generale il 10 dicembre 1948. Nel preambolo della stessa dichiarazione si proclama come un ideale da perseguirsi da tutti i popoli e da tutte le nazioni l’effettivo riconoscimento e rispetto di quei diritti e delle rispettive libertà.

Su qualche punto particolare della dichiarazione sono state sollevate obiezioni e fondate riserve. Non è dubbio però che il documento segni un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale. In esso infatti viene riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del vero, nell’attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa; e vengono pure proclamati altri diritti connessi con quelli accennati.

Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite - nelle strutture e nei mezzi - si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti; e che arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone; e che perciò sono diritti universali, inviolabili, inalienabili. Tanto più che i singoli esseri umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli, e avvertono con maggiore consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale.

 

V - RICHIAMI PASTORALI

Dovere di partecipare alla vita pubblica

76. Ancora una volta ci permettiamo di richiamare i nostri figli al dovere che hanno di partecipare attivamente alla vita pubblica e di contribuire all’attuazione del bene comune della famiglia umana e della propria comunità politica; e di adoprarsi quindi, nella luce della fede e con la forza dell’amore, perché le istituzioni a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, siano tali da non creare ostacoli, ma piuttosto facilitare o rendere meno arduo alle persone il loro perfezionamento: tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale.

Competenza scientifica, capacità tecnica, esperienza professionale

77. Non basta essere illuminati dalla fede ed accesi dal desiderio del bene per penetrare di sani principi una civiltà e vivificarla nello spirito del Vangelo. A tale scopo è necessario inserirsi nelle sue istituzioni e operare validamente dal di dentro delle medesime. Però la nostra civiltà si contraddistingue soprattutto per i suoi contenuti scientifico-tecnici.

Per cui non ci si inserisce nelle sue istituzioni e non si opera con efficacia dal di dentro delle medesime se non si è scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti.

L’azione come sintesi di elementi scientifico-tecnico professionali e di valori spirituali

78. Amiamo pure richiamare all’attenzione che la competenza scientifica, la capacità tecnica, l’esperienza professionale, se sono necessarie, non sono però sufficienti per ricomporre i rapporti della convivenza in un ordine genuinamente umano; e cioè in un ordine, il cui fondamento è la verità, misura e obiettivo la giustizia, forza propulsiva l’amore, metodo di attuazione la libertà.

A tale scopo si richiede certamente che gli esseri umani svolgano le proprie attività a contenuto temporale, obbedendo alle leggi che sono ad esse immanenti, e seguendo metodi rispondenti alla loro natura; ma si richiede pure, nello stesso tempo, che svolgano quelle attività nell’ambito dell’ordine morale; e quindi come esercizio o rivendicazione di un diritto, come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio; come risposta positiva al disegno provvidenziale di Dio mirante alla nostra salvezza; si richiede cioè che gli esseri umani, nell’interiorità di se stessi, vivano il loro operare a contenuto temporale come una sintesi di elementi scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali.

Ricomposizione unitaria nei credenti tra fede religiosa e attività a contenuto temporale

79. Nelle comunità nazionali di tradizione cristiana, le istituzioni dell’ordine temporale, nell’epoca moderna, mentre rivelano spesso un alto grado di perfezione scientifico-tecnica e di efficienza in ordine ai rispettivi fini specifici, nello stesso tempo si caratterizzano non di rado per la povertà di fermenti e di accenti cristiani.

È certo tuttavia che alla creazione di quelle istituzioni hanno contribuito e continuano a contribuire molti che si ritenevano e si ritengono cristiani; e non è dubbio che, in parte almeno, lo erano e lo sono. Come si spiega? Riteniamo che la spiegazione si trovi in una frattura nel loro animo fra la credenza religiosa e l’operare a contenuto temporale. È necessario quindi che in essi si ricomponga l’unità interiore; e nelle loro attività temporali sia pure presente la fede come faro che illumina e la carità come forza che vivifica.

Sviluppo integrale degli esseri umani in formazione

80. Ma pensiamo pure che l’accennata frattura nei credenti fra credenza religiosa e operare a contenuto temporale, è il risultato, in gran parte se non del tutto, di un difetto di solida formazione cristiana. Capita infatti, troppo spesso e in molti ambienti, che non vi sia proporzione fra istruzione scientifica e istruzione religiosa: l’istruzione scientifica continua ad estendersi fino ad attingere gradi superiori, mentre l’istruzione religiosa rimane di grado elementare. È perciò indispensabile che negli esseri umani in formazione, l’educazione sia integrale e ininterrotta; e cioè che in essi il culto dei valori religiosi e l’affinamento della coscienza morale procedano di pari passo con la continua sempre più ricca assimilazione di elementi scientifico-tecnici; ed è pure indispensabile che siano educati circa il metodo idoneo secondo cui svolgere in concreto i loro compiti (cf. enc. Mater et magistra di Giovanni XXIII).

Impegno costante

81. Riteniamo opportuno di fare presente come sia difficile cogliere, con sufficiente aderenza, il rapporto fra esigenze obiettive della giustizia e situazioni concrete; di individuare cioè i gradi e le forme secondo cui i principi e le direttive dottrinali devono tradursi nella realtà.

E l’individuazione di quei gradi e di quelle forme è tanto più difficile nell’epoca nostra, caratterizzata da un dinamismo accentuato. Per cui il problema dell’adeguazione della realtà sociale alle esigenze obiettive della giustizia è problema che non ammette mai una soluzione definitiva. I nostri figli pertanto devono vigilare su se stessi per non adagiarsi soddisfatti in obiettivi già raggiunti.

Anzi per tutti gli esseri umani è quasi un dovere pensare che quello che è stato realizzato è sempre poco rispetto a quello che resta ancora da compiere per adeguare gli organismi produttivi, le associazioni sindacali, le organizzazioni professionali, i sistemi assicurativi, gli ordinamenti giuridici, i regimi politici, le istituzioni a finalità culturali, sanitarie, ricreative e sportive alle dimensioni proprie dell’era dell’atomo e delle conquiste spaziali: era nella quale la famiglia umana è già entrata e ha iniziato il suo nuovo cammino con prospettive di un’ampiezza sconfinata.

Rapporti fra cattolici e non cattolici in campo economico-sociale-politico

82. Le linee dottrinali tracciate nel presente documento scaturiscono o sono suggerite da esigenze insite nella stessa natura umana, e rientrano, per lo più, nella sfera del diritto naturale. Offrono quindi ai cattolici un vasto campo di incontri e di intese tanto con i cristiani separati da questa Sede apostolica quanto con esseri umani non illuminati dalla fede in Gesù Cristo, nei quali però è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante l’onestà naturale. "In tali rapporti i nostri figli siano vigilanti per essere sempre coerenti con se stessi, per non venire mai a compromessi riguardo alla religione e alla morale. Ma nello stesso tempo siano e si mostrino animati da spirito di comprensione, disinteressati e disposti ad operare lealmente nell’attuazione di oggetti che siano di loro natura buoni o riducibili al bene" (Ivi, p. 456).

83. Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per cui chi in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede, o aderisce ad opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere alla verità. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e per renderle omaggio.

84. Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?

85. Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell’eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi" che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia individuale che sociale. Perciò, da parte dei cattolici tale decisione spetta in primo luogo a coloro che vivono od operano nei settori specifici della convivenza, in cui quei problemi si pongono, sempre tuttavia in accordo con i principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa e con le direttive della autorità ecclesiastica. Non si deve, infatti, dimenticare che compete alla Chiesa il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell’ordine etico e religioso, ma anche di intervenire autoritativamente presso i suoi figli nella sfera dell’ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell’applicazione di quei principi ai casi concreti (Ivi, 456; cf enc. Immortale Dei di Leone XII; enc. Ubi Arcano di Pio XI, 1922).

Gradualità

86. Non mancano anime particolarmente dotate di generosità, che, trovandosi di fronte a situazioni nelle quali le esigenze della giustizia non sono soddisfatte o non lo sono in grado sufficiente, si sentono accese dal desiderio di innovare, superando con un babro solo tutte le tappe; come volessero far ricorso a qualcosa che può rassomigliare alla rivoluzione.

Non si dimentichi che la gradualità è la legge della vita in tutte le sue espressioni; per cui anche nelle istituzioni umane non si riesce ad innovare verso il meglio che agendo dal di dentro di esse gradualmente.

"Non nella rivoluzione - proclama Pio XII - ma in una evoluzione concordata sta la salvezza e la giustizia. La violenza non ha mai fatto altro che abbattere, non innalzare; accendere le passioni, non calmarle; accumulare odio e rovine, non affratellare i contendenti; e ha precipitato gli uomini e i partiti nella dura necessità di ricostruire lentamente, dopo prove dolorose, sopra i ruderi della discordia" (cf. Discorso agli operai italiani di Pio XII).

Compito immenso

87. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio.

88. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio.

Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso l’ordine voluto da Dio. "Vuole l’anima tua - si domanda sant’ Agostino - vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera, sicura, ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio comanda all’anima, l’anima al corpo; niente di più ordinato" (Miscellanea Augustiniana...).

Il Principe della pace

89. Queste nostre parole, che abbiamo voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo.

Come vicario - benché tanto umile ed indegno - di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (cf. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà.

90. È questa un’impresa tanto nobile ed alta che le forze umane, anche se animate da ogni lodevole buona volontà, non possono da sole portare ad effetto. Affinché l’umana società sia uno specchio il più fedele possibile del regno di Dio, è necessario l’aiuto dall’alto. Per questo la nostra invocazione in questi giorni sacri sale più fervorosa a colui che ha vinto nella sua dolorosa passione e morte il peccato, elemento disgregatore e apportatore di lutti e squilibri ed ha riconciliato l’umanità col Padre celeste nel suo sangue: "Poiché egli è la nostra pace, egli che delle due ne ha fatta una sola... E venne ad evangelizzare la pace a voi, che eravate lontani, e la pace ai vicini" (Ef 3,14-17).

E nella liturgia di questi giorni risuona l’annuncio: "Surgens Iesus Dominus noster, stans in medio discipulorum suorum, dixit: "Pax vobis, alleluia"; gavisi sunt discipuli, viso Domino" (Resp. ad Mat., in feria VI infra oct. Paschae). Egli lascia la pace, egli porta la pace: "Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis, non quomodo mundus dat ego do vobis" (Gv 14,27).. Questa è la pace che chiediamo a lui con l’ardente sospiro della nostra preghiera.

91. Allontani egli dal cuore degli uomini ciò che la può mettere in pericolo; e li trasformi in testimoni di verità, di giustizia, di amore fraterno. Illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alle sollecitudini per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il gran dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie; in virtù della sua azione, si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace.

In pegno di questa pace e con l’augurio che essa irraggi nelle cristiane comunità a voi affidate, specialmente a beneficio dei più umili e più bisognosi di aiuto e di difesa, siamo lieti di dare a voi, venerabili fratelli, ed ai sacerdoti del clero secolare e regolare, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli delle vostre diocesi, particolarmente a coloro che porranno ogni impegno per mettere in pratica le nostre esortazioni, la benedizione apostolica, propiziatrice dei celesti favori. Infine, per tutti gli uomini di buona volontà, destinatari anch’essi di questa nostra lettera enciclica, imploriamo dal sommo Iddio salute e prosperità.

Dato a Roma, presso S. Pietro, l’11 aprile 1963.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA I GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1º GENNAIO: GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1 gennaio 1968

 

Ci rivolgiamo a tutti gli uomini di buona volontà per esortarli a celebrare "La Giornata della Pace", in tutto il mondo, il primo giorno dell'anno civile, 1° gennaio 1968.

Sarebbe Nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa - all'inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo - che sia la Pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo svolgimento della storia avvenire:

Noi pensiamo che la proposta interpreti le aspirazioni dei Popoli, dei loro Governanti, degli Enti internazionali che attendono a conservare la pace nel mondo, delle Istituzioni religiose tanto interessate alla promozione della Pace, dei Movimenti culturali, politici e sociali che della Pace fanno il loro ideale, della Gioventù - in cui più viva è la perspicacia delle vie nuove della civiltà, doverosamente orientate verso un suo pacifico sviluppo - degli uomini saggi che vedono quanto oggi la Pace sia al tempo stesso necessaria e minacciata.

La proposta di dedicare alla Pace il primo giorno dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l'adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all'indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza d'ogni voce nel mondo per l'esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità.

La Chiesa cattolica, con intenzione di servizio e di esempio, vuole semplicemente "lanciare l'idea", nella speranza ch'essa raccolga non solo il più largo consenso del mondo civile, ma che tale idea trovi dappertutto promotori molteplici, abili e validi a imprimere nella "Giornata della Pace", da celebrarsi alle calende d'ogni anno nuovo, quel sincero e forte carattere d'umanità cosciente e redenta dai suoi tristi e fatali conflitti bellici, che sappia dare alla storia del mondo un più felice svolgimento ordinato e civile.

La Chiesa cattolica provvederà a richiamare i suoi figli al dovere di celebrare la "Giornata della Pace" con le espressioni religiose e morali della fede cristiana; ma ritiene doveroso ricordare a tutti coloro che vorranno condividere l'opportunità di tale "Giornata", alcuni punti che la devono caratterizzare; e primo fra essi: la necessità di difendere la pace nei confronti dei pericoli, che sempre la minacciano:

- il pericolo della sopravvivenza degli egoismi nei rapporti tra le nazioni;

- il pericolo delle violenze, a cui alcune popolazioni possono lasciarsi trascinare per la disperazione nel non vedere riconosciuto e rispettato il loro diritto alla vita e alla dignità umana;

- il pericolo, oggi tremendamente cresciuto, del ricorso ai terribili armamenti sterminatori, di cui alcune Potenze dispongono, impiegandovi enormi mezzi finanziari, il cui dispendio è motivo di penosa riflessione, di fronte alle gravi necessità che angustiano lo sviluppo di tanti altri popoli;

- il pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l'equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali.

La pace si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei Popoli, una nuova mentalità circa l'uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini.

Lungo cammino ancora è necessario per rendere universale ed operante questa mentalità; una nuova pedagogia deve educare le nuove generazioni al reciproco rispetto delle Nazioni, alla fratellanza dei Popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, anche in vista del loro progresso e sviluppo.

Gli Organismi internazionali, istituiti a questo scopo, devono essere sostenuti da tutti, meglio conosciuti, dotati di autorità e di mezzi, idonei alla loro grande missione.

La "Giornata della Pace" deve rendere onore a queste Istituzioni e circondare la loro opera di prestigio, di fiducia e di quel senso di attesa, che deve in esse tenere vigile il senso delle loro gravissime responsabilità e forte la coscienza del mandato loro affidato.

Un'avvertenza sarà da ricordare. La pace non può essere basata su una falsa retorica di parole, bene accette perché rispondenti alle profonde e genuine aspirazioni degli uomini, ma che possono anche servire, ed hanno purtroppo a volte servito, a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di pace, se non addirittura a coprire sentimenti ed azioni di sopraffazioni o interessi di parte.

Né di pace si può legittimamente parlare, ove della pace non si riconoscano e non si rispettino i solidi fondamenti: la sincerità, cioè, la giustizia e l'amore nei rapporti fra gli Stati e, nell'ambito di ciascuna Nazione, fra i cittadini tra di loro e con i loro governanti; la libertà, degli individui e dei popoli, in tutte le sue espressioni, civiche, culturali, morali, religiose.

Altrimenti, non la pace si avrà - anche se, per avventura, l'oppressione sia capace di creare un aspetto esteriore di ordine e di legalità - ma il germinare continuo e insoffocabile di rivolte e di guerre.

E' dunque alla pace vera, alla pace giusta ed equilibrata, nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana e dell'indipendenza delle singole Nazioni che Noi invitiamo gli uomini saggi e forti a dedicare questa "Giornata".

Così, da ultimo, sarà da auspicare che la esaltazione dell'ideale della pace non debba favorire l'ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa della giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga della responsabilità, dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose.

Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita; la verità, la giustizia, la libertà, l'amore.

Ed è per la tutela di questi valori che Noi li poniamo sotto il vessillo della pace, e che invitiamo uomini e Nazioni, e innalzare, all'alba dell'anno nuovo, questo vessillo, che deve guidare la nave della civiltà, attraverso le inevitabili tempeste della storia, al porto delle sue più alte mete.

A voi, venerati fratelli nell'Episcopato; a Voi, figli e fedeli carissimi della nostra santa Chiesa cattolica, rivolgiamo l'invito, di cui sopra abbiamo dato l'annuncio; quello di dedicare ai pensieri ed ai propositi della pace una particolare celebrazione nel primo giorno dell'anno civile, l'uno gennaio del prossimo anno.

Questa celebrazione non deve alterare il calendario liturgico, che riserva il «Capo d'anno» al culto della divina maternità di Maria ed al nome beatissimo di Gesù; anzi queste sante e soavi memorie religiose devono proiettare la loro luce di bontà, di sapienza e di speranza sopra l'implorazione, la meditazione, la promozione del grande e desiderato dono della Pace, di cui il mondo ha tanto bisogno.

Vi sarete accorti, Fratelli veneratissimi e Figli carissimi, quanto spesso la Nostra parola ripeta considerazioni ed esortazioni circa il tema della Pace; non lo facciamo per cedere ad una facile abitudine, ovvero per servirCi di argomento di pura attualità;

- lo facciamo perché pensiamo essere ciò reclamato dal Nostro dovere di Pastore universale;

- lo facciamo perché vediamo minacciata la pace in misura grave e con previsioni di avvenimenti terribili, che possono essere catastrofici per nazioni intere e fors'anche per gran parte dell'umanità;

- lo facciamo perché negli ultimi anni della storia del nostro secolo è finalmente emerso chiarissimo la pace essere l'unica e vera linea dell'umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile);

- lo facciamo perché la pace è nel genio della religione cristiana, poiché per il cristiano proclamare la Pace è annunciare Gesù Cristo, "Egli è la nostra pace" (Eph. 2, 14) ; "il Suo è Vangelo di pace" (Eph. 6, 15): mediante il Suo sacrificio sulla Croce Egli ha compiuto la riconciliazione universale, e noi, Suoi seguaci, siamo chiamati ad essere «operatori della pace» (Matth. 5, 9); e solo dal Vangelo, alla fine, può effettivamente scaturire la pace, non per rendere fiacchi e molli gli uomini, ma per sostituire nei loro animi agli impulsi della violenza e delle sopraffazioni le virili virtù della ragione e del cuore d'un vero umanesimo;

- lo facciamo infine perché vorremmo che non mai Ci fosse rimproverato da Dio e dalla storia di aver taciuto davanti al pericolo d'una nuova conflagrazione fra i Popoli, la quale, come ognuno sa, potrebbe assumere forme improvvise di apocalittica terribilità.

Occorre sempre parlare di Pace!

Occorre educare il mondo ad amare la pace, a costruirla, a difenderla; e contro le rinascenti premesse della guerra (emulazioni nazionalistiche, armamenti, provocazioni rivoluzionarie, odio di razze, spirito di vendetta, ecc.) , e contro le insidie di un pacifismo tattico, che narcotizza l'avversario da abbattere, o disarma negli spiriti il senso della giustizia, del dovere e del sacrificio, occorre suscitare negli uomini del nostro tempo e delle generazioni venture il senso e l'amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull'amore (cf. Giovanni XXIII, "Pacem in terris").

La grande idea della Pace abbia, specialmente per noi seguaci di Cristo, la sua Giornata solenne, all'inizio dell'anno nuovo 1968.

Noi credenti nel Vangelo possiamo infondere in questa celebrazione un tesoro meraviglioso di idee originali e potenti: come quella dell'intangibile e universale fratellanza di tutti gli uomini, derivante dall'unica, sovrana e amabilissima Paternità di Dio, e proveniente dalla comunione che - in re vel in spe - tutti ci unisce a Cristo; ed anche dalla vocazione profetica, che nello Spirito Santo chiama il genere umano all'unità, non solo di coscienza, ma di opere e di destini.

Noi possiamo, come nessuno, parlare dell'amore del prossimo. Noi possiamo trarre dall'evangelico precetto del perdono e della misericordia fermenti rigeneratori della società.

Noi, soprattutto, Fratelli veneratissimi e Figli dilettissimi, possiamo avere un'arma singolare per la pace: la preghiera, con le sue meravigliose energie di tonificazione morale e di impetrazione, di trascendenti fattori divini, di innovazioni spirituali e politiche; e con la possibilità ch'essa offre a ciascuno di interrogarsi individualmente e sinceramente circa le radici del rancore e della violenza, che possono eventualmente trovarsi nel cuore di ognuno.

Vediamo allora d'inaugurare l'anno di grazia 1968 (anno della fede che diviene speranza) pregando per la pace; tutti, possibilmente insieme nelle nostre chiese e nelle nostre case; è ciò che per ora vi chiediamo: non manchi la voce di alcuno nel grande coro della Chiesa e del mondo invocante da Cristo, immolato per noi: dona nobis pacem.

Dal Vaticano, 8 dicembre 1967.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA II GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PROMOZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO, CAMMINO VERSO LA PACE

1 gennaio 1969

 

A tutti gli uomini di buona volontà, a tutti i responsabili circa il corso della storia di oggi e di domani;

alle guide perciò della politica, dell'opinione pubblica, dell'orientamento sociale, della cultura, della scuola;

a tutta la gioventù, che insorge nell'ansia d'un rinnovamento mondiale,

con umile e libera voce, che viene dal deserto d'ogni terreno interesse,
noi ancora annunciamo l'implorante e solenne parola: Pace.

La Pace è oggi intrinsecamente collegata al riconoscimento ideale e all'instaurazione effettiva dei Diritti dell'Uomo.

A questi fondamentali diritti corrisponde un fondamentale dovere; ch'è appunto la Pace.

La Pace è un dovere.

Tutto quello che il mondo contemporaneo viene commentando sullo sviluppo delle relazioni internazionali, sull'interdipendenza degli interessi dei Popoli, sull'accesso dei nuovi Stati alla libertà e all'indipendenza, su gli sforzi che la civiltà va facendo per avviarsi ad un'organizzazione giuridica unitaria e mondiale, sui pericoli d'incalcolabili catastrofi nell'eventualità di nuovi conflitti armati, sulla psicologia dell'uomo moderno desideroso di prosperità indisturbata e di rapporti umani universali, sul progresso dell'ecumenismo e del reciproco rispetto delle libertà personali e sociali, ci persuade che la Pace è un bene supremo della vita dell'uomo sulla terra, un interesse di primo grado, un'aspirazione comune, un ideale degno dell'umanità padrona di sé e del mondo, una necessità per mantenere le conquiste raggiunte e per raggiungerne altre, una legge fondamentale per la circolazione del pensiero, della cultura, dell'economia, dell'arte, un'esigenza ormai insopprimibile nella visione dei destini umani. Perché la Pace è la sicurezza, la Pace è l'ordine. Un ordine giusto e dinamico, diciamo, da costruire continuamente. Senza la Pace nessuna fiducia, senza fiducia nessun progresso. Una fiducia, diciamo, radicata nella giustizia e nella lealtà. Solo nel clima della Pace si attesta il diritto, progredisce la giustizia, respira la libertà. Se questo è il senso della Pace, se questo è il valore della Pace, la Pace è un dovere.

È il dovere della storia presente. Chi sa riflettere sugli insegnamenti che la storia passata ci dà, conclude subito per dichiarare assurdo il ritorno alle guerre, alle lotte, alle stragi, alle rovine generate dalla psicologia delle armi e delle forze contrastanti fino alla morte di uomini cittadini della terra, patria comune della nostra vita nel tempo. Chi possiede il senso dell'uomo non può non essere un fautore della Pace. Chi riflette sulle cause dei conflitti fra gli uomini deve riconoscere ch'esse denunciano carenze dell'animo umano, non virtù autentiche per la sua morale grandezza. La necessità della guerra poteva avere una giustificazione solo in condizioni eccezionali e deprecabili di fatto e di diritto, che non dovrebbero mai più verificarsi nella società mondiale moderna. La ragione, non la forza deve decidere delle sorti dei popoli. L'intesa, la trattativa, l'arbitrato, non l'oltraggio, il sangue o la schiavitù, devono intercorrere nei difficili rapporti fra gli uomini. E nemmeno una tregua precaria, un equilibrio instabile, un terrore di rappresaglia e di vendetta, una sopraffazione ben riuscita, una prepotenza fortunata possono essere garanzia di Pace degna di tal nome. La Pace bisogna volerla. La Pace bisogna amarla. La Pace bisogna produrla. Dev'essere un risultato morale; deve scaturire da spiriti liberi e generosi. Un sogno, essa può sembrare; un sogno che diventa realtà, in virtù d'una concezione umana nuova e superiore.

Un sogno diciamo, perché l'esperienza di questi ultimi anni e l'insorgenza di recenti torbide correnti di cattivi pensieri: sulla contestazione radicale ed anarchica, sulla violenza lecita e necessaria in ogni caso, sulla politica di potenza e di dominazione, sulla gara degli armamenti e la fiducia nei metodi dell'insidia e dell'inganno, sulla ineluttabilità delle prove di forza, ecc., sembrano soffocare la speranza nell'ordinamento pacifico del mondo. Ma questa speranza rimane, perché deve rimanere. È la luce del progresso e della civiltà. Il mondo non può rinunciare al suo sogno di Pace universale. E proprio perché la Pace è sempre in divenire, perché è sempre incompleta, perché è sempre fragile, perché è sempre insidiata, perché è sempre difficile noi la proclamiamo. Come un dovere. Un dovere inderogabile. Un dovere dei responsabili della sorte dei Popoli. Un dovere d'ogni cittadino del mondo: perché tutti devono amare la Pace; tutti devono concorrere a produrre quella mentalità pubblica, quella coscienza comune che la rende auspicabile e possibile. La Pace dev'essere dapprima negli animi, affinché poi sia negli avvenimenti.

Sì, la Pace è un dovere universale e perenne. Per ricordare questo assioma della civiltà moderna, noi invitiamo il mondo a celebrare anche per l'anno incipiente 1969 la «Giornata della Pace», il primo gennaio. È un augurio, è una speranza, è un impegno: il primo sole dell'anno nuovo deve irradiare sulla terra la luce della Pace.

Noi osiamo sperare che fra tutti siano i giovani ad afferrare questo invito come un richiamo capace d'interpretare ciò che di nuovo, ciò che di vivo, ciò che di grande si agita nei loro animi esacerbati, perché la Pace esige la revisione degli abusi e coincide con la causa della giustizia.

Quest'anno infatti una circostanza favorisce per tutti la nostra proposta: si è ora ricordato il XX anniversario della proclamazione dei Diritti dell'Uomo. È questo un avvenimento che riguarda tutti gli uomini: individui, famiglie, gruppi, associazioni, Nazioni. Nessuno lo deve dimenticare, nessuno trascurare, perché tutti esso richiama a quel fondamentale riconoscimento d'una degna e piena cittadinanza d'ogni uomo sulla terra. E nasce da questo riconoscimento il titolo primigenio alla Pace: ecco il tema della Giornata mondiale della Pace, il quale suona appunto così: «La promozione dei Diritti dell'Uomo, via verso la Pace». Affinché all'uomo sia garantito il diritto alla vita, alla libertà, all'eguaglianza, alla cultura, al godimento dei beni della civiltà, alla dignità personale e sociale, occorre la Pace, dove questa perde il suo equilibrio e la sua efficienza i Diritti dell'Uomo diventano precari e compromessi; dove non vi è Pace il diritto perde il suo volto umano. Là dove non vi è rispetto, difesa, promozione dei Diritti dell'Uomo, - là dove si fa violenza, o frode alle sue inalienabili libertà, dove si ignora o si degrada la sua personalità, dove si esercitano la discriminazione, lo schiavismo, l'intolleranza, - non vi può essere vera Pace. Perché Pace e Diritto sono reciprocamente causa ed effetto uno dell'altro; la Pace favorisce il Diritto; e, a sua volta, il Diritto la Pace.

Vogliamo sperare che queste ragioni siano valide per ogni persona, per ogni gruppo di persone, per ogni Nazione; e che la trascendente importanza della causa della Pace ne diffonda la riflessione e ne promuova l'applicazione. Pace e Diritti dell'Uomo, ecco l'oggetto dei pensieri con cui Noi vorremmo che gli uomini inaugurassero l'anno nascente. Il nostro invito è sincero, e non nasconde alcun altro fine che il bene dell'umanità. La nostra voce è debole, ma chiara; essa è quella d'un amico, che vorrebbe vederla ascoltata non tanto per chi la proferisce, ma per quello che dice. È al mondo che essa si rivolge; al mondo che pensa, al mondo che può, al mondo che cresce, al mondo che lavora, al mondo che soffre, al mondo che aspetta. Oh! non vada dispersa! La Pace è un dovere!

Questo nostro messaggio non può mancare della forza che gli viene dal Vangelo di cui noi siamo ministri, il Vangelo di Cristo.

A tutti nel mondo, come appunto il Vangelo, ancora esso si rivolge.

Ma più direttamente a voi, venerati Fratelli nell'Episcopato, a voi, Figli e Fedeli carissimi della Chiesa cattolica, noi ripetiamo l'invito a celebrare la «Giornata della Pace »: l'invito diventa un precetto, non nostro, ma del Signore, il Quale ci vuole convinti e solerti operatori della pace come condizione d'essere fra i beati insigniti del nome di figli di Dio (Mt. 5, 9). A voi si rivolge la nostra voce: essa diventa un grido, perché per noi credenti la pace assume un significato ancora più profondo e misterioso, per noi acquista valore di pienezza spirituale e di salvezza personale, oltre che collettiva e sociale; la Pace terrestre e temporale per noi è riflesso e preludio di Pace celeste ed eterna.

La Pace per noi Cristiani non è soltanto un equilibrio esteriore, un ordine giuridico, un complesso di rapporti pubblici disciplinati; per noi la Pace è innanzi tutto il risultato dell'attuazione del disegno di sapienza e d'amore, con cui Dio ha voluto instaurare relazioni soprannaturali con l'umanità. La Pace è il primo effetto di questa nuova economia divina, che chiamiamo la grazia; «grazia e pace» ripete l'Apostolo; è un dono di Dio, che diventa stile della vita cristiana, è una fase messianica, che riflette la sua luce e la sua speranza anche sulla città temporale, e che conforta con le sue più alte ragioni quelle su cui essa fonda la propria Pace. Alla dignità dei cittadini del mondo la Pace di Cristo aggiunge quella di figli del Padre celeste; all'eguaglianza naturale degli uomini aggiunge quella della fraternità cristiana; alle contese umane, che sempre compromettono e violano la Pace, quella di Cristo svigorisce i pretesti e contesta i motivi, prospettando i vantaggi d'un ordine morale, ideale e superiore, e svela la prodigiosa virtù religiosa e civile del perdono generoso; all'insufficienza dell'arte umana di produrre una solida e stabile Pace, quella di Cristo presta il soccorso del suo inesauribile ottimismo; alla fallacia della politica del prestigio orgoglioso e dell'interesse materiale la Pace di Cristo suggerisce la politica della carità; alla giustizia troppo sovente imbelle e impaziente, che sostiene le sue esigenze col furore delle armi, la Pace di Cristo infonde l'energia invitta del diritto derivato dalle profonde ragioni della natura umana e del trascendente destino dell'uomo. E non è paura della fortezza e della resistenza la Pace di Cristo, la quale deriva il suo spirito dal sacrificio che redime; e non è viltà transigente alle sventure e alle deficienze degli uomini senza fortuna e senza difesa la Pace di Cristo, che ha l'intelligenza del dolore e dei bisogni umani e sa trovare amore e dono per i piccoli, per i poveri, per i deboli, per i diseredati, per i sofferenti, per gli umiliati, per i vinti. Cioè la Pace di Cristo è, più d'ogni altra formula umanitaria, sollecita dei Diritti dell'Uomo.

Questo, Fratelli e Figli tutti, noi vorremmo che voi aveste a ricordare e ad annunciare nella «Giornata della Pace», nel cui segno si apre l'anno nuovo, nel nome di Cristo Re della Pace, vindice d'ogni autentico umano diritto.

E ciò sia con la nostra Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 8 dicembre 1968.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA III GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

EDUCARSI ALLA PACE ATTRAVERSO LA RICONCILIAZIONE

1 gennaio 1970

 

Cittadini del mondo che vi destate all'alba di questo nuovo anno 1970, pensate un istante: dove è diretto il cammino dell'umanità? Uno sguardo d'insieme oggi è possibile, uno sguardo profetico.

L'umanità cammina, cioè progredisce verso un dominio sempre maggiore del mondo: il pensiero, lo studio, la scienza la guidano a questa conquista; il lavoro, lo strumento, la tecnica compiono la conquista meravigliosa. E questa a che cosa le serve? A vivere meglio, a vivere di più.

L'umanità cerca la sua pienezza di vita entro l'orizzonte del tempo; e la ottiene. Ma avverte che questa pienezza non sarebbe tale se non fosse universale, cioè estesa a tutti gli uomini. Perciò l'umanità tende ad estendere i benefici del progresso a tutti i Popoli; tende all'unità, tende alla giustizia, tende ad un equilibrio, ad una perfezione, che chiamiamo la Pace.

Anche quando gli uomini operano contro la pace, l'umanità tende alla pace. "In vista della pace, anche le guerre si fanno" (De Civ. Dei, XIX, c. XII; P.L. 7, 637). La pace è il fine logico del mondo presente; è il destino del progresso; è l'ordine terminale dei grandi sforzi della civiltà moderna (cfr. Lumen Gentium, 36).

Noi oggi perciò annunciamo ancora una volta la pace come l'augurio migliore per il tempo che viene. Pace a voi, uomini dell'anno 70. Noi annunciamo la pace come la concezione dominante della vita cosciente dell'uomo, che vuole guardare la prospettiva del suo prossimo e futuro itinerario.

Noi, una volta di più, annunciamo la pace, perché essa al tempo stesso, sotto aspetti diversi, è principio e fine del normale e progressivo svolgimento della società umana. E' principio, cioè condizione: come una macchina non può funzionare bene, se tutte le sue strutture non corrispondono al disegno secondo il quale la macchina è concepita, così l'umanità non può svilupparsi in efficienza ed in armonia, se la pace non le conferisce il suo proprio equilibrio iniziale.

La pace è l'idea che presiede al progresso umano; è la concezione vera e feconda, donde procede la vita migliore e la storia logica di noi uomini. E' fine, cioè coronamento dello sforzo, spesso laborioso e doloroso, mediante il quale noi uomini cerchiamo di sottoporre il mondo esteriore al nostro servizio e di organizzare la nostra società secondo un ordine che rispecchi giustizia e benessere.

Noi insistiamo: la Pace è la vita reale del quadro ideale del mondo umano. Con questa avvertenza: essa non è propriamente una posizione statica, che può esser acquistata una volta per sempre; non è una tranquillità immobile.

Sarebbe male intesa la celebre definizione agostiniana, che chiama la Pace "la tranquillità dell'ordine" (De Civ. Dei, XIX, c. XIII; P.L. 7, 640) , se noi avessimo dell'ordine un concetto astratto, e non sapessimo che l'ordine umano è un atto, più che uno stato; dipende dalla coscienza e dalla volontà di chi lo compone e ne gode, più che dalle circostanze che lo favoriscono; e per essere davvero ordine umano è sempre perfettibile, cioè è costantemente generato ed evoluto; cioè consiste in un movimento progressivo, come l'equilibrio del volo dev'essere ad ogni istante sostenuto da un dinamismo propulsore.

Perché diciamo questo? Perché il Nostro discorso si rivolge specialmente agli spiriti giovani. Quando parliamo di pace, non vi proponiamo, o amici, un immobilismo mortificante ed egoista.

La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare.

Non è una ideologia soporifera; è una concezione deontologica, che ci rende tutti responsabili del bene comune, e che ci obbliga ad offrire ogni nostro sforzo per la sua causa; la causa vera della umanità.

Chi vorrà penetrare col proprio pensiero in questa convinzione scoprirà molte cose. Scoprirà che occorre massimamente riformare le idee, che guidano il mondo. Scoprirà che tutte queste idee-forze sono almeno parzialmente false, perché sono particolari, ristrette, egoiste. Scoprirà che una sola idea è, in fondo, vera e buona; è quella dell'amore universale; cioè quella della pace.

E scoprirà come questa idea sia al tempo stesso semplicissima e difficilissima;

- semplicissima in se stessa: l'uomo è fatto per l'amore, è fatto per la pace;

- difficilissima: come si può amare? come si può spingere l'amore alla dignità di principio universale? come può l'amore prendere il posto nella mentalità dell'uomo moderno, tutta intrisa di lotte, di egoismo, di odio? chi può dire di sé d'avere nel cuore l'amore? l'amore per l'intera umanità? l'amore per l'umanità in fieri, l'umanità di domani, l'umanità del progresso, l'umanità autentica, che non può essere tale se non è unita, non per forza, non per calcolo interessato, egoista e sfruttatore, ma per fraterna amorosa concordia?

Scoprirà allora questo alunno della grande idea della pace che occorre oggi, subito, un'educazione ideologica nuova, l'educazione alla pace. Sì, la pace comincia nell'interno dei cuori. Prima bisogna conoscerla, riconoscerla, volerla, amarla la pace; poi la esprimeremo, e la imprimeremo nel costume rinnovato dell'umanità; nella sua filosofia, nella sua sociologia, nella sua politica.

Rendiamoci conto, o Uomini Fratelli, della grandezza di questa visione avveniristica; e affrontiamo coraggiosamente il primo programma: educare alla pace.

Noi siamo coscienti dell'apparenza paradossale di questo programma; esso pare affermarsi fuori della realtà; fuori d'ogni realtà istintiva, filosofica, sociale, storica . . . La lotta è la legge. La lotta è la forza del successo. Ed anche: la lotta è la giustizia. Legge inesorabile: essa rinasce ad ogni tappa dell'umano progresso; anche oggi, dopo le spaventose esperienze delle ultime guerre, la lotta, non la pace, si impone. Perfino la violenza ritrova i suoi seguaci ed i suoi adulatori. La rivoluzione dà nome e prestigio ad ogni rivendicazione della giustizia, ad ogni rinnovamento del progresso. E' fatale: solo la forza apre la via ai destini umani.

Uomini Fratelli: questa è la grande difficoltà da considerare e da risolvere. Che la lotta possa essere necessaria, che possa essere l'arma della giustizia, che possa assurgere a dovere magnanimo ed eroico Noi non neghiamo. Che la lotta possa conseguire successi, nessuno può contestare.

Ma Noi diciamo ch'essa non può costituire l'idea luce, di cui l'umanità ha bisogno. Diciamo che è tempo per la civiltà di ispirarsi ad una concezione differente da quella della lotta, della violenza, della guerra, della sopraffazione per far camminare il mondo verso una giustizia vera e comune. Diciamo che la pace non è viltà, non è debolezza imbelle; la pace deve gradualmente, e subito, se possibile, sostituire la fortezza morale alla forza brutale; deve sostituire la ragione, la parola, la grandezza morale all'efficacia fatale e troppo spesso fallace delle armi e dei mezzi violenti e della potenza materiale ed economica.

La pace è l'uomo, che ha concesso d'essere lupo per l'altro uomo, l'uomo nella sua invincibile potestà morale. Questa deve oggi prevalere nel mondo. E prevale.

Noi salutiamo con entusiasmo gli sforzi dell'uomo moderno per affermare nel mondo e nella storia attuale la pace come metodo, come istituzione internazionale, come trattativa leale, come autodisciplina nelle contese territoriali e sociali, come questione superiore al prestigio della rappresaglia e della vendetta.

Grandi questioni per la vittoria della pace sono già sul tappeto: il disarmo, dapprima, la limitazione delle armi nucleari, l'ipotesi del ricorso all'arbitrato, la sostituzione della collaborazione alla concorrenza, la convivenza pacifica nella diversità delle ideologie e dei regimi, la speranza che sia devoluta un'aliquota delle spese militari in soccorso dei Popoli in via di sviluppo.

Così ravvisiamo un contributo alla pace nella deplorazione ormai universale del terrorismo, della tortura dei prigionieri, delle repressioni vendicative su popolazioni innocenti, dei campi di concentramento di detenuti civili, dell'uccisione di ostaggi, eccetera. La coscienza del mondo non tollera più simili delitti, che ritorcono la loro feroce inumanità in disonore sopra coloro che li compiono.

Non è Nostro ufficio giudicare le vertenze tuttora in atto fra le Nazioni, le razze, le tribù, le classi sociali. Ma è Nostra missione lanciare la parola « Pace in mezzo agli uomini in lotta fra loro. E' Nostra missione ricordare agli uomini che sono fratelli.

E' Nostra missione insegnare agli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a educarsi alla pace. Noi perciò esprimiamo il Nostro plauso, il Nostro incoraggiamento, la Nostra speranza per quanti si fanno promotori di questa pedagogia della pace.

Noi invitiamo anche per quest'anno le Persone e gli Enti responsabili, gli organi dell'opinione pubblica, i Politici, i Maestri, gli Artisti e specialmente la Gioventù a camminare risolutamente per questa via della civiltà vera e universale. Bisogna arrivare alla celebrazione effettiva della profezia biblica: la giustizia e la pace si sono incontrate e baciate.

E a voi, Fratelli e Figli nella medesima fede di Cristo, Noi aggiungiamo una parola di più sul Nostro dovere, come dicevamo, di educare gli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a perdonarsi scambievolmente. Noi ne abbiamo preciso insegnamento dal Maestro Gesù; ne abbiamo il suo esempio, ne abbiamo l'impegno, ch'Egli capta dalle nostra labbra quando recitiamo la preghiera al Padre, secondo le parole ben note: "Rimetti a noi i nostri debiti"come"noi li rimettiamo ai nostri debitori". Questo "come" è tremendo; esso stabilisce un'equazione, che, realizzata, è la nostra fortuna nell'economia della salvezza: non realizzata, può essere la nostra condanna (cfr. Mt. 18, 21-35).

Predicare il Vangelo del perdono sembra assurdo alla politica umana, perché nell'economia naturale la giustizia spesso non lo consente. Ma in una economia cristiana, cioè sovrumana, assurdo non è. Difficile, ma non assurdo.

Come finiscono i conflitti nel mondo secolare? qual è la pace, che alla fine essi raggiungono? Nella dialettica insidiosa e furiosa di questa nostra storia di uomini pieni di passioni, di orgoglio, di rancori, la pace che conclude un conflitto è di solito un'imposizione, una sopraffazione, un giogo, di cui la parte più debole e soccombente subisce una forzata tolleranza, ch'è spesso un rinvio ad una riscossa futura, e accetta lo statuto protocollare, che nasconde l'ipocrisia di cuori tuttora nemici.

Manca a questa pace, troppo spesso finta ed instabile, la completa soluzione del conflitto, cioè il perdono, il sacrificio del vincitore a quei vantaggi raggiunti, che umiliano e rendono il vinto inesorabilmente infelice; e manca al vinto la forza d'animo della riconciliazione. Pace senza clemenza, come può dirsi tale? Pace satura di spirito di vendetta, come può essere vera?

Da una parte e dall'altra occorre l'appello a quella superiore giustizia, ch'è il perdono, il quale cancella le insolubili questioni di prestigio, e rende ancora possibile l'amicizia.

Lezione difficile; ma non è forse di attualità? non è forse cristiano?

A questa scuola superiore della pace educhiamo noi stessi, per primi, o Fratelli e Figli cristiani, rileggiamo il Discorso della montagna (cfr. Mt. 5, 21-26; 38-48; 6, 12, 14-15); e poi procuriamo di darne, con l'esempio e con la parola, l'annuncio al mondo.

Dal Vaticano, 30 novembre 1969.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA IV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

OGNI UOMO E' MIO FRATELLO

1 gennaio 1971

 

UOMINI DEL 1971!

Sul quadrante della Storia del mondo
l'indice del tempo,
del nostro tempo,
segna l'inizio d'un anno nuovo: questo,
che noi vogliamo inaugurare, come già altri precedenti,
col nostro augurio, affettuoso,
col nostro messaggio di Pace:
Pace a voi, Pace al mondo.

Ascoltateci. Vale la pena. Sì, è la solita parola la nostra: pace.

Ma è la parola, di cui il mondo ha bisogno; un bisogno urgente, che la rende nuova.

Apriamo gli occhi sull'alba di questo nuovo anno, e osserviamo due ordini di fatti generali, i quali investono il mondo, i popoli, le famiglie, le singole persone. Questi fatti, a noi sembra, incidono profondamente e direttamente sui nostri destini. Ciascuno di noi ne può essere l'oroscopo.

Osservate un primo ordine di fatti. Veramente non è un ordine, ma un disordine. Perché i fatti, che colleghiamo in questa categoria, segnano tutti un ritorno a pensieri e ad opere, che l'esperienza tragica della guerra pareva avesse, o dovesse avere annullati. Alla fine della guerra tutti avevano detto: basta. Basta a che cosa? Basta a tutto ciò che aveva generato la carneficina umana e l'immane rovina. Subito dopo la guerra, all'inizio di questa generazione, l'umanità ebbe un lampo di coscienza: bisogna non solo comporre le tombe, medicare le ferite, restaurare i disastri, ridare alla terra una faccia nuova e migliore, ma bisogna togliere le cause della conflagrazione subìta. Le cause: questa fu l'idea sapiente; cercarle, eliminarle. Il mondo respirò. Davvero parve che stesse per nascere un'epoca nuova, quella della pace universale.(1) Tutti parvero disposti a mutamenti radicali, in vista di evitare nuovi conflitti. Dalle strutture politiche, sociali, economiche si giunse a prospettare un orizzonte di stupende innovazioni morali e sociali; si parlò di giustizia, di diritti umani, di promozione dei deboli, di convivenza ordinata, di collaborazione organizzata, di unione mondiale. Grandi gesti sono stati compiuti; i vincitori, ad esempio, si sono fatti soccorritori dei vinti; grandi istituzioni sono state fondate; il mondo cominciò ad organizzarsi su principii di solidarietà e di benessere comune. Il cammino verso la pace, come condizione normale e statutaria della vita del mondo, parve definitivamente tracciato.

Se non che, che cosa vediamo dopo venticinque anni di questo reale e idilliaco progresso? Vediamo, innanzi tutto, che le guerre, qua e là, infieriscono ancora, e sembrano piaghe inguaribili, che minacciano di allargarsi e aggravarsi. Vediamo continuare e, qua e là, crescere le discriminazioni sociali, razziali, religiose. Vediamo risorgere la mentalità d'una volta; l'uomo sembra riattestarsi su posizioni psicologiche prima, politiche poi, del tempo passato. Risorgono i dèmoni di ieri. Ritorna la supremazia degli interessi economici (2) col facile abuso dello sfruttamento dei deboli; ritorna l'abitudine all'odio (3) e alla lotta di classe, e rinasce così un'endemica guerra internazionale e civile; ritorna la gara del prestigio nazionale e del potere politico; ritorna il braccio di ferro delle ambizioni contrastanti, dei particolarismi chiusi e irriducibili delle razze e dei sistemi ideologici; si ricorre alla tortura e al terrorismo; si ricorre al delitto e alla violenza, come a fuoco ideale, non badando all'incendio che ne può derivare; si ripensa alla pace come ad un puro equilibrio di forze poderose e di armamenti spaventosi; si risente il brivido del timore che qualche fatale imprudenza faccia scoppiare inconcepibili e irrefrenabili conflagrazioni. Che cosa succede? Dove si va? Che cosa è venuto meno? o che cosa è mancato? Dobbiamo rassegnarci, dubitando che l'uomo sia incapace di realizzare una pace giusta e sicura, e rinunciando a imprimere nell'educazione delle generazioni nuove la speranza e la mentalità della pace? (4)

Per fortuna, un altro diagramma di idee e di fatti si profila davanti alla nostra osservazione; ed è quello della pace progressiva. Perché, nonostante tutto, la pace cammina. Vi sono discontinuità, vi sono incoerenze e difficoltà; ma tuttavia la pace cammina e si attesta nel mondo con un carattere di invincibilità. Tutti lo avvertono: la pace è necessaria. Essa ha per sé il progresso morale dell'umanità, decisamente orientata verso l'unità. Unità e pace, quando la libertà le unisce, sono sorelle. Essa, la pace, profitta del favore crescente dell'opinione pubblica, convinta dell'assurdità della guerra perseguita per se stessa, e creduta mezzo unico e fatale per dirimere le controversie fra gli uomini. Essa si vale della rete sempre più fitta dei rapporti umani: culturali, economici, commerciali, sportivi, turistici; bisogna vivere insieme, ed è bello conoscersi, stimarsi, aiutarsi. Una solidarietà fondamentale si sta formando nel mondo; essa favorisce la pace. E le relazioni internazionali si sviluppano sempre più, e creano la premessa, ed anche la garanzia d'una certa concordia. Le grandi istituzioni internazionali e supernazionali si rivelano provvidenziali, tanto all'origine quanto al coronamento della pacifica convivenza dell'umanità.

Davanti a questo duplice quadro, che sovrappone fenomeni contrari in ordine allo scopo, che sommamente ci sta a cuore, cioè la pace, una osservazione unica, ambivalente, pare a noi possa essere ricavata. Poniamo la duplice domanda, correlativa a due aspetti dell'ambigua scena del mondo presente:

come, oggi, decade la pace?
e come, oggi, progredisce la pace?

Qual è l'elemento che emerge, in senso negativo, ovvero in senso positivo, da questa semplice analisi? L'elemento è sempre l'uomo. L'uomo svalutato nel primo caso, l'uomo valutato nel secondo. Osiamo una parola, che può apparire essa stessa ambigua, ma considerata nell'esigenza della sua profondità, parola sempre fiammante e suprema: l'amore, l'amore all'uomo, come primo valore dell'ordine terreno. Amore e pace sono entità correlative. La pace è un effetto dell'amore; quella vera, quella umana.(5) La pace suppone una certa «identità di scelta». E questa è amicizia. Se vogliamo la pace, dobbiamo riconoscere la necessità di fondarla su basi più solide che non sia quella o della mancanza di rapporti (ora i rapporti fra gli uomini sono inevitabili, crescono e s'impongono), ovvero quella dell'esistenza di rapporti d'interesse egoistico (sono precari e spesso fallaci), ovvero quella del tessuto di rapporti puramente culturali o accidentali (possono essere a doppio taglio, per la pace o per la lotta). La pace vera deve essere fondata sulla giustizia, sul senso dell'intangibile dignità umana, sul riconoscimento d'una incancellabile e felice eguaglianza fra gli uomini, sul dogma basilare della fraternità umana. Cioè del rispetto, dell'amore dovuto ad ogni uomo, perché uomo. Erompe la parola vittoriosa: perché fratello. Fratello mio, fratello nostro.

Anche questa coscienza della fraternità umana universale procede felicemente nel nostro mondo, almeno in linea di principio. Chi fa opera per educare le nuove generazioni alla convinzione che ogni uomo è nostro fratello costruisce dalle fondamenta l'edificio della pace. Chi inserisce nell'opinione pubblica il sentimento della fratellanza umana senza confine prepara al mondo giorni migliori. Chi concepisce la tutela degli interessi politici senza la spinta dell'odio e della lotta fra gli uomini, come necessità dialettica e organica del vivere sociale, apre alla convivenza umana il progresso sempre attivo del bene comune. Chi aiuta a scoprire in ogni uomo, al di là dei caratteri somatici, etnici, razziali, l'esistenza d'un essere eguale al proprio, trasforma la terra da un epicentro di divisioni, di antagonismi, d'insidie e di vendette in un campo di lavoro organico di civile collaborazione. Perché dove la fratellanza fra gli uomini è in radice misconosciuta è in radice rovinata la pace. E la pace è invece lo specchio dell'umanità vera, autentica, moderna, vittoriosa d'ogni anacronistico autolesionismo. È la pace la grande idea celebrativa dell'amore fra gli uomini, che si scoprono fratelli e si decidono a vivere tali.

Questo è il nostro messaggio per l'anno 71. Esso fa eco, come voce che scaturisca nuova dalla coscienza civile, alla dichiarazione dei Diritti dell'uomo: «Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali nella dignità e nei diritti; essi sono dotati di ragione e di coscienza, e devono comportarsi gli uni verso gli altri come fratelli». Fino a questa vetta è salita la dottrina della civiltà. Non torniamo indietro. Non perdiamo i tesori di questa conquista assiomatica. Diamo piuttosto applicazione logica e coraggiosa a questa formula, traguardo dell'umano progresso: «ogni uomo è mio fratello». Questa è la pace, in essere e in fieri. E vale per tutti!

Vale, Fratelli di fede in Cristo, specialmente per noi. Alla sapienza umana, la quale, con immenso sforzo, è arrivata a così alta e difficile conclusione, noi credenti possiamo aggiungere un conforto indispensabile. Quello, innanzi tutto, della certezza (perché dubbi d'ogni genere possono insidiarla, indebolirla, annullarla). La nostra certezza nella parola divina di Cristo maestro, che la scolpì nel suo Vangelo: «Voi tutti siete fratelli» (Mt 23, 8). Poi possiamo offrire il conforto della possibilità dell'applicazione (perché, nella realtà pratica quanto è difficile essere davvero fratelli verso ogni uomo!); lo possiamo con il ricorso, come a canone pratico e normale d'azione, ad un altro fondamentale insegnamento di Cristo: «Tutto quello che voi volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi stessi a loro; questa infatti è tutta la legge e la dottrina dei profeti» (Mt 7, 12). Filosofi e Santi quanto hanno meditato su questa massima, che innesta l'universalità della norma di fratellanza nell'azione singola e concreta della moralità sociale! E ancora, finalmente, noi siamo in grado di fornire l'argomento supremo: quello della Paternità divina, comune a tutti gli uomini, proclamata a tutti i credenti. Una vera fraternità fra gli uomini, per essere autentica e obbligante, suppone ed esige una Paternità trascendente e riboccante di metafisico amore, di soprannaturale carità. Noi possiamo insegnare la fratellanza umana, cioè la pace, insegnando a riconoscere, ad amare, a invocare il Padre nostro, che sta nei cieli. Noi sappiamo di trovare sbarrato l'adito all'altare di Dio se non abbiamo prima noi stessi rimosso l'ostacolo alla riconciliazione con l'uomo-fratello (Mt 5, 23 ss.; 6, 14-15). E sappiamo che se saremo promotori di pace, allora potremo essere chiamati figli di Dio, ed essere fra coloro che il Vangelo dichiara beati (Mt 5, 9).

Quale forza, quale fecondità, quale fiducia la religione cristiana conferisce all'equazione fraternità e pace. E quale gaudio per noi d'incontrare alla coincidenza dei termini di questo binomio l'incrocio dei sentieri della nostra fede con quelli delle umane e civili speranze!

Dal Vaticano, 14 novembre 1970.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA V GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

SE VUOI LA PACE, LAVORA PER LA GIUSTIZIA

1 gennaio 1972

 

Uomini del pensiero!
Uomini dell'azione!
Uomini tutti viventi nell'anno 1972!
Accogliete ancora una volta
il Nostro invito a celebrare
la Giornata della Pace!

Noi riprendiamo la riflessione sulla Pace, perché abbiamo della Pace un concetto-vertice, quello di un bene essenziale e fondamentale per l'umanità in questo mondo, quello cioè della civiltà, del progresso, dell'ordine, della fratellanza.

Noi crediamo che l'idea della pace sia e debba essere ancora dominante sulle vicende umane, e che essa anzi diventi più urgente quando e dove essa fosse contraddetta da idee o da fatti contrari. E' un'idea necessaria, è un'idea imperativa, è un'idea ispiratrice. Essa polarizza le aspirazioni umane, gli sforzi, le speranze. Essa ha ragione di fine; e, come tale, sta alla base e sta al termine della nostra attività, sia individuale che collettiva.

Perciò pensiamo che sia estremamente importante avere della pace un'idea esatta, spogliandola delle pseudo-concezioni, che troppo spesso la rivestono, deformandola e travisandola. Lo diremo dapprima ai giovani: non è la pace una condizione stagnante della vita, la quale trovi in essa, al tempo stesso, e la sua perfezione e la morte: la vita è movimento, è crescita, è lavoro, è sforzo, è conquista . . . La pace è tale? Sì, per la ragione stessa ch'essa coincide col bene sommo dell'uomo viandante nel tempo, e questo bene non è mai totalmente conquistato, ma sempre in via di nuovo e inesauribile possesso: la pace è perciò l'idea centrale e motrice del più attivo fervore.

Ma questo non vuol dire che la pace coincida con la forza. Questo lo diremo specialmente agli uomini responsabili, perché per essi, a cui è interesse e dovere mantenere una normalità di rapporti fra i membri d'un dato gruppo (famiglia, scuola, impresa, comunità, classe sociale, città, Stato), la tentazione è costante, quella d'imporre tale normalità di rapporti, che assume il volto della pace, mediante la forza.

Allora l'ambiguità della convivenza umana diventa il tormento e la corruzione degli spiriti umani, ed appare impostura vissuta l'atmosfera risultante talvolta da una vittoria ingloriosa, tal altra da un dispotismo irrazionale, da una repressione opprimente e anche da un equilibrio di forze in permanenza contrastanti, e di solito crescenti in attesa d'uno scoppio violento, che dimostra in rovine d'ogni genere come fosse falsa la pace imposta con il solo sopravvento della potenza e della forza.

La pace non è insidia (cfr. Iob. 15, 21). La pace non è menzogna costituita in regime (cfr. Jer. 6, 14) . Tanto meno è tirannia totalitaria e spietata, né violenza mai più; ma almeno la violenza non osa far proprio il nome augusto di Pace.

E' difficile, ma è indispensabile formarsi il concetto autentico della pace. Difficile per chi chiude gli occhi alla sua primigenia intuizione, che ci dice la pace essere umanissima cosa. Questa è la via buona per arrivare alla scoperta genuina della pace: se noi cerchiamo donde essa veramente derivi, ci accorgiamo che essa affonda le sue radici nel senso sincero dell'uomo.

Una Pace, che non risulti dal culto verace dell'uomo, non è essa stessa pace verace. E come chiamiamo questo senso sincero dell'uomo? Lo chiamiamo Giustizia.

E la giustizia non è essa pure una immobile idea? Sì, lo è nelle sue espressioni, che chiamiamo diritti e doveri, e che codifichiamo nei nostri codici illustri, cioè nelle leggi e nei patti, che producono quella stabilità di rapporti sociali, culturali, economici, che non è lecito infrangere: è l'ordine, è la Pace. Ma se la Giustizia, vale a dire ciò che è e ciò che deve essere, germinasse altre migliori espressioni, che non quelle vigenti, che cosa avverrebbe?

Prima di rispondere, domandiamoci se questa ipotesi, cioè quella d'uno sviluppo della coscienza della Giustizia, sia ammissibile, sia probabile, sia auspicabile?

Si. Questo è il fatto che caratterizza il mondo moderno e lo distingue dall'antico. Oggi la coscienza della giustizia progredisce. Nessuno, noi crediamo, contesta questo fenomeno.

Non ci fermiamo adesso a farne l'analisi; ma sappiamo tutti che oggi, per merito della diffusione della cultura, l'uomo, ogni uomo, ha di sé una consapevolezza nuova. Ogni uomo oggi sa di essere Persona, e Persona si sente. Cioè essere inviolabile, essere agli altri eguale, essere libero e responsabile; diciamo pure: esser sacro. Così che un'avvertenza diversa e migliore, cioè più piena ed esigente, della diastole e della sistole della sua personalità, vogliamo dire del suo duplice moto morale di diritto e di dovere, riempie la coscienza dell'uomo, e una Giustizia non più statica, ma dinamica gli nasce dal cuore.

Non è fenomeno semplicemente individuale, né riservato a gruppi scelti e ristretti; è fenomeno ormai collettivo, universale; i Paesi in via di sviluppo lo gridano ad alta voce; è voce di Popoli, voce dell'umanità; essa reclama una nuova espressione della Giustizia, una nuova base della Pace.

Perché, convinti come siamo tutti di questo pronunciamento irreprimibile, ci attardiamo a dare alla Pace un'altra base che non sia quella della Giustizia?

Come è stato sottolineato dalla recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, non resta ancora da instaurare una più grande giustizia sia in seno alle comunità nazionali come sul piano internazionale?

E' giusto, ad esempio, che vi siano intere popolazioni, alle quali non è consentita l'espressione libera e normale del più geloso diritto dello spirito umano, quello religioso? Quale autorità, quale ideologia, quale interesse storico o civile può arrogarsi di reprimere, di soffocare il sentimento religioso nella sua legittima ed umana (non diciamo superstiziosa, né fanatica, né turbolenta) espressione? E quale nome daremo alla Pace, che pretende imporsi calpestando questa prima Giustizia?

E dove altre indiscutibili forme di giustizia, nazionale, sociale, culturale, economica . . . fossero offese e conculcate, potremmo essere sicuri che sia vera pace quella che risulta da simile prepotente processo? Che sia stabile? Ed anche se stabile, che sia giusta ed umana?

Non fa parte della Giustizia il dovere di mettere ogni Paese in condizione di promuovere il proprio sviluppo nel quadro di una cooperazione esente da qualsiasi intenzione o calcolo di dominio, sia economico che politico?

Il problema diventa estremamente grave e complesso; e non spetta a Noi di inasprirlo, né di risolverlo praticamente. Non è competenza di chi parla da questa sede.

Ma proprio da questa sede il Nostro invito a celebrare la Pace suona invito a praticare la Giustizia. Opus iustitiae pax (cfr. Is. 22, 17) . Lo ripetiamo oggi con una formula più incisiva e dinamica: "Se vuoi la pace, lavora per la giustizia".

E' un invito che non ignora le difficoltà a praticare la Giustizia, a definirla, prima di tutto, ad attuarla poi, e non mai senza qualche sacrificio del proprio prestigio e del proprio interesse. Occorre forse maggiore magnanimità ad arrendersi alle ragioni della Giustizia e della Pace, che non a lottare e ad imporre il proprio diritto, autentico o presunto, all'avversario.

E Noi abbiamo tanta fiducia che gli ideali congiunti della Giustizia e della Pace sappiano per virtù propria generare nell'uomo moderno le energie morali per la loro propria attuazione, che ci attendiamo la loro graduale vittoria. Anzi siamo altresì, ed ancor più fiduciosi che l'uomo moderno abbia da sé ormai l'intelligenza delle vie della pace, tanto da farsi lui stesso promotore di quella giustizia, che le apre e che le fa percorrere con coraggiosa e profetica speranza.

Ecco perché Noi osiamo, ancora una volta, lanciare l'invito alla celebrazione della «Giornata della Pace» e quest'anno 1972 lo facciamo nel segno austero e sereno della giustizia, nell'ansia cioè di dar vita ad opere che siano espressioni convergenti di sincera volontà di Giustizia e di sincera volontà di Pace.

***

Ai Fratelli e Figli della nostra Chiesa cattolica Noi raccomandiamo questo Nostro invito: occorre portare agli uomini di oggi un messaggio di speranza, attraverso una fraternità vissuta ed uno sforzo onesto e perseverante per una più grande, reale giustizia. Il nostro invito si connette logicamente alla parola che il recente Sinodo Episcopale ha pronunciato sulla «Giustizia nel mondo»; e si fa forte della certezza che «Egli, Cristo, è la nostra Pace» (cfr. Eph. 2, 14).

Dal Vaticano, 8 dicembre 1971.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA VI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE E' POSSIBILE

1 gennaio 1973

 

A Voi, Uomini responsabili degli interessi supremi dell'umanità, Governanti, Diplomatici, Rappresentanti delle Nazioni, Politici, Filosofi e Scienziati, Pubblicisti, Industriali, Sindacalisti, Militari, Artisti, Operatori tutti nelle sorti delle relazioni fra i Popoli, fra gli Stati, fra le Tribù, fra le Classi, fra le Famiglie umane,

A Voi, Uomini cittadini del mondo, a voi, giovani della generazione che sale, Studenti, Maestri, Lavoratori, Donne; a Voi, gente che pensa, che spera e dispera, che soffre; a Voi, Poveri e Orfani e vittime dell'odio, dell'egoismo e dell'ingiustizia che ancora prevale.

Osiamo rivolgere ancora una volta la nostra voce, umile e forte, profeta come siamo d'una Parola che ci sovrasta e c'invade, avvocato vostro, e non d'alcun nostro interesse, fratello d'ogni persona di buona volontà, samaritano appiedato accanto a chiunque piange e attende soccorso, servo, come ci dichiariamo, dei servi di Dio, della verità, della libertà, della giustizia, dello sviluppo e della speranza, per parlarvi, anche in questo nuovo anno 1973, della Pace. Sì, della Pace! non ricusate di ascoltarci, anche se di questo tema voi tutto conoscete, o credete conoscere.

Il nostro annunzio è semplice come un assioma: la pace è possibile.

Un coro di voci ci assale: lo sappiamo; anzi ci incalza e ci soffoca: non solo è possibile, è reale. La pace è già stabilita, ci si risponde. Portiamo ancora il lutto per le innumerevoli vittime delle guerre, che hanno insanguinato, ancor più che i secoli passati, questo secolo apice del progresso; ancora sono solcate sul volto della nostra generazione adulta le cicatrici orribili degli ultimi conflitti bellici e civili; e ancora le ultime piaghe rimaste aperte rinnovano nelle membra del popolo nuovo il brivido di spavento all'affacciarsi della sola ipotesi d'una guerra. La saggezza ha finalmente trionfato: le armi tacciono e si arrugginiscono nei depositi, come ormai inutili strumenti della demenza superata; istituzioni solenni e universali garantiscono a tutti l'incolumità e l'indipendenza, la vita internazionale è organizzata con documenti ormai indiscussi e con strumenti subito operanti per risolvere con le tavole del diritto e della giustizia ogni possibile controversia; il dialogo fra i popoli è quotidiano e leale; e per di più un tessuto formidabile di comuni interessi rende solidali i popoli fra di loro. La pace è ormai acquisita alla civiltà. Non turbate la pace, ci si risponde, mettendola in discussione. Abbiamo altre questioni nuove ed originali da trattare; la pace è reale, la pace è sicura; ormai è fuori discussione!

Davvero? Così fosse!

Ma poi la voce di questi assertori della pace vittoriosa sopra ogni sua contraria realtà si fa più timida e incerta, e ammette che veramente, e purtroppo, vi sono qua e là situazioni dolorose, dove la guerra ancora divampa feroce. Ahimè! non si tratta di conflitti sepolti negli annali della storia; ma attuali; non sono episodi effimeri, perché si tratta di conflitti che durano da anni; non superficiali, perché incidono profondamente nelle file di eserciti armatissimi, e nelle folle inermi delle popolazioni civili; non di facile composizione, perché tutte le arti delle trattative e delle mediazioni vi si sono esaurite impotenti; non innocue all'equilibrio generale del mondo, perché covano un crescente potenziale di prestigio ferito, di vendetta implacabile, di disordine endemico e organizzato; non trascurabili, quasi che il tempo fosse loro naturale rimedio, perché il loro tossico penetra negli animi, corrode le ideologie umanitarie; diventa contagioso e si trasmette alle più giovani generazioni, con fatale impegno ereditario di riscossa. La violenza ritorna di moda, e si riveste perfino della corazza della giustizia. Si propaga come un costume, favorito da tutti gli ingredienti della delinquenza proditoria e da tutte le astuzie della viltà, del ricatto, della complicità; e si profila come uno spettro apocalittico armato da inauditi strumenti di micidiali distruzioni.

Rinascono gli egoismi collettivi, familiari, sociali; tribali, nazionali, razziali. Il delitto non fa più orrore. La crudeltà diventa fatale, come la chirurgia d'un odio dichiarato legittimo. Il genocidio si prospetta come il mostro possibile del rimedio radicale. E dietro questi orribili fantasmi si pianifica gigantesca, con impassibili e infallibili calcoli, l'economia degli armamenti e dei mercati affamatori. La politica allora riprende i suoi programmi irrinunciabili di potenza.

E la pace?

Oh! sì, la pace. Essa, si sussume, può egualmente sopravvivere e convivere in qualche misura anche nelle più sfavorevoli condizioni del mondo. Anche nelle trincee della guerra, o nelle pause della guerriglia, o nelle rovine d'ogni ordine normale vi sono angoli e momenti di tranquillità; la pace subito vi si adatta, e, a suo modo, vi fiorisce. Ma è questo residuo di vitalità, che possiamo dire vera pace, ideale dell'umanità? È questa modesta e prodigiosa capacità di ricupero e di reazione, è questo disperato ottimismo che può placare la suprema aspirazione dell'uomo all'ordine e alla pienezza della giustizia? Chiameremo pace le sue contraffazioni? Ubi solitudinem faciunt pacem appellant! (C. Tacito). Ovvero daremo ad una tregua il nome di pace? Ad un semplice armistizio? ad una prepotenza passata in giudicato? ad un ordine esteriore fondato sulla violenza e sulla paura? oppure ad un equilibrio transitorio di forze contrastanti? ad un braccio di ferro nella tensione immobile di opposte potenze? Un'ipocrisia necessaria; di cui la storia è piena. Certo, tante cose possono pacificamente prosperare anche in precarie ed ingiuste situazioni. Bisogna essere realisti, dicono gli opportunisti: soltanto questa è la pace possibile; una transazione, un accomodamento fragile e parziale. Gli uomini non sarebbero capaci di pace migliore.

Dunque, alla fine del secolo ventesimo, l'umanità dovrebbe accontentarsi d'una pace risultante da un equilibrismo diplomatico e da una certa regolazione d'interessi antagonisti, e nulla più?

Noi ammettiamo che una perfetta e stabile tranquillitas ordinis, cioè una pace assoluta e definitiva fra gli uomini, anche se progrediti ad un alto e universale livello di civiltà, non può essere che un sogno, non falso, ma incompiuto; un ideale non irreale, ma da realizzarsi; perché tutto è mobile nel corso della storia; e perché la perfezione dell'uomo non è né univoca, né fissa. Le passioni umane non si spengono. L'egoismo è una mala radice, che non si riesce mai a svellere del tutto dalla psicologia dell'uomo. In quella dei popoli essa assume comunemente la forma e la forza della ragion d'essere; funge da filosofia ideale. E perciò ecco per noi la minaccia d'un dubbio, che può essere fatale: è mai possibile la pace? e il dubbio si trasforma in taluni assai facilmente in disastrosa certezza: la pace è impossibile!

Una nuova, anzi una vecchia antropologia risorge: l'uomo è fatto per combattere l'uomo: homo homini lupus. La guerra è inevitabile. La corsa agli armamenti, come evitarla? è un'esigenza primaria della politica. E poi è una legge dell'economia internazionale.

È una questione di prestigio.

Prima la spada, poi l'aratro. Sembra che questa convinzione prevalga su ogni altra, anche per alcuni popoli, in via di sviluppo, che si inseriscono faticosamente nella civiltà moderna, e che s'impongono sacrifici enormi sul bilancio indispensabile alla vita elementare, lesinando in essi il nutrimento, la medicina, l'istruzione, la viabilità, l'abitazione, e perfino la vera indipendenza economica e politica, pur d'essere armati e di incutere timore ed imporre servitù ai propri vicini, spesso non più pensando ad offrire amicizia, non collaborazione, non comune benessere, ma un truce aspetto di superiorità nell'arte dell'offesa e della guerra. La pace, da molti si pensa e si afferma, sia come ideale, che come realtà; è impossibile.

Ecco invece il nostro messaggio; il vostro, o uomini di buona volontà, il messaggio dell'umanità universale: la pace è possibile! deve essere possibile!

Sì, perché questo è il messaggio che sale dai campi delle due guerre mondiali e dagli altri recenti conflitti armati da cui è stata insanguinata la terra; è la voce misteriosa e formidabile dei Caduti e delle vittime dei conflitti passati, è il gemito pietoso delle tombe innumerevoli dei cimiteri militari e dei monumenti sacri ai Militi Ignoti: la pace, la pace, non la guerra. La pace è la condizione e la sintesi dell'umana convivenza.

Sì, perché la pace ha vinto le ideologie, che le sono contrarie. La pace è innanzi tutto una condizione di spirito. Finalmente essa è penetrata come una necessità logica ed umana nelle coscienze di tante persone e, in modo speciale, delle giovani generazioni: deve essere possibile, esse dicono, vivere senza odiare e senza uccidere. Una pedagogia nuova ed universale s'impone, la pedagogia della pace.

Sì, perché la maturità della saggezza civile ha espresso questo ovvio proposito: invece di affidare la soluzione delle contese umane all'irrazionale e barbaro duello della forza cieca ed omicida delle armi, fonderemo istituzioni nuove, dove la parola, la giustizia, il diritto si esprimano e facciano legge severa e pacifica fra i rapporti internazionali.

Queste istituzioni, prima fra esse l'Organizzazione delle Nazioni Unite, sono state fondate; un umanesimo nuovo le sostiene e le onora; un impegno solenne rende solidali i membri che vi aderiscono; una speranza positiva e universale le riconosce come strumenti di ordine internazionale, di solidarietà e di fratellanza fra i popoli. La pace vi trova la propria sede e la propria officina.

Sì, ripetiamo, la pace è possibile, perché in queste istituzioni essa ritrova i suoi caratteri fondamentali, che un'errata concezione della pace facilmente fa dimenticare: la pace dev'essere razionale, non passionale, magnanima, non egoista; la pace dev'essere non inerte e passiva, ma dinamica, attiva e progressiva a seconda che giuste esigenze dei dichiarati ed equanimi diritti dell'uomo ne reclamano nuove e migliori espressioni; la pace non dev'essere debole, inetta e servile, ma forte sia per le ragioni morali che la giustificano, e sia per il compatto consenso delle Nazioni che la devono sostenere. Questo è un punto estremamente importante e delicato: se questi moderni organi, da cui la pace deve avere ragione e tutela, non fossero idonei alla propria funzione; quale sarebbe la sorte del mondo? La loro inefficienza potrebbe generare una delusione fatale nella coscienza dell'umanità; la pace ne uscirebbe sconfitta, e con lei il progresso della civiltà. La nostra speranza, la nostra convinzione - la pace è possibile - sarebbe soffocata dal dubbio prima, dall'irrisione, dallo scetticismo poi, dalla negazione alla fine: quale fine! Ripugna pensare ad un simile crollo! Bisogna invece risollevare l’affermazione fondamentale circa la possibilità della pace in queste altre due affermazioni complementari:

la pace è possibile, se veramente voluta; 
e se la pace è possibile, essa è doverosa.

Il che significa scoprire quali forze morali sono necessarie per risolvere positivamente il problema della pace. Occorre avere, noi altra volta dicemmo, il coraggio della pace. Un coraggio di altissima qualità: quello non della forza bruta, ma quello dell'amore: ogni uomo è mio fratello, non vi può essere pace senza una nuova giustizia, ripetiamo. Oh! uomini forti e coscienti, che, mediante la vostra collaborazione, avete il potere e il dovere di costruire e di difendere la pace! oh! voi specialmente, guide e maestri dei popoli! se mai l'eco di questo cordiale messaggio giunge ai vostri orecchi, scenda anche ai vostri cuori, e conforti insieme le vostre coscienze con rinnovata certezza circa la possibilità della pace. Abbiate la sapienza di fissare su questa paradossale certezza la vostra attenzione, impegnatevi la vostra energia, accordatele, nonostante tutto, la vostra fiducia, fatene tema con la vostra virtù persuasiva per la pubblica opinione, non per infiacchire gli animi della giovane generazione, ma per corroborarli a più umano e virile sentimento; fondate, costruite nella verità, nella giustizia, nella carità e nella libertà la pace per i secoli nuovi, cominciando dall'anno 1973 a rivendicarla possibile, col salutarla reale! Era il programma che tracciava il Nostro Predecessore Giovanni XXIII nella sua Enciclica «Pacem in terris», di cui si compirà il decennio nell'aprile del 1973: e come dieci anni fa ne avete accolto con rispetto e con gratitudine la voce paterna, così confidiamo che il ricordo di quella grande fiamma, ch'Egli accese nel mondo, conforti i cuori a nuovi e più fermi propositi di pace.

Noi siamo con voi.

E a voi, Fratelli e Figli nella comunione cattolica e a quanti ci sono uniti nella fede cristiana, ripetiamo l'invito alla riflessione sulla possibilità della pace indicando i sentieri lungo i quali tale riflessione può enormemente approfondirsi: sono i sentieri d'una realistica conoscenza dell'antropologia umana, nella quale le ragioni misteriose del male e del bene nella storia e nel cuore dell'uomo ci svelano perché la pace sia un problema sempre aperto, sempre minacciato di pessimistiche soluzioni, e insieme sempre confortato non solo dal dovere, ma altresì dalla speranza di felici soluzioni. Noi crediamo in un indecifrabile spesso, ma reale governo d'una Bontà infinita, che chiamiamo Provvidenza e che sovrasta le sorti dell'umanità; noi sappiamo le strane, ma stupende reversibilità d'ogni umana vicenda in una storia di salvezza;(1) noi portiamo scolpita nella memoria la settima beatitudine del Discorso della montagna: « Beati i promotori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio »;(2) noi ascoltiamo, assorti in una speranza che non delude,(3) l'annunzio natalizio di pace per gli uomini del buon volere;(4) noi abbiamo continuamente la pace sulle labbra e nel cuore come dono e saluto ed augurio biblico, derivante dallo Spirito, perché noi possediamo la fonte segreta ed inesauribile della pace, che è «Cristo nostra pace»,(5) e se la pace esiste in Cristo e per Cristo, essa è possibile fra gli uomini e per gli uomini.

Non lasciamo decadere l'idea della pace, non la speranza della pace, non l'aspirazione, non l'esperienza; ma rinnoviamone sempre nei cuori il desiderio, a tutti i livelli: nel cenacolo segreto delle coscienze, nella convivenza familiare, nella dialettica dei contrasti sociali, nei rapporti fra le classi e fra le Nazioni, nel sostegno alle iniziative e alle istituzioni internazionali che hanno la pace per loro bandiera. Rendiamola possibile, la pace, predicando l'amicizia e praticando l'amore del prossimo, la giustizia ed il perdono cristiano; apriamole le porte, ove fosse estromessa, con trattative leali e rivolte a sincere conclusioni positive; non rifiutiamo qualche sacrificio, che, senza offendere la dignità di chi si fa generoso, renda la pace più rapida, cordiale e duratura.

Alle smentite tragiche e insuperabili, che sembrano costituire la spietata realtà della storia dei nostri giorni, alle seduzioni della forza pugnace, alla violenza cieca che colpisce gli innocenti, alle insidie nascoste ed operanti per speculare sui grossi affari della guerra e per opprimere ed asservire le genti più deboli, all'angosciosa domanda infine, che sempre ci incalza: è mai possibile fra gli uomini la pace? una vera pace? facciamo balzare dal nostro cuore, pieno di fede e forte d'amore, la semplice e vittoriosa risposta: Sì! Una risposta che ci spinge ad essere promotori di pace con sacrificio, con sincero e perseverante amore per l'umanità.

Eco alla nostra risposta, benedicente e beneaugurante nel nome di Cristo: Sì!

Dal Vaticano, 8 dicembre 1972.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA VII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE DIPENDE ANCHE DA TE

1 gennaio 1974

 

Ascoltatemi ancora, uomini giunti alle soglie del nuovo anno 1974.

Ascoltatemi ancora: sono davanti a voi in atto di umile supplica, energica supplica.

Naturalmente, voi lo intuite, io voglio ancora parlarvi della Pace.

Sì, della Pace. Forse voi pensate di conoscere tutto a riguardo della Pace; se ne è già parlato tanto, da tutti. Forse questo nome invadente provoca un senso di sazietà, di noia, fors'anche di timore ch'esso nasconda nel fascino della sua parola una magia illusoria, un nominalismo ormai abusato e retorico, e perfino un incantesimo pericoloso. La storia presente, caratterizzata da feroci episodi di conflitti internazionali, da implacabili lotte di classe, da esplosioni di libertà rivoluzionarie, da repressioni dei diritti e delle libertà fondamentali dell'uomo, e da improvvisi sintomi di precarietà economica mondiale, sembra demolire, come fosse la statua d'un idolo, l'idea trionfante della Pace. Al nominalismo vacuo e imbelle ch'essa sembra assumere nell'esperienza politica e ideologica di quest'ultimo tempo, ora di nuovo si preferisce il realismo dei fatti e degli interessi, e si ripensa all'uomo come all'eterno insolubile problema d'un auto-conflitto vivente; l'uomo è così; un essere che porta nel cuore il destino della lotta fraterna.

Al confronto di questo crudo, rinascente realismo noi proponiamo non un nominalismo, sconfitto da nuove e prepotenti esperienze, ma un invitto idealismo, quello della Pace, destinato a progressiva. affermazione.

Credete, uomini fratelli, uomini di buona volontà, uomini saggi, uomini sofferenti, alla nostra ripetuta umile voce, al nostro grido instancabile. La Pace è l'ideale della umanità. La Pace è necessaria. La Pace è doverosa. La Pace è vantaggiosa. Non è un'idea illogica e fissa, la nostra; non è una ossessione, una illusione. È una certezza; sì, una speranza; ha per sé l'avvenire della civiltà, il destino del mondo; sì, la Pace.

Noi siamo così convinti che essa, la Pace, è il traguardo dell'umanità in via di coscienza di sé e di sviluppo civile sulla faccia della terra, che oggi, per l'anno nuovo e per gli anni futuri, noi osiamo proclamare come già abbiamo fatto l'anno scorso: la Pace è possibile.

Perché, in fondo, ciò che compromette la solidità della Pace e lo svolgimento della storia in suo favore, è la segreta e scettica convinzione che essa sia praticamente impossibile. Bellissimo concetto, si pensa senza dirlo, ottima sintesi delle umane aspirazioni; ma sogno poetico, utopia fallace. Una droga inebriante, ma debilitante. Ancora risorge negli spiriti, come una logica inevitabile: ciò che conta è la forza; l'uomo ridurrà al più il complesso delle forze all'equilibrio del loro contrasto; ma dalla forza non può prescindere l'umana organizzazione.

Noi dobbiamo soffermarci un istante su questa obbiezione capitale per risolvere un possibile equivoco, quello che confonde la Pace con la debolezza, non solo fisica, ma morale, con la rinuncia al vero diritto e alla equa giustizia, con la fuga dal rischio e dal sacrificio, con la rassegnazione pavida e succube all'altrui prepotenza, e perciò acquiescente alla propria schiavitù. Non è questa la Pace autentica. La repressione non è la Pace. L'ignavia non è la Pace. L'assetto puramente esteriore e imposto dalla paura non è la Pace. La recente celebrazione del XXV Anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo ci ricorda che la Pace vera deve essere fondata sul senso dell'intangibile dignità della persona umana, dalla quale scaturiscono inviolabili diritti e rispettivi doveri.

È pur vero che la Pace accetterà di obbedire alla legge giusta e all'autorità legittima, ma non sarà mai aliena dalla ragione del bene comune e dalla morale libertà umana. La Pace potrà arrivare anche a gravi rinunce, nella gara del prestigio, nella corsa agli armamenti, nell'oblio delle offese, nella remissione dei debiti; arriverà perfino alla generosità del perdono e della riconciliazione; ma non mai per servile mercato dell'umana dignità, non mai per tutela del proprio egoistico interesse a danno dell'altrui legittimo interesse; non mai per viltà; essa non sarà mai senza la fame e la sete della giustizia; non dimenticherà mai la fatica che occorre spendere per difendere i deboli, per soccorrere i poveri, per promuovere la causa degli umili; essa non tradirà mai per vivere le ragioni superiori della vita (cf. Io 12, 25).

Non pertanto la Pace dev'essere considerata un'utopia. La certezza della Pace non consiste soltanto nell'essere, ma altresì nel divenire. Come la vita dell'uomo, essa è dinamica. Il suo regno si estende ancora e principalmente nel campo deontologico. Cioè nella sfera dei doveri. La Pace si deve non solo mantenere, ma produrre. La Pace è, e dev'essere perciò in fase di continua e progressiva affermazione. Anzi noi diremo: la Pace è possibile, solo se è considerata doverosa. Non basta nemmeno che essa sia stabilita sulla convinzione, di solito giustissima, ch'essa è vantaggiosa. Essa deve entrare nella coscienza degli uomini come una suprema finalità etica, come una necessità morale, una àvàyxn (ananche), derivante dalla esigenza intrinseca della convivenza umana.

Questa scoperta, perché tale è nel processo positivo della nostra razionalità, c'insegna alcuni principii dai quali non dovremo deflettere mai più. E dapprima ci illumina sulla natura primigenia della Pace: essa è innanzi tutto un'idea. Essa è un assioma interiore, un tesoro dello spirito. La Pace deve germinare da una concezione fondamentale e spirituale dell'umanità: l'umanità dev'essere pacifica, cioè unita, coerente in se stessa, solidale nella profondità del suo essere. La mancanza di questa radicale concezione è stata, ed è tuttora, l'origine profonda delle disgrazie; che hanno devastato la storia. Concepire la lotta fra gli uomini, come esigenza strutturale della società, non costituisce soltanto un errore ottico-filosofico, ma un delitto potenziale e permanente contro l'umanità. La civiltà deve finalmente redimersi dall'antica, superstite e sempre operante fallacia: homo homini lupus. Essa funziona da Caino in poi. L'uomo d'oggi deve avere il coraggio morale e profetico di affrancarsi da questa nativa ferocia, e arrivare alla conclusione, ch'è appunto l'idea della Pace, come essenzialmente naturale, necessaria, doverosa, e perciò possibile. Bisogna pensare d'ora in poi l'umanità, la storia, il lavoro, la politica, la cultura, il progresso in funzione della Pace.

Ma che vale questa idea, spirituale, soggettiva, interiore e personale; che vale così disarmata, così distante dalle vicende vissute, efficaci e formidabili della nostra storia? Noi dobbiamo purtroppo registrare, a mano a mano che la tragica esperienza dell'ultima guerra mondiale tramonta nella sfera dei ricordi, una recrudescenza di spirito contenzioso fra le Nazioni e nella dialettica politica della società; oggi il potenziale di guerra e di lotta è molto cresciuto, non diminuito, al confronto di quello di cui disponeva l'umanità prima delle guerre mondiali. .Non vedete, ci può obiettare un osservatore qualsiasi, che il mondo va verso conflitti ancora più terribili e orrendi di quelli di ieri? Non vedete la scarsa efficacia della propaganda pacifista e la non sufficiente incidenza delle istituzioni internazionali, sorte durante la convalescenza del mondo insanguinato e estenuato dalle guerre mondiali? Dove va il mondo? non si prepara ancora a più catastrofici ed esecrabili conflitti? Ahimé! noi dovremmo ammutolire dinanzi a così incalzanti e spietati ragionamenti, come dinanzi ad un disperato destino!

Ma no! Siamo anche noi ciechi? siamo ingenui? No, uomini Fratelli! noi siamo sicuri che la nostra causa, quella della Pace, dovrà prevalere. Primo, perché essa, nonostante le follie della contraria politica, l'idea della Pace è ormai vittoriosa nel pensiero di tutti gli uomini responsabili. Noi abbiamo fiducia nella loro moderna sapienza, nella loro energica abilità: nessun Capo di Popolo può oggi volere la guerra; tutti aspirano alla Pace generale del mondo. È grande cosa! noi osiamo scongiurarli a non smentire mai più il loro, anzi il comune programma di Pace!

Secondo. Sono le idee, ancor più ed ancor prima degli interessi particolari, che guidano il mondo, nonostante le apparenze contrarie. Se l'idea della Pace guadagnerà effettivamente il cuore degli uomini, la Pace sarà salva; anzi essa salverà gli uomini. È superfluo che in questo nostro discorso noi spendiamo parole per dimostrare la potenza odierna dell'idea diventata pensiero del Popolo, cioè dell'opinione pubblica; essa oggi è la regina che di fatto governa i Popoli; il suo imponderabile influsso li forma e li guida; e sono poi i Popoli, cioè l'opinione pubblica operante che governa i governanti. In gran parte almeno è così.

Terzo punto, allora. Se l'opinione pubblica assurge a coefficiente determinante il destino dei Popoli, il destino della Pace dipende anche da ciascuno di noi. Perché ciascuno di noi fa parte del corpo civile operante con sistema democratico, che, in varia forma ed in differente misura, caratterizza oggi la vita delle Nazioni modernamente organizzate. Questo noi volevamo dire: la Pace è possibile, se ciascuno di noi la vuole; se ciascuno di noi ama la Pace, educa e forma la propria mentalità alla Pace, difende la Pace, lavora per la Pace. Ciascuno di noi deve ascoltare nella propria coscienza il doveroso appello: La Pace dipende anche da te.

Certamente l'influsso individuale sull'opinione pubblica non può essere che infinitesimale; ma non mai vano. La Pace vive delle adesioni, sia pure singole ed anonime, che le persone le danno. E tutti sappiamo come si forma e si pronuncia il fenomeno dell'opinione pubblica: un'affermazione seria e forte è facilmente diffusiva. L'affermazione della Pace da individuale deve diventare collettiva e comunitaria; deve diventare affermazione di Popolo e della Comunità dei Popoli; convinzione, ideologia, azione; deve aspirare a penetrare il pensiero e l'attività delle nuove generazioni e invadere il mondo, la politica, l'economia, la pedagogia, l'avvenire, la civiltà. Non per istinto di paura e di fuga, ma per impulso creativo della storia nuova e della costruzione nuova del mondo; non per ignavia e per egoismo. ma per vigore morale e per accresciuto amore all'umanità. La Pace è coraggio, è sapienza, è dovere; e alla fine è per di più interesse e felicità.

Tanto noi osiamo dire a voi, uomini Fratelli; a voi, uomini di questo mondo, se avete in mano, per qualche titolo, il timone del mondo: uomini di comando, uomini di cultura, uomini d'affari: occorre imprimere alla vostra azione un indirizzo robusto e sagace, verso la Pace; essa ha bisogno di voi. Se voi volete, potete! La Pace dipende anche e specialmente da voi.

***

Noi riserveremo per di più ai nostri Confratelli di fede e di carità una parola anche più fiduciosa e più pressante: non abbiamo noi forse possibilità nostre, originali e sovrumane, con cui concorrere con i promotori di Pace, a rendere valida l'opera loro, l'opera comune, affinché Cristo con loro, secondo la beatitudine del Vangelo, tutti ci qualifichi quali figli di Dio? (cf. Mt 5, 9) non possiamo noi predicare la Pace, innanzi tutto, nelle coscienze? e chi più di noi è tenuto ad essere con la parola e con l'esempio maestro di pace? come poi potremo noi suffragare l'opera della Pace, nella quale la causalità umana assurge al suo più alto livello, se non mediante l'inserimento nella causalità divina, disponibile all'invocazione delle nostre preghiere? e saremo insensibili all'eredità di pace, che Cristo, solo Cristo, ha lasciato a noi, viventi in un mondo che perfetta non la sa dare, la sua pace trascendente e ineffabile? non possiamo forse proprio noi riempire la implorazione della Pace di quell'umile e amoroso vigore, al quale non resiste la divina misericordia? (cf. Mt 7, 7 ss.; Io 14, 27). È meraviglioso: la Pace è possibile, e anche da noi, per Cristo, nostra Pace (Eph 2, 4), essa dipende.

Ne sia pegno la nostra pacificatrice apostolica benedizione.

Dal Vaticano, 8 dicembre 1973.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA VIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA RICONCILIAZIONE, VIA ALLA PACE

1 gennaio 1975

 

A tutti gli Uomini di buona volontà!
Ecco il nostro messaggio per l'anno 1975.
Ormai voi lo conoscete, né può essere diverso:
Fratelli! facciamo la pace!

Il nostro messaggio è molto semplice, ma esso è nello stesso tempo tanto grave, tanto esigente da sembrare offensivo: non esiste già la pace? che cosa si può fare d'altro e di più di quanto per la pace già è stato fatto, e tuttora si fa? La storia dell'umanità non cammina ormai, per virtù propria, verso la pace universale?

Sì, così è; o meglio così pare. Ma la pace dev'essere « fatta », dev'essere generata e prodotta continuamente; essa risulta da un equilibrio instabile, che solo il movimento può assicurare e che è proporzionato alla velocità di esso. Le istituzioni stesse, che nell'ordine giuridico e nel concerto internazionale hanno la funzione ed il merito di proclamare e di conservare la pace, raggiungono il loro provvido scopo se esse sono continuamente operanti, se sanno in ogni momento generare la pace, fare la pace.

Questa necessità risulta principalmente dal divenire umano, dal processo evolutivo incessante della umanità. Gli uomini succedono agli uomini, le generazioni alle generazioni. Anche se nessun cambiamento si verificasse nelle situazioni giuridiche e storiche esistenti, sarebbe pur sempre necessaria un'opera continuamente « in fieri » per educare la umanità a restare fedele ai fondamentali diritti della società: questi devono rimanere e guideranno la storia per un tempo indefinito, a condizione che gli uomini mutevoli, e che i giovani sopravvenuti al posto degli anziani scomparsi, siano incessantemente educati alla disciplina dell'ordine per il bene comune e all'ideale della pace. Fare la pace, sotto questo aspetto, significa educare alla pace. E non è piccola né facile impresa.

Ma tutti sappiamo che non mutano solo gli uomini sulla scena della storia. Mutano anche le cose. Cioè le questioni, dalla cui equilibrata soluzione dipende la pacifica convivenza fra gli uomini. Nessuno può sostenere che ormai l'organizzazione della società civile e del contesto internazionale sia perfetta. Restano tuttora potenzialmente aperti molti, moltissimi problemi; restano quelli di ieri e sorgono quelli di oggi; domani altri sorgeranno e tutti attendono soluzione. La quale, noi affermiamo, non può, non deve mai più scaturire da conflitti egoisti o violenti, né tanto meno da guerre micidiali fra gli uomini. Lo hanno detto gli uomini saggi, studiosi della storia dei Popoli ed esperti nell'economia delle Nazioni. Noi pure, inermi fra le contese del mondo, e forti d'una divina Parola, lo abbiamo detto: tutti gli uomini sono fratelli. Finalmente la civiltà intera sembra aver ammesso questo fondamentale principio. Dunque: se gli uomini sono fratelli, ma fra loro esistono tuttora e insorgono sempre cause di conflitto, bisogna che la pace diventi operante e sapiente. La pace si deve fare, si deve produrre, si deve inventare, si deve creare con genio sempre vigilante, con volontà sempre nuova e instancabile. Siamo perciò tutti persuasi del principio informatore della società contemporanea: la pace non può essere né passiva, né oppressiva; dev'essere inventiva, preventiva, operativa.

Noi siamo lieti di osservare che questi criteri direttivi della vita collettiva nel mondo sono oggi, in linea di principio almeno, universalmente accolti. E noi ci sentiamo in dovere di ringraziare, di elogiare, d'incoraggiare gli uomini responsabili e le istituzioni oggi destinate a promuovere la pace sulla terra per avere scelto questo assioma fondamentale, come primo articolo del loro operare: solo la pace genera la pace.

Lasciateci, Uomini tutti, ripetere profeticamente il messaggio del recente Concilio ecumenico fino ai confini dell'orizzonte: « ... Noi dobbiamo sforzarci con ogni impegno di preparare quel tempo, nel quale, mediante l'accordo delle Nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra... La pace deve nascere dalla mutua fiducia delle Nazioni, piuttosto che essere imposta ai Popoli dal terrore delle armi.

... I reggitori dei Popoli, i quali sono mallevadori del bene comune delle proprie Nazioni e fautori insieme del bene dell'umanità intera, dipendono in massima parte dalle opinioni e dai sentimenti delle moltitudini. È inutile infatti che essi si adoperino con tenacia a costruire la Pace, finché sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, odi razziali e ostinate ideologie dividono gli uomini, ponendoli gli uni contro gli altri. Di qui l'estrema e urgente necessità d'una rinnovata educazione degli animi e di un nuovo orientamento nell'opinione pubblica.

Coloro che si dedicano all'attività educatrice, specialmente della gioventù, e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace.

E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, mirando al mondo intero ed ai compiti che gli uomini possono intraprendere insieme per condurre l'umanità verso un migliore destino» (Costituzione Gaudium et Spes, n. 82 ).

Ed è a questo riguardo che il nostro messaggio s'incentra nel suo punto caratteristico e ispiratore, affermando che la Pace tanto vale quanto, prima d'essere esteriore, mira ad essere interiore. Bisogna disarmare gli spiriti, se vogliamo impedire efficacemente il ricorso alle armi che colpiscono i corpi. Bisogna dare alla Pace, cioè agli uomini tutti, le radici spirituali d'una comune forma di pensare e di amare. Non basta, scrive Agostino, maestro ideatore d'una Città nuova, non basta ad associare gli uomini fra loro l'identità della loro natura; occorre insegnare loro a parlare un medesimo linguaggio, cioè a comprendersi, a possedere una comune cultura, a condividere gli stessi sentimenti; altrimenti « l'uomo preferirà trovarsi col suo cane, che con un uomo estraneo» (cfr. De Civ. Dei, XIX, VII; PL. 41, 634).

Questa interiorizzazione della Pace è vero umanesimo, vera civiltà. Essa, per fortuna, è già in corso. Matura col progresso del mondo. Trova la sua virtù persuasiva nelle dimensioni universali dei rapporti d'ogni genere che gli uomini stanno stabilendo fra loro. È un lavoro lento e complicato, ma che, per molti versi, s'impone da sé: il mondo cammina verso la sua unità. Tuttavia non possiamo farci illusioni: mentre la pacifica concordia fra gli uomini si diffonde: - mediante la progressiva scoperta della complementarietà e interdipendenza dei Paesi, mediante gli scambi commerciali, mediante la diffusione d'una stessa visione dell'uomo, sempre rispettosa, peraltro, dell'originalità e specificità delle varie culture, mediante la facilità dei viaggi e dei mezzi di comunicazione sociale, eccetera - , dobbiamo notare che oggi si affermano nuove forme di gelosi nazionalismi, chiusi in manifestazioni di scontrose rivalse basate sulla razza, la lingua, la tradizione; permangono tristissime situazioni di miseria e di fame; sorgono potenti espressioni economiche multinazionali, cariche di antagonismi egoisti; si organizzano socialmente ideologie esclusiviste e dominatrici; scoppiano conflitti territoriali con impressionante facilità; e soprattutto gli ordigni micidiali per possibili catastrofiche distruzioni crescono di numero e di potenza così da imporre al terrore il nome di Pace. Sì, il mondo cammina verso la sua unità, mentre però aumentano le terrificanti ipotesi che prospettano maggiore possibilità, maggiore facilità, maggiore pericolo di urti fatali e, sotto certi aspetti, ritenuti inevitabili e necessari, come reclamati dalla giustizia. La giustizia non sarà più un giorno sorella della pace, ma della guerra? (cfr. S. Ag., ibid.).

Non giochiamo alle utopie, né ottimiste, né pessimiste. Vogliamo attenerci alla realtà. La quale, con cotesta fenomenologia di speranza illusoria e di deprecabile disperazione, ci avverte ancora una volta che qualche cosa non funziona bene nella macchina monumentale della nostra civiltà; questa potrebbe scoppiare in una indescrivibile conflagrazione per un difetto nella sua costruzione. Diciamo difetto, non mancanza; il difetto cioè del coefficiente spirituale, che tuttavia noi ammettiamo già presente ed operante nell'economia generale del pacifico sviluppo della storia contemporanea e degno d'ogni favorevole riconoscimento e incoraggiamento: non abbiamo noi forse attribuito all'UNESCO il nostro premio intitolato a Papa Giovanni XXIII, autore dell'Enciclica Pacem in terris?

Ma noi osiamo dire che occorre fare di più, occorre così valorizzare ed applicare il coefficiente spirituale da renderlo capace non solo d'impedire i conflitti fra gli uomini e di predisporli a sentimenti pacifici e civili, ma di produrre la riconciliazione fra gli uomini stessi, cioè di generare la Pace. Non basta contenere le guerre, sospendere le lotte, imporre tregue e armistizi, definire confini e rapporti, creare fonti di comuni interessi, non basta paralizzare le ipotesi di contese radicali mediante il terrore d'inaudite distruzioni e sofferenze, non basta una Pace imposta, una Pace utilitaria e provvisoria; bisogna tendere ad una Pace amata, libera, fraterna, fondata cioè sulla riconciliazione degli animi.

Lo sappiamo che è difficile; più difficile d'ogni altro metodo. Ma non è impossibile, non è fantastica. Noi abbiamo fiducia in una fondamentale bontà degli uomini e dei Popoli. Dio ha fatto sanabili le generazioni (Sap. 1, 14). Lo sforzo intelligente e perseverante per la mutua comprensione degli uomini, delle classi sociali, delle Città, dei Popoli, delle civiltà fra loro non è sterile. Ci rallegriamo, specialmente alla vigilia dell'Anno Internazionale della Donna, proclamato dalle Nazioni Unite, della sempre più ampia partecipazione delle donne alla vita della società, alla quale esse apportano un contributo specifico di grande valore, grazie alle qualità che Dio ha dato loro: intuizione, creatività, sensibilità, senso di pietà e di compassione, vasta capacità di comprensione e di amore, permettono alle donne di essere, in una maniera del tutto particolare, artefici della riconciliazione nelle famiglie e nella società.

Ci è parimenti motivo di speciale soddisfazione il poter constatare che l'educazione dei giovani ad una nuova mentalità universale della convivenza umana, mentalità non scettica, non vile, non inetta, non dimentica della giustizia, ma generosa e amorosa, sia già incominciata e già progredita; essa possiede imprevedibili risorse per la riconciliazione; e questa può segnare la via della Pace, nella verità, nell'onore, nella giustizia, nell'amore, e perciò nella stabilità e nella nuova storia dell'umanità.

Riconciliazione! Uomini giovani, uomini forti, uomini responsabili, uomini liberi, uomini buoni: vi pensate? non potrebbe questa magica parola entrare nel dizionario delle vostre speranze, dei vostri successi?

Ecco, questo è per voi il nostro augurale messaggio: la riconciliazione è la via alla pace!

Per voi, Uomini di Chiesa!
Fratelli nell'Episcopato, Sacerdoti, Religiosi e Religiose!
Per voi membri del nostro Laicato militante e Fedeli tutti!

Il messaggio su la Riconciliazione come via alla Pace esige un complemento, anche se questo a voi è già noto e presente.

Esso non è solo una parte integrante, ma essenziale del nostro messaggio, voi lo sapete. Perché esso ricorda a noi tutti che la prima e indispensabile riconciliazione da conseguire è quella con Dio. Non vi può essere per noi credenti altra via alla pace, che questa; anzi, nella definizione della nostra salvezza riconciliazione con Dio e pace nostra coincidono, sono l'una causa dell'altra. Questa è l'opera di Cristo. Egli ha riparato la rottura, che il peccato produce nei nostri rapporti vitali con Dio. Ricordiamo, fra le tante, una parola di San Paolo a questo riguardo: « Il tutto è da Dio, che ci ha a sé riconciliati per mezzo di Cristo » (2 Cor. 5, 18).

L'Anno Santo, che stiamo per incominciare, a questa prima e felice riconciliazione ci vuole interessare: Cristo è la nostra pace; Egli è il principio della riconciliazione nell'unità del suo mistico corpo (cfr. Eph. 2, 14-16). A dieci anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II faremo bene a meditare più profondamente sul senso teologico ed ecclesiologico di queste verità basilari della nostra fede e della nostra vita cristiana.

Donde una conseguenza logica e doverosa; facile anche, se davvero noi siamo in Cristo: dobbiamo perfezionare il senso della nostra unità; unità nella Chiesa, unità della Chiesa; comunione mistica, costitutiva, la prima (cfr. 1 Cor. l, 10; 12, 12-27); ricomposizione ecumenica dell'unità fra tutti i cristiani, la seconda (cfr. Decreto Conciliare Unitatis redintegratio); l'una e l'altra esigono una loro propria riconciliazione, che deve apportare alla collettività cristiana quella pace, ch'è un frutto dello Spirito, susseguente alla sua carità e al suo gaudio (cfr. Gal. 5, 22).

Anche in questi campi noi dobbiamo « fare la pace »! Arriverà certamente nelle vostre mani il testo d'una nostra Esortazione sulla riconciliazione all'interno della Chiesa, pubblicata in questi giorni; noi vi supplichiamo, in nome di Gesù Cristo, di voler meditare questo documento, e di volerne trarre propositi di riconciliazione e di pace. Che nessuno pensi di poter eludere queste indeclinabili esigenze della comunione con Cristo, la riconciliazione e la pace, attestandosi su abituali posizioni contestatrici con la sua Chiesa; procuriamo invece che da tutti e da ciascuno la filiale, umile, positiva edificazione di questa sua Chiesa abbia un nuovo e leale contributo. Non ricorderemo noi forse la parola estrema del Signore, per l'apologia del suo Vangelo: ut sint consummati in unum et cognoscat mundus quia Tu me misisti (Io. 17, 23)? Non avremo noi la gioia di rivedere Fratelli amati e lontani ritornare all'antica e lieta concordia?

Noi dovremo pregare affinché quest'Anno Santo dia alla Chiesa Cattolica l'ineffabile esperienza della ricomposizione dell'unità di qualche gruppo di Fratelli, già tanto vicini all'unico ovile, ma ancora esitanti a varcarne le soglie. E pregheremo anche per i seguaci sinceri di altre Religioni, affinché si sviluppi l'amichevole dialogo che abbiamo con loro iniziato, e insieme possiamo collaborare per la pace mondiale. E dovremo innanzi tutto chiedere a Dio per noi stessi l'umiltà e l'amore per dare alla professione limpida e costante della nostra fede la virtù attrattiva della riconciliazione e il carisma fortificante e gaudioso della pace.

E col nostro benedicente saluto « la pace di Dio, che sorpassa ogni intendimento, custodisca i vostri cuori ed i vostri pensieri in Cristo Gesù » (Phil. 4, 7).

Dal Vaticano, 8 dicembre 1974.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA IX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LE VERE ARMI DELLA PACE

1 gennaio 1976

 

A voi, Uomini di Stato!

A voi, Rappresentanti e Promotori delle grandi Istituzioni internazionali!

A voi, Politici! A voi, Studiosi dei problemi della convivenza internazionale, Pubblicisti, e Operatori, e Sociologi, e Economisti circa i rapporti fra i Popoli.

A voi, Cittadini del mondo, affascinati dall'ideale di una fratellanza universale, ovvero delusi e scettici circa la possibilità di stabilire fra le Genti relazioni di equilibrio, di giustizia, di collaborazione!

E a voi finalmente, seguaci di Religioni fautrici d'amicizia fra gli uomini; a voi, Cristiani, a voi Cattolici, che della pace nel mondo fate principio della vostra fede e termine del vostro amore universale!

Noi osiamo anche quest'anno 1976 rispettosamente presentarci, come negli anni precedenti, col nostro messaggio di Pace.

Un invito lo precede: che Voi lo abbiate ad ascoltare: siate cortesi, siate pazienti. La grande causa della Pace merita la vostra ascoltazione, la vostra riflessione, anche se può sembrare che la nostra voce si ripeta su questo tema ricorrente all'alba dell'anno nuovo; e anche se voi, edotti dai vostri studi e forse ancor più dalle vostre esperienze, pensate di conoscere ormai tutto circa la Pace nel mondo.

Forse può essere tuttavia di qualche interesse per voi conoscere quali siano i nostri spontanei sentimenti, derivati da immediate esperienze della vicenda storica, nella quale tutti siamo immersi, circa questo implacabile tema della Pace.

I nostri primi sentimenti a tale proposito sono due, e discordi l'uno dall'altro. Vediamo innanzi tutto con piacere e con speranza progredire l'idea della Pace. Essa guadagna importanza e spazio nella coscienza dell'umanità; e con essa si sviluppano le strutture della organizzazione della Pace; si moltiplicano le celebrazioni responsabili e accademiche in suo favore; il costume si evolve nel senso indicato dalla Pace: viaggi, congressi, convegni, commerci, studi, amicizie, collaborazioni, soccorsi. La Pace guadagna terreno. La Conferenza di Helsinki, in luglio-agosto del 1975, è avvenimento che fa bene sperare in tale senso.

Ma vediamo purtroppo, nello stesso tempo, attestarsi fenomeni contrari al contenuto e allo scopo della Pace; e anche questi fenomeni progrediscono, se pur contenuti spesso allo stato latente, ma con indubbi sintomi di incipienti o di future conflagrazioni. Rinasce, ad esempio, col senso nazionale, legittima e auspicabile espressione della polivalente comunione d'un Popolo, il nazionalismo, che accentuando tale espressione fino a forme di egoismo collettivo e di antagonismo esclusivista, fa rinascere nella coscienza collettiva germi pericolosi e perfino formidabili di rivalità e di ben probabili competizioni.

Cresce a dismisura, - e l'esempio mette brividi di timore - , la dotazione degli armamenti, d'ogni genere, in ogni singola Nazione; abbiamo il giustificato sospetto che il commercio delle armi raggiunga spesso livelli di primato sui mercati internazionali, con questo ossessionante sofisma: la difesa, anche se progettata come semplicemente ipotetica e potenziale, esige una gara crescente di armamenti, che solo nel loro contrapposto equilibrio possono assicurare la Pace.

Non è completo l'elenco dei fattori negativi, che corrodono la stabilità della Pace. Possiamo chiamare pacifico un mondo radicalmente diviso da irriducibili ideologie, potentemente e ferocemente organizzate, che si dividono i Popoli, e, quando libertà è loro concessa, li suddividono nell'interno delle loro compagini, in fazioni, in partiti, che trovano ragion d'essere e di operare nell'invelenire le loro schiere con odio irriducibile e con lotta sistematica nell'interno stesso del medesimo tessuto sociale? L'apparente normalità di simili situazioni politiche non nasconde la tensione d'un rispettivo braccio di ferro, pronto a schiantare l'avversario, appena questo tradisca un segno di fatale debolezza: è Pace cotesta? è civiltà? è Popolo un agglomerato di cittadini, avversi gli uni agli altri fino alle estreme conseguenze?

E dov'è la Pace nei focolai di conflitti armati, o appena contenuti dall'impotenza di più violente esplosioni? Noi seguiamo con ammirazione gli sforzi in atto per spegnere questi focolai di guerre e di guerriglie, che da anni funestano la faccia del globo, e che ad ogni momento minacciano di scoppiare in lotte gigantesche nelle dimensioni di continenti, di razze, di religioni, di ideologie sociali. Ma non possiamo nasconderci la fragilità d'una Pace, ch'è solo tregua di già delineati futuri conflitti, l'ipocrisia cioè d'una tranquillità, che solo con fredde parole di simulata rispettosa reciprocità si definisce pacifica.

La Pace, lo riconosciamo, è, nella realtà storica opera di una continua terapia; la sua salute è di natura sua precaria, composizione di rapporti, com'è, fra uomini prepotenti e volubili; essa reclama un continuo e sapiente sforzo di quella superiore fantasia creativa, che chiamiamo diplomazia, ordine internazionale, dinamica delle trattative. Povera Pace! Quali sono allora le tue armi? lo spavento di inaudite e fatali conflagrazioni, che potrebbero decimare, anzi quasi annientare l'umanità? la rassegnazione ad un certo stato di subìta sopraffazione, quale il colonialismo, o l'imperialismo, o la rivoluzione da violenta diventata inesorabilmente statica e terribilmente autoconservatrice? gli armamenti preventivi e segreti? un'organizzazione capitalista, cioè egoista, del mondo economico, obbligato dalla fame a contenersi sottomesso e tranquillo? l'incantesimo narcisistico d'una cultura storica, presuntuosa e persuasa dei propri perenni trionfanti destini? ovvero le magnifiche strutture organizzative, intese a razionalizzare e ad organizzare la vita internazionale?

È sufficiente, è sicura, è feconda, è felice una Pace sostenuta soltanto da tali fondamenti?

Occorre di più. Ecco il nostro messaggio. Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’'osservanza dei patti. Pacta sunt servanda; è l'assioma tuttora valido per la consistenza della conversazione effettiva fra gli Stati, per la stabilità della giustizia fra le Nazioni, per la coscienza onesta dei Popoli. La pace ne fa suo scudo. E dove i Patti non rispecchiano la giustizia? Ecco allora l'apologia delle nuove Istituzioni internazionali, mediatrici di consultazioni, di studi, di deliberazioni, che devono assolutamente escludere le così dette vie di fatto, cioè le contese di forze cieche e sfrenate, che sempre coinvolgono vittime umane e rovine senza numero e senza colpa, e raramente raggiungono lo scopo puro di rivendicare effettivamente una causa veramente giusta; le armi, le guerre in una parola, sono da escludere, dai programmi della civiltà. Il giudizioso disarmo è un'altra armatura della Pace. Come diceva il profeta Isaia: « Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci » (Is: 2, 4). Ed ascoltiamo la Parola di Cristo: « Riponi la tua spada al suo posto; perché tutti quanti si serviranno della spada, di spada periranno » (Mt. 26, 52). Utopia? Per quanto tempo ancora?

Qui entriamo nel campo futuribile dell'umanità ideale, dell'umanità nuova da generare, da educare; dell'umanità spoglia dalle sue pesantissime e micidiali armature militari, ma tanto più rivestita e corroborata da connaturati principii morali. Sono principii già esistenti, allo stato teorico e praticamente infantili, deboli e gracili ancora, solo all'inizio della loro penetrazione nella coscienza profonda e operante dei Popoli. La loro debolezza, che pare inguaribile ai diagnostici, così detti realisti degli studi storici e antropologici, proviene specialmente dal fatto che il disarmo militare, per non costituire un imperdonabile errore di impossibile ottimismo, di cieca ingenuità, di eccitante occasione propizia all'altrui prepotenza, dovrebbe essere comune e generale. Il disarmo o è di tutti, o è un delitto di mancata difesa: la spada, nel concerto dell'umana convivenza storica e concreta, non ha forse la sua ragion d'essere, per la giustizia, per la pace? (cf. Rom.13,4). Sì; dobbiamo ammetterlo. Ma non è entrata nel mondo una dinamica trasformatrice, una speranza non più inverosimile, un progresso nuovo ed effettivo, una storia futura e sognata, che può farsi presente e reale, da quando il Maestro, il Profeta del Nuovo Testamento ha proclamato la decadenza del costume arcaico, primitivo e istintivo, e ha annunciato con Parola avente in sé potestà, non solo di denunciare e di annunciare, ma di generare, a certe condizioni, un'umanità nuova: « Non vogliate credere che io sia venuto per abolire la Legge, o i Profeti; non sono venuto per abolirli, ma per completarli... Voi avete udito che fu detto agli antichi: Non uccidere; e chi ucciderà sarà sottoposto al giudizio. Io invece dico a voi: chiunque si adira contro il suo fratello, merita d'essere giudicato... » (Mt. 5,17. 21-22)?

Non è più semplice ed ingenua e pericolosa utopia. È la nuova Legge dell'umanità che progredisce, e arma la Pace con un formidabile principio: « Voi tutti siete fratelli » (Mt. 23, 8). Se la coscienza della fratellanza universale penetrerà davvero nel cuore degli uomini, avranno essi ancora bisogno di armarsi fino a diventare ciechi e fanatici omicidi di fratelli di per sé innocenti, e a perpetrare in omaggio alla Pace stragi d'inaudita potenza (come ad Hiroshima, il 6 agosto 1945)? Del resto non ha avuto il nostro tempo un esempio di ciò che può fare un debole Uomo, solo armato del principio della non-violenza, Gandhi, per riscattare una Nazione di centinaia di milioni di esseri umani alla libertà e alla dignità di Popolo nuovo?

La civiltà cammina al seguito d'una Pace armata soltanto d'un ramo d'ulivo. Dietro ad essa seguono i Dottori con i pesanti volumi sul Diritto evolutivo dell'umanità ideale; seguono i Politici sapienti, non tanto circa i calcoli degli eserciti onnipotenti a vincere guerre e a soggiogare uomini vinti e avviliti, ma circa le risorse della psicologia del bene e dell'amicizia. La giustizia, anch'essa, segue il sereno corteo, non più fiera e crudele, ma tutta intenta a difendere i deboli, a punire i violenti, ad assicurare un ordine, estremamente difficile, ma l'unico che possa portare quel nome divino: l'ordine nella libertà e nel dovere cosciente.

Rallegriamoci: questo corteo, anche se disturbato da attacchi ostinati e da incidenti inattesi, prosegue sotto i nostri occhi, in questo nostro tragico tempo, con passo, forse un po' lento, ma sicuro e benefico per il mondo intero. È un corteo deciso a usare le vere armi della pace.

Anche questo messaggio deve avere la sua appendice per i seguaci del Vangelo, in senso proprio e al suo servizio. Una appendice che ci ricorda quanto Cristo nostro Signore sia esplicito ed esigente su questo tema della pace disarmata d'ogni strumento, e armata solo di bontà e di amore.

Il Signore arriva ad affermazioni, lo sappiamo, che sembrano paradossali. Non ci sia discaro ritrovare nel Vangelo i canoni d'una Pace, che potremmo dire rinunciataria. Ricordiamo, ad esempio: « Se uno vuol farti causa per toglierti la tunica, cedigli anche il mantello » (Mt. 5, 40). E poi quel divieto di vendicarsi, non indebolisce la Pace? Anzi non aggrava invece di difendere, la condizione dell'offeso? « Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra » (ib. 39). Dunque niente rappresaglie, niente vendette (e ciò tanto più se queste fossero compiute come preventive ad offese non ricevute!). Quante volte nel Vangelo ci è raccomandato il perdono, non come atto di vile debolezza, né di abdicazione di fronte alle ingiustizie, ma come segno di fraterna carità, eretta a condizione per ottenere noi stessi il perdono, ben più generoso e a noi necessario, da parte di Dio! (cfr. Mt. 18, 23, ss.; 5, 44; Mr. 11, 25; Lc. 6, 37; Rom. 12, 14; etc.).

Ricordiamo l'impegno da noi assunto all'indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia: « rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt. 6, 12).

Anche per noi quindi, alunni alla scuola di Cristo, questa è una lezione da meditare ancora, da applicare con confidente coraggio.

La Pace si afferma solo con la pace, quella non disgiunta dai doveri della giustizia, ma alimentata dal sacrificio proprio, dalla clemenza, dalla misericordia, dalla carità.

Dal Vaticano, 18 ottobre 1975.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA X GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

SE VUOI LA PACE, DIFENDI LA VITA

1 gennaio 1977

 

Uomini grandi e responsabili!
Uomini innumerevoli e sconosciuti!
Uomini Amici!

Eccoci ancora una volta, la decima volta, a voi! con voi! All'alba del nuovo anno 1977, noi siamo alla vostra porta e bussiamo (cfr. Apoc. 3, 20). Apriteci, per favore. Noi siamo il solito Pellegrino, che percorre le vie del mondo, senza stancarsi mai, e senza smarrire la strada. Siamo inviati per portarvi il solito annuncio; siamo profeti della Pace! Sì, Pace, Pace, noi andiamo gridando, come messaggeri d'un'idea fissa, d'un'idea antica, ma sempre nuova per la necessità ricorrente che la reclama, come una scoperta, come un dovere, come una beatitudine! L'idea della Pace sembra acquisita, come espressione equivalente e perfettiva della civiltà. Non vi è civiltà senza la Pace. Ma in realtà la Pace non è mai né completa, né sicura. Avete osservato come le stesse acquisizioni del progresso possono essere cause di conflitti; e quali conflitti! Non giudicate superfluo, e perciò noioso, il nostro annuale massaggio in favore della Pace.

Sul quadrante della psicologia dell'umanità la Pace ha segnato dopo l'ultima guerra mondiale un'ora di fortuna. Sulle immense rovine, ben diverse, sì, nei vari Paesi, ma universali, sola vittoriosa si è vista dominare la Pace, finalmente. E subito le opere, le istituzioni, che sono proprie della Pace, sono fiorite, come una vegetazione primaverile; e molte di esse resistono e vigoreggiano ancora; sono le conquiste del mondo nuovo; e il mondo fa bene ad esserne fiero e a conservarne l'efficienza e lo sviluppo; sono le opere e le istituzioni che segnano un gradino ascensionale nel progresso dell'umanità. Ascoltiamo un istante, a questo punto, una voce autorevole, paterna e profetica; quella del nostro venerato Predecessore, Papa Giovanni XXIII:

« La convivenza umana, venerabili Fratelli e diletti figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante» Enciclica Pacem in terris, 11 Aprile 1963; in Acta Apostolicae Sedis, LV, 1963, pag. 266). 

Ma questa fase terapeutica della Pace cede il passo a nuove contestazioni, sia come a residui di reviviscenti contese, solo provvisoriamente composte; sia come a fenomeni storici nuovi, nascenti dalle strutture sociali in continua evoluzione. La Pace ritorna ad essere in sofferenza, nei sentimenti degli uomini dapprima, poi in contestazioni parziali e locali, e poi in spaventosi programmi di armamenti, che calcolano a freddo il potenziale di terrificanti distruzioni, superiori alla stessa nostra capacità di tradurle in misure concrete. Tentativi lodevolissimi per scongiurare simili conflagrazioni sorgono qua e là; e noi auguriamo che essi possano avere ragione sui pericoli incommensurabili, a cui tali tentativi stanno cercando preventivo rimedio.

Uomini Fratelli! questo non basta. Il concetto della Pace, come ideale direttivo dell'effettiva attività dell'umano consorzio, sembra soccombere ad un fatale sopravvento dell'incapacità del mondo a governarsi nella Pace e con la Pace. La Pace non è un fatto autogeno, se pur ad esso tendono gli impulsi profondi della natura umana; la Pace è l'ordine; e all'ordine aspira ogni cosa, ogni fatto, come ad un destino precostituito, come ad una ragion d'essere preconcepita, ma che si realizza in concomitanza ed in collaborazione con molteplici fattori. Per questo la Pace è un vertice che suppone una interiore e complessa struttura di sostegno; essa è come un corpo flessibile che deve essere corroborato da uno scheletro robusto. Essa è una costruzione che deve la sua stabilità e la sua eccellenza allo sforzo portante di cause e di condizioni., che spesso le mancano, ed anche quando sono operanti non sempre resistono alla funzione loro assegnata, affinché la piramide della Pace sia stabile nella sua base ed alta nella sua sommità.

Ma di fronte a questa analisi della Pace, che ne conferma l'eccellenza e la necessità, e nello stesso tempo ne rileva là instabilità e la fragilità, noi riaffermiamo la nostra convinzione: la Pace è doverosa, la Pace è possibile. È questo il nostro ricorrente messaggio, che fa proprio l'ideale della civiltà, fa eco all'aspirazione dei Popoli, conforta la speranza degli uomini umili e deboli e nobilita con la giustizia la sicurezza dei forti. È il messaggio dell'ottimismo, è il presagio dell'avvenire. Non è un sogno la Pace, non è un'utopia, non è un'illusione. E nemmeno essa è una fatica di Sisifo: no, essa può essere prolungata e corroborata; essa può segnare le più belle pagine della storia, non solo con i fasti della potenza e della gloria, ma ancora più con quelli anche migliori dell'umana virtù, della bontà popolare, della prosperità collettiva della vera civiltà: la civiltà dell'amore.

È davvero possibile? Sì, lo è; lo deve essere. Ma siamo sinceri: la Pace, ripetiamo, è doverosa, è possibile, ma non senza il concorso di molte e non facili condizioni. Il discorso sulle condizioni della Pace, noi ce ne rendiamo conto, è molto difficile e molto lungo. Noi non oseremo qui affrontarlo. Noi lo lasciamo agli esperti. Ma non vogliamo tacerne un aspetto, che è senza dubbio primordiale. Ci basta ora richiamarlo e raccomandarlo alla riflessione degli uomini buoni e intelligenti. Ed è questo: il rapporto della Pace con la concezione che il mondo ha della Vita umana.

Pace e Vita: sono beni supremi nell'ordine civile; e sono beni correlativi.

Vogliamo la Pace? difendiamo la Vita!

Può questo binomio « Pace e Vita » apparire quasi una tautologia, uno slogan retorico; ma tale non è. Esso rappresenta una conquista lungamente contesa lungo il cammino dell'umano progresso; un cammino non ancora giunto al suo finale traguardo. Quante volte nella drammatica storia dell'umanità il binomio « Pace e Vita » racchiude uno scontro feroce dei due termini, non un abbraccio fraterno. La Pace è cercata e conquistata con la morte, e non con la Vita; e la Vita si afferma non con la Pace, ma con la lotta, come un triste fato necessario alla propria difesa.

La parentela fra la Pace e la Vita sembra scaturire dalla natura delle cose; ma non sempre, non ancora, dalla logica del pensiero e della condotta degli uomini. E questa, se vogliamo comprendere la dinamica del progresso umano, è il paradosso, è la novità che noi, per quest'anno di grazia 1977, e poi per sempre, dobbiamo affermare. E non è facile, non è semplice riuscirvi, perché troppe obiezioni, formidabili obiezioni, custodite nell'arsenale immenso delle pseudo-convinzioni, dei pregiudizi empirici ed utilitari, delle cosiddette ragioni di Stato, o dei costumi storici e tradizionali, vi oppongono, ancora oggi, ostacoli, che sembrano insuperabili. Con questa tragica conclusione: se Pace e Vita possono illogicamente, ma praticamente dissociarsi, si delinea sull'orizzonte del futuro una catastrofe che, ai nostri giorni, potrebbe essere senza misura e senza rimedio sia per la Pace, che per la Vita. Hiroshima è documento terribilmente eloquente e paradigma spaventosamente profetico a questo riguardo. La Pace, se per deprecabile ipotesi, fosse concepita avulsa dal connaturato rispetto con la Vita, potrebbe imporsi come un triste trionfo della morte; vengono alla mente le parole di Cornelio Tacito: « ... ubi solitudinem faciunt, pacem appellant » (Vita di Agricola, 30). E reciprocamente: si può esaltare con egoistica e quasi idolatrica preferenza la Vita privilegiata di alcuni a prezzo dell'altrui oppressione, o soppressione: è Pace cotesta?

Per ritrovare la chiave della verità in questo conflitto, che da teorico e morale si fa tragicamente reale, e che profana e insanguina, ancora oggi, tante pagine dell'umana convivenza, bisogna senz'altro riconoscere il primato alla Vita, come valore e come condizione della Pace. Ecco la formula: « se vuoi la Pace, difendi la Vita ». La Vita è il vertice della Pace. Se la logica del nostro operare parte dalla sacralità della Vita, la guerra, come mezzo normale e abituale per l'affermazione del diritto e quindi della Pace, è virtualmente squalificata. La Pace altro non è che il sopravvento incontestabile del diritto e alla fine la felice celebrazione della Vita.

Qui l'esemplificazione è senza fine, come senza fine è la casistica delle avventure, o per meglio dire delle sventure, in cui la Vita è posta in gioco nel confronto con la Pace. Noi facciamo nostra la classifica che, a tale proposito, è stata presentata secondo « tre imperativi essenziali ». Occorre, sostengono questi imperativi, che per avere la Pace autentica e felice si debba: difendere la Vita, risanare la Vita, promuovere la Vita.

La politica dei grandi armamenti è subito chiamata in causa. L'antica sentenza, che ha fatto e fa scuola nella politica: si vis pacem, para bellum non è ammissibile senza radicali riserve (cfr. Lc. 14, 31). Noi con la schietta audacia dei nostri principii, denunciamo così il falso e pericoloso programma della « corsa agli armamenti », della gara segreta alla superiorità bellica fra i popoli. Anche se, per una superstite felice saggezza, o se per un tacito, ma già tremendo « braccio di ferro» nell'equilibrio delle avverse forze micidiali, la guerra (e quale guerra sarebbe!) non scoppia, come non compiangere l'incalcolabile dispendio di mezzi economici e di umane energie per conservare ad ogni singolo Stato la sua corazza di armi sempre più costose, sempre più efficienti, a danno dei bilanci scolastici, culturali, agricoli, sanitari, civili: Pace e Vita sopportano pesi enormi e incalcolabili per mantenere una Pace fondata sulla perpetua minaccia alla Vita, come pure per difendere la Vita mediante una costante minaccia alla Pace. Si dirà: è ineluttabile. Può essere in una concezione ancora tanto imperfetta della civiltà. Ma riconosciamo almeno che questa sfida costituzionale, che la gara agli armamenti stabilisce fra la Vita e la Pace, è una formula in se stessa fallace, e che va corretta, superata. Lode dunque allo sforzo già iniziato per ridurre e alla fine per eliminare questa assurda guerra fredda risultante dal progressivo aumento del rispettivo potenziale bellico delle Nazioni, quasi queste dovessero essere senza scampo nemiche fra loro, e quasi fossero incapaci di accorgersi che tale concezione dei rapporti internazionali si dovrebbe un giorno risolvere nella rovina della Pace quanto d'innumerevoli vite umane.

Ma non è solo la guerra che uccide la Pace. Ogni delitto contro la Vita è un attentato contro la Pace, specialmente se esso intacca il costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora legale facilità la soppressione della Vita nascente, con l'aborto. Si usano invocare a favore dell'aborto motivazioni come le seguenti: l'aborto mira a frenare l'aumento molesto della popolazione, a eliminare esseri condannati alla malformazione, al disonore sociale, alla miseria proletaria; eccetera; sembra piuttosto giovare che nuocere alla Pace. Ma così non è. La soppressione d'una Vita nascitura, o già venuta alla luce viola innanzitutto il principio morale sacrosanto, a cui sempre la concezione dell'umana esistenza deve riferirsi: la Vita umana è sacra fin dal primo momento del suo concepimento e fino all'ultimo istante della sua sopravvivenza naturale nel tempo. È sacra: che vuol dire? vuol dire che essa è sottratta a qualsiasi. arbitrario potere soppressivo; è intangibile, è degna d'ogni rispetto, d'ogni cura, d'ogni doveroso sacrificio. Per chi crede in Dio è spontaneo ed istintivo, è doveroso per legge religiosa trascendente; ed anche per chi non ha questa fortuna di ammettere la mano di Dio protettrice e vindice d'ogni essere umano, è e dev'essere in virtù dell'umana dignità intuitivo questo stesso senso del sacro, cioè dell'intangibile, dell'inviolabile proprio d'un'esistenza umana vivente. Lo sanno, lo sentono quelli che hanno avuto la sventura, la implacabile colpa, il sempre rinascente rimorso d'aver volontariamente soppresso una Vita; la voce del sangue innocente grida nel cuore della persona omicida con straziante insistenza: la Pace interiore non è possibile per via di sofismi egoistici! E se lo è, un attentato alla Pace, cioè al sistema protettivo generale dell'ordine, dell'umana e sicura convivenza, alla Pace, in una parola, è stato perpetrato: Vita singola e Pace generale sono sempre collegati da un'inscindibile parentela. Se vogliamo che l'ordine sociale progrediente si regga sopra i principii intangibili, non offendiamolo nel cuore del suo essenziale sistema: il rispetto alla vita umana. Anche sotto questo aspetto Pace e Vita sono solidali alla base dell'ordine e della civiltà.

Il discorso può prolungarsi passando in rassegna le cento forme con cui oggi l'offesa alla vita sembra diventare costume, là dove la delinquenza individuale si organizza per diventare collettiva, per assicurarsi l'omertà e la complicità d'interi ceti di cittadini, per fare della vendetta privata un vile dovere collettivo, del terrorismo un fenomeno di legittima affermazione politica o sociale, della tortura poliziesca un metodo efficace della forza pubblica non più rivolta a ristabilire l'ordine, ma ad imporre una ignobile repressione. Impossibile che la Pace fiorisca dove l'incolumità della vita è in tal modo compromessa. Dove la violenza infierisce la vera Pace finisce. Mentre dove i diritti dell'uomo sono realmente professati e pubblicamente riconosciuti e difesi, la Pace diventa l'atmosfera lieta ed operosa della convivenza sociale.

Documenti del nostro civile progresso sono i testi degli impegni internazionali per la tutela dei Diritti degli Uomini, per la Difesa del fanciullo, per la salvaguardia delle libertà fondamentali dell'uomo. Sono l'epopea della Pace, in quanto sono scudo alla Vita. Sono completi ? sono osservati? Noi tutti avvertiamo che la civiltà si esprime in tali dichiarazioni, e che trova in esse l'avallo della propria realtà, piena e gloriosa, se esse sono trasfuse nelle coscienze e nei costumi; realtà irrisa e violata, se esse rimangono lettera morta.

Uomini, Uomini della maturità del secolo ventesimo, voi avete segnato le Carte gloriose della vostra raggiunta pienezza umana, se tali carte sono vere; avete sigillato per la storia la vostra condanna morale, se esse sono documenti di velleità retoriche o di ipocrisia giuridica. Il metro è là: nella equazione fra la vera Pace e la dignità della Vita.

Accogliete la nostra supplicante implorazione: che tale equazione si compia e che su di essa un nuovo fastigio si eriga nell'orizzonte della nostra civiltà della Vita e della Pace, la civiltà, noi ancora diciamo, dell'amore.

Tutto è detto?

No; resta una insoluta questione: come realizzare tale programma di civiltà? come affratellare veramente la Vita e la Pace?

Rispondiamo in termini che possono essere inaccessibili a quanti hanno chiuso l'orizzonte della Realtà alla sola visuale naturale. Occorre fare ricorso a quel mondo religioso, che noi chiamiamo «soprannaturale». Occorre la fede per scoprire quel sistema di efficienze operanti nel complesso dell'umana vicenda, dove l'opera trascendente di Dio s'innesta e l'abilità ad effetti superiori, umanamente parlando impossibili. Occorre la religione, quella viva e vera, per renderli possibili. Occorre l'aiuto del « Dio della pace » (Phil. 4, 9).

Beati noi se questo conosciamo e crediamo; e se secondo questa fede sappiamo scoprire e mettere in azione il rapporto fra la Vita e la Pace.

Perché vi è un'eccezione capitale al ragionamento su esposto, che antepone la Vita alla Pace, e fa dipendere la Pace dalla inviolabilità della Vita; è l'eccezione che si verifica nei casi in cui entra in gioco un bene superiore alla Vita stessa. Si tratta d'un Bene di soverchiante valore a quello della Vita medesima, come la verità, la giustizia, la libertà civile, l'amore del prossimo, la Fede ... Allora interviene la parola di Cristo: « Chi ama la propria Vita (più di questi Beni superiori), la perde» (cfr. Io. 12, 25). Questo vi indica che come la Pace dev'essere concepita in ordine alla Vita, e come dall'ordinato benessere assicurato alla Vita deve la Pace risultare essa stessa l'armonia che rende ordinata e felice, interiormente, socialmente l'umana esistenza, così questa umana esistenza, la Vita, cioè, non può, né deve sottrarsi alle finalità superiori che le conferiscono la sua primaria ragion d'essere: perché si vive? che cosa dà alla Vita, oltre la ordinata tranquillità della Pace, la sua dignità, la sua spirituale pienezza, la sua morale grandezza, e diciamo pure, la sua religiosa finalità? Sarà forse perduta la Pace, la vera Pace, se sarà data cittadinanza nell'area della nostra Vita all'Amore, nella sua più alta espressione, che è il sacrificio? E se il sacrificio davvero entra in un disegno di Redenzione e di titolo meritorio per una esistenza trascendente la forma e la misura temporale, non ricupererà esso a livello superiore ed eterno la Pace, la sua vera, centuplicata Pace della Vita eterna? (cfr. Mt. 19, 29). Chi è alunno della scuola di Cristo può comprendere questo linguaggio trascendente (cfr. Mt. 19, 11). E perché noi non potremmo essere questi alunni? Egli, Cristo, «è la nostra Pace» (cfr. Eph. 2, 11).

Noi lo auguriamo a tutti quanti giunge questo nostro benedicente messaggio di Pace e di Vita!

Dal Vaticano, 8 dicembre 1976.

 

MESSAGGIO
DI PAOLO VI
PER LA XI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NO ALLA VIOLENZA, SI' ALLA PACE

1 gennaio 1978

 

Al mondo, all'Umanità noi osiamo ancora una volta rivolgere la parola mite e solenne di Pace. Questa parola ci opprime e ci esalta. Non è nostra, essa discende dal regno invisibile, il regno dei cieli; noi ne avvertiamo la trascendenza profetica, non spenta dalle nostre umili labbra, che vi prestano voce: «Pace in terra agli uomini oggetto della benevolenza divina» (Lc. 2, 14). Sì, noi ripetiamo, la Pace deve essere! La Pace è possibile!

Questo è l'annuncio; questa è la nuova, sempre nuova e grande notizia; questo è il Vangelo, che anche all'alba del nuovo ciclo sidereo, l'anno di grazia 1978, noi dobbiamo proclamare per tutti gli uomini: la Pace è il dono offerto agli uomini, che essi possono, essi devono accogliere, e collocare al vertice dei loro spiriti, dei loro programmi, delle loro speranze, della loro felicità.

La Pace, ricordiamolo subito, non è sogno puramente ideale, non è un'utopia attraente, ma infeconda e irraggiungibile; è, e dev'essere, una realtà; una realtà mobile e da generare ad ogni stagione della civiltà, come il pane di cui ci nutriamo, frutto della terra e della divina Provvidenza, ma opera dell'uomo lavoratore. Come non è la Pace uno stato di atarassia pubblica, in cui chi ne gode è dispensato da ogni cura e difeso da ogni disturbo, e può concedersi una beatitudine stabile e tranquilla, che più sa d'inerzia e di edonismo, che non di vigore vigilante ed operoso; la Pace è un equilibrio che si regge sul moto e che dispiega continue energie di spirito e di azione; è una fortezza intelligente e vivente.

Noi perciò supplichiamo, anche alle soglie di questo nuovo anno 1978, tutti gli uomini di buona volontà, le persone responsabili della condotta collettiva della vita sociale, i Politici, i Pensatori, i Pubblicisti, gli Artisti, gli ispiratori della opinione pubblica, i Maestri della scuola, dell'arte, della preghiera, e poi i grandi ideatori ed operatori del mercato mondiale delle armi, tutti, a riprendere con generosa onestà la riflessione circa la Pace nel mondo, oggi!

Sembra a noi che due fenomeni capitali si impongano alla comune attenzione con facile sopravvento nella valutazione della Pace stessa.

Il primo fenomeno è magnificamente positivo, ed è costituito dal progresso evolutivo della Pace. Essa è un'idea che guadagna prestigio nella coscienza dell'umanità; essa avanza, e precede e accompagna l'idea del progresso, che è quella dell'unità del genere umano. La storia del tempo nostro, sia detto a sua gloria, è tutta cosparsa dai fiori d'una splendida documentazione in favore della Pace, pensata, voluta, organizzata, celebrata e difesa: Helsinki insegna. E confermano queste speranze la prossima Sessione Speciale dell'Assemblea Generale dell'O.N.U., consacrata al problema del disarmo, come pure i numerosi sforzi di grandi e di umili operatori della pace.

Nessuno oggi osa sostenere come principii di benessere e di gloria dei programmi dichiarati di lotta micidiale fra gli uomini, cioè di guerra. Anche dove le espressioni comunitarie d'un legittimo interesse nazionale, suffragato da titoli che sembrano coincidere con le ragioni prevalenti del diritto, non riescono ad affermarsi mediante la guerra come via di soluzione, si confida ancora che possa essere evitato il ricorso disperato all'uso di armi, oggi come non mai follemente omicida e distruttore. Ma ora la coscienza del mondo è inorridita dall'ipotesi che la nostra Pace non sia che una tregua e che una incommensurabile conflagrazione possa essere fulmineamente scatenata.

Noi vorremmo essere in grado di fugare questo immanente terribile incubo, proclamando a grande voce l'assurdità della guerra moderna e l'assoluta necessità della Pace, non fondata sulla prevalenza delle armi, oggi dotate d'un infernale potenziale bellico (ricordiamo la tragedia del Giappone) , o sulla violenza strutturale di taluni regimi politici, ma sul metodo paziente, razionale e solidale della giustizia e della libertà, quale le grandi istituzioni internazionali, oggi esistenti, vanno promovendo e tutelando. Noi confidiamo che gli insegnamenti magistrali dei nostri grandi Predecessori, Pio XII e Giovanni XXIII, continueranno ad ispirare su questo tema fondamentale la sapienza dei maestri moderni e degli uomini politici contemporanei.

Ma ad un secondo fenomeno, negativo questo e concomitante col primo, vogliamo ora accennare; ed è quello della violenza passionale, o cerebrale. Esso va diffondendosi nella vita civilizzata moderna, profittando delle agevolazioni di cui gode l'attività del cittadino per insidiare e colpire, a tradimento di solito, il cittadino-fratello, che ostacola legalmente un proprio interesse. Questa violenza, che possiamo ancora chiamare privata, anche se astutamente organizzata in gruppi clandestini e faziosi, assume proporzioni preoccupanti, tali da diventare costume. Si potrebbe definire delinquenza, per le espressioni antigiuridiche in cui si esprime, ma le manifestazioni, ch'essa da qualche tempo e in alcuni ambienti va dispiegando, esigono un'analisi propria, assai varia e difficile. Essa deriva da una decadenza della coscienza morale, non educata, non assistita, permeata di solito da un pessimismo sociale, che ha spento nello spirito il gusto e l'impegno della onestà professata per se stessa, nonché ciò che vi è di più bello e di più facile nel cuore umano, l'amore, quello vero, nobile e fedele. Spesso la psicologia del violento parte da una radice perversa di vendetta ideale, e quindi d'una giustizia insoddisfatta, macerata in pensieri amari ed egoisti, e potenzialmente spregiudicata e sfrenata verso qualsiasi scopo; il possibile sostituisce l'onesto; solo freno è il timore d'incorrere in qualche sanzione pubblica e privata; e perciò l'atteggiamento abituale di questa violenza è quello dell'azione nascosta e dell'atto vile e proditorio, che ripaga la violenza stessa col successo impunito.

La violenza non è fortezza. Essa è l'esplosione d'una cieca energia, che degrada l'uomo il quale vi si abbandona, abbassandolo dal livello razionale a quello passionale; ed anche quando la violenza conserva una certa padronanza di sé, essa cerca vie ignobili per affermarsi: le vie dell'insidia, della sorpresa, della prevalenza fisica sopra un avversario più debole e forse indifeso; profitta della sorpresa, o dello spavento di lui e della follia propria; e se così è fra i due contendenti, quale è il più vile?

Quanto a un aspetto della violenza eretta a sistema « per regolamento di conti », non ricorre essa a forme abiette di odio, di rancore, di inimicizia che costituiscono un pericolo per la convivenza, e che squalificano la comunità in cui esse decompongono i sentimenti stessi di umanità, che formano il tessuto primario e indispensabile d'una qualsiasi società, familiare, tribale, comunitaria, che sia?

La violenza è antisociale per i metodi stessi che le consentono di organizzarsi in una complicità di gruppo, in cui l'omertà forma il cemento di coesione e lo scudo di protezione; un disonorante senso dell'onore le conferisce un palliativo di coscienza; ed è questa una delle deformazioni oggi diffuse del vero senso sociale, che ricopre col segreto e con la minaccia di spietata vendetta certe forme associate di egoismo collettivo, diffidente della normale legalità e sempre abile ad eluderne l'osservanza, tramando, quasi per forza di cose, imprese criminali, che talora degenerano in gesta di spietato terrorismo, epilogo della via falsa intrapresa, e causa di deprecabili repressioni. La violenza conduce alla rivoluzione, e la rivoluzione alla perdita della libertà. È sbagliato l'asse sociale intorno al quale la violenza svolge il proprio fatale sviluppo; scoppiata come reazione di forza, non priva talvolta di logico impulso, conclude il suo ciclo contro se stessa e contro i motivi che ne hanno provocato l'intervento. È forse il caso di ricordare la lapidaria frase di Cristo contro il ricorso impulsivo all'uso d'una spada vendicativa: « ... Tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada » (Mt. 26, 52 ). Ricordiamo dunque: la violenza non è fortezza. Essa non esalta, ma umilia l'uomo che vi fa ricorso.

In questo messaggio di Pace noi parliamo della violenza come del suo termine antagonista, e non abbiamo parlato di guerra, la quale tuttora merita lo nostra condanna, anche se oggi la guerra ha una sua riprovazione, sempre più diffusa, ed ha contro di sé un lodevole sforzo sempre più qualificato, sia socialmente, che politicamente; e poi perché la guerra è repressa dalla stessa terribilità delle proprie armi, di cui essa potrebbe immediatamente disporre nella supertragica eventualità, che essa avesse a scoppiare. La paura, comune a tutti i Popoli ed ai più forti specialmente, contiene la eventualità che la guerra abbia a scatenarsi in una cosmica conflagrazione. E alla paura, argine più mentale che reale, si accompagna, noi l'abbiamo detto, uno sforzo razionale ed elevato ai supremi livelli politici, il quale deve tendere non tanto a bilanciare le forze degli eventuali contendenti, quanto a dimostrare la suprema irrazionalità della guerra, ed insieme a stabilire rapporti fra i Popoli sempre più interdipendenti, solidali alla fine, e sempre più amichevoli ed umani. Dio voglia che così sia.

Ma non possiamo chiudere gli occhi sulla triste realtà della guerra parziale, sia perché essa conserva la sua feroce presenza in zone particolari, sia perché psicologicamente essa non è affatto esclusa nelle torbide ipotesi della storia contemporanea. La nostra guerra contro la guerra non è ancora vinta e il nostro « sì » alla Pace è piuttosto ottativo che reale, perché in tante situazioni geografiche e politiche, non ancora composte in giuste e pacifiche soluzioni, rimane endemica l'ipotesi di futuri conflitti. Il nostro amore alla Pace deve rimanere in guardia; anche altre prospettive che non quella d'una nuova guerra mondiale ci obbligano a considerare e ad esaltare la Pace anche al di fuori delle trincee militari.

E difatti noi dobbiamo oggi difendere la Pace sotto il suo aspetto, potremmo dire metafisico, anteriore e superiore a quello storico e contingente della pausa militare e della esteriore tranquillitas ordinis; vogliamo considerare la causa della Pace rispecchiata in quella della vita umana stessa. Il nostro « sì » alla Pace si allarga ad un « sì » alla vita. La Pace deve affermarsi non soltanto sui campi di battaglia, ma dovunque si svolge l'esistenza dell'uomo. Vi è, anzi deve essere anche una Pace che tutela questa esistenza non solo dalle minacce delle armi belliche, ma una Pace altresì che protegge la vita in quanto tale, contro ogni pericolo, ogni malanno e ogni insidia.

Il discorso potrebbe essere vastissimo, ma i nostri punti di riferimento sono ora pochi e determinati. Esiste nel tessuto della nostra civiltà una categoria di Persone dotte, valenti e buone, le quali hanno fatto della scienza e dell'arte sanitaria la loro vocazione e la loro professione. Sono i Medici, e quanti con loro e sotto la loro direzione, studiano ed operano per l'esistenza e il benessere dell'umanità. Onore e riconoscenza a questi sapienti e generosi tutori della vita umana.

Noi, ministri della Religione, guardiamo a questa elettissima categoria di Persone, addette alla salute fisica e psichica dell'umanità, con grande ammirazione, con grande gratitudine e con grande fiducia. Per molti titoli la salute fisica, il rimedio alle malattie, il conforto al dolore, l'energia dello sviluppo e del lavoro, la durata dell'esistenza temporale, ed anche tanta parte della vita morale dipendono dalla saggezza e dalle cure di questi protettori, difensori e amici dell'uomo. Noi siamo a loro vicini e ne sosteniamo, come a noi è possibile, la fatica, l'onore, lo spirito. E noi speriamo d'averli con noi solidali nell'affermare e nel difendere la Vita umana in quelle singolari contingenze nelle quali la Vita stessa può essere compromessa per positivo ed iniquo proposito d'umana volontà. Il nostro « sì » alla Pace suona un « sì » alla vita. La vita dell'uomo, dal suo primo accendersi all'esistenza, è sacra. La legge del « non uccidere » tutela questo ineffabile prodigio della vita umana con trascendente sovranità. Questo è il principio che governa il nostro ministero religioso in ordine all'essere umano. Noi confidiamo d'avere alleato il ministero terapeutico.

E confidiamo non meno nel ministero che alla vita umana ha dato principio, quello generatore, quello materno in primo luogo. Oh! quanto si fa delicato il nostro discorso, quanto commosso, quanto pio e quanto forte! La Pace ha su questo campo della vita che nasce il suo primo scudo di protezione; uno scudo munito dalle più morbide protezioni, ma scudo di difesa e di amore. Noi non possiamo perciò che disapprovare ogni offesa alla vita che nasce, e non possiamo che supplicare ogni Autorità, ogni debita competenza, di operare affinché all'aborto volontario sia dato divieto e rimedio. Il seno materno e la culla dell'infanzia sono le prime barriere che non solo difendono con la Vita la Pace, ma che la costruiscono (cfr. Ps. 126, 3, ss.). Chi sceglie, in opposizione alla guerra e alla violenza, la Pace, sceglie per ciò stesso la Vita, sceglie l'Uomo nelle sue esigenze profonde ed essenziali; ed è questo il senso del presente messaggio, che ancora noi inviamo con umile e ardente convinzione ai Responsabili della Pace sulla terra e a tutti i Fratelli nel mondo.

Ma noi dobbiamo aggiungere una postilla per i Ragazzi, che della società sono il settore più vulnerabile di fronte alla violenza, ma altresì la speranza di un domani migliore: ad essi pure giunga, per qualche via benevola e intelligente, questo Messaggio per la Pace.

Diciamo il perché. Primo perché: nei Messaggi per la Pace degli anni precedenti abbiamo messo in evidenza che noi non parliamo in nostro nome soltanto, ma parliamo in nome di Cristo, che è « il Principe della Pace » nel mondo (Is. 9, 6), e che ha detto: « Beati i promotori della Pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio » (Mt. 5, 9). Noi crediamo che senza la guida e l'aiuto di Cristo la Pace vera, stabile e universale, non è possibile. E crediamo anche che la Pace di Cristo non indebolisce gli uomini, non li rende gente paurosa e vittima della prepotenza degli altri, ma piuttosto li fa capaci di lottare per la giustizia e di risolvere tante questioni con la generosità, anzi col genio dell'amore.

Secondo perché. Voi ragazzi siete spesso portati a litigare. Ricordatelo: è una vanità nociva volere apparire forti contro altri fratelli e compagni con la lite, con le percosse, con l'ira, con la vendetta. Fanno tutti così, voi rispondete. Male, vi diciamo noi; se volete essere forti, siatelo col vostro animo, col vostro contegno; sappiate dominarvi; sappiate anche perdonare e tornare presto amici con quelli che vi hanno offeso: così sarete davvero cristiani.

Non odiate alcuno. Non siate orgogliosi nei confronti di altri ragazzi, di persone d'altra condizione sociale, di altri Paesi. Non agite per interesse egoista, per dispetto, non mai per vendetta, ripetiamo.

Terzo perché. Noi pensiamo che voi ragazzi, diventando grandi, dovete cambiare la maniera di pensare e di agire del mondo d'oggi, che è sempre pronto a distinguersi, a separarsi dagli altri, a combatterli: non siamo tutti fratelli? non siamo tutti membri della stessa famiglia umana? e non sono tutte le Nazioni obbligate ad andare d'accordo, a creare la Pace?

Voi, ragazzi del tempo nuovo, dovete abituarvi ad amare tutti, a dare alla società l'aspetto d'una comunità più buona, più onesta, più solidale. Volete davvero essere uomini, e non lupi? volete davvero avere il merito e la gioia di fare del bene, di aiutare chi ha bisogno, di sapere compiere qualche opera buona col premio solo della coscienza? Ebbene, ricordatevi le parole dette da Gesù, durante l'ultima cena, la notte prima della sua passione. Egli disse: « Io vi do un comandamento nuovo: che voi vi vogliate bene gli uni gli altri ... Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Io. 13, 34-35). Questo è il segno della nostra autenticità, umana e cristiana, volersi bene gli uni gli altri.

Ragazzi, salutiamo tutti e vi benediciamo. Parola d'ordine: No, alla violenza; Sì, alla pace. A Dio!

Dal vaticano, 8 dicembre 1977.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PER GIUNGERE ALLA PACE, EDUCARE ALLA PACE

1 gennaio 1979

 

A voi tutti che desiderate la pace!

La grande causa della pace tra i popoli ha bisogno di tutte le energie di pace presenti nel cuore dell'uomo. E' a liberare e a ben indirizzare tali forze - ad «educarle» - che il mio predecessore Paolo VI, poco prima della morte, volle fosse dedicata la Giornata Mondiale 1979: «Per giungere alla pace, educare alla Pace».

Lungo tutto il corso del suo pontificato, Paolo VI camminò con voi sui sentieri difficili della pace. Egli condivideva le vostre angosce, quando essa era minacciata; soffriva con coloro che erano travolti dalle sventure della guerra; incoraggiava tutti gli sforzi per ristabilire la pace; conservava in tutte le circostanze la speranza, con energia indomabile.

Convinto che la pace è opera di tutti, egli lanciò nel 1967 l'idea di una Giornata Mondiale della Pace, nel desiderio che voi ve ne appropriaste come di una vostra stessa iniziativa. Da allora, ogni anno, il suo Messaggio ha offerto ai responsabili delle nazioni e delle organizzazioni internazionali l'occasione per rinnovare ed esprimere pubblicamente ciò che legittima la loro autorità: il far progredire e far convivere pacificamente uomini liberi, giusti e tra loro fratelli. Le comunità più diverse si sono incontrate per salutare il bene inestimabile della pace e per confermare la loro volontà di difenderla e di servirla.

Io raccolgo dalle mani del mio venerato predecessore il bastone di pellegrino della pace. Sono anch'io in cammino, al vostro fianco, con in mano il Vangelo della pace: «Beati gli operatori di pace». Vi invito pertanto a celebrare, all'inizio del 1979, la Giornata Mondiale ponendola, secondo l'ultimo desiderio di Paolo VI, sotto il segno dell'educazione alla pace.

2. Giungere alla pace: è la sintesi e il coronamento di ogni nostra aspirazione. La pace - come noi stessi intuiamo - è pienezza ed è gioia. Per instaurarla tra gli Stati, si moltiplicano i tentativi negli scambi bilaterali o multilaterali, nelle conferenze internazionali, e vi sono anche alcuni che assumono in prima persona iniziative coraggiose per stabilire la pace o allontanare la minaccia di una nuova guerra.

3. Si rileva, però, al tempo stesso, che sia le persone singole sia i gruppi non finiscono mai di regolare i loro conflitti segreti o palesi. Sarebbe, dunque, la pace un ideale al di fuori della nostra portata? Lo spettacolo quotidiano delle guerre, delle tensioni, delle divisioni semina il dubbio e lo scoraggiamento. Focolai di discordia e di odio sembrano addirittura essere attizzati artificialmente da certuni che non ne portano poi le conseguenze. E troppo spesso i gesti di pace sono ridicolmente impotenti a cambiare il corso delle cose, quando non sono sopraffatti e, infine, riassorbiti dalla logica dominante dello sfruttamento e della violenza.

Qui, ad esempio, la timidezza e la difficoltà delle riforme necessarie avvelenano le relazioni tra i gruppi umani, pur uniti tra loro da una lunga ed esemplare storia comune; nuove volontà di potenza propendono a ricorrere alla costrizione del numero o alla forza brutale, per sbloccare situazioni, sotto lo sguardo impotente, e a volte interessato e complice, di altri Paesi, vicini o lontani; i più forti come i più deboli non hanno più fiducia nelle procedure pazienti della pace.

D'altronde, la paura d'una pace mal sicura, esigenze d'ordine militare e politico, interessi economici e commerciali conducono alla creazione di arsenali o alla vendita di armi di spaventosa capacità distruttiva: la corsa agli armamenti prevale allora sui grandi compiti pacifici, che dovrebbero unire i popoli in una solidarietà nuova, fomenta sporadici ma sanguinosi conflitti ed accumula le più gravi minacce. E' vero: ad un primo sguardo, la causa della pace soffre di un handicap scoraggiante.

4. E tuttavia in quasi tutti i discorsi pubblici, a livello sia nazionale che internazionale, raramente si è tanto parlato di pace, di distensione, di intesa, di soluzioni ragionevoli dei conflitti, conformemente alla giustizia. La pace è diventata lo slogan che rassicura o che vuole sedurre. Questo è, in un certo senso, un fatto positivo: l'opinione pubblica delle nazioni non sopporterebbe più che si facesse l'apologia della guerra, e neppure che si corresse il rischio di una guerra offensiva.

5. Ma per raccogliere la sfida che s'impone a tutta l'umanità, di fronte al difficile compito della pace, non bastano le parole, sincere o demagogiche che siano. In particolare, a livello degli uomini politici, degli ambienti o dei centri da cui, più o meno direttamente, più o meno segretamente, dipendono i passi decisivi verso la pace o, al contrario, il prolungamento delle guerre o delle situazioni di violenza, è necessario che penetri il vero spirito di pace. E' necessario, come minimo, che ci si trovi d'accordo nell'appoggiarsi su alcuni principi, elementari ma fermi, quali, ad esempio, i seguenti: gli affari degli uomini devono essere trattati con umanità, e non mediante la violenza; le tensioni, le liti e i conflitti devono essere regolati mediante negoziati ragionevoli, e non mediante la forza; le opposizioni ideologiche devono essere tra loro confrontate in un clima di dialogo e di libera discussione; gli interessi legittimi di determinati gruppi devono tener conto anche degli interessi legittimi degli altri gruppi parimenti implicati e delle superiori esigenze del bene comune; il ricorso alle armi non può essere considerato come lo strumento appropriato per risolvere i conflitti; i diritti umani imprescrittibili devono essere salvaguardati in ogni circostanza; non è permesso uccidere per imporre una soluzione.

Ogni uomo di buona volontà può ritrovare questi principi di umanità nella sua propria coscienza. Essi corrispondono alla volontà di Dio sugli uomini, e perché diventino salde convinzioni presso i potenti e presso i deboli, così da impregnare tutte le azioni, occorre ridare ad essi tutta la loro forza. E' necessaria una paziente e lunga educazione a tutti i livelli.

6. Per vincere questo spontaneo sentimento d'impotenza, il primo compito e vantaggio di un'educazione degna di questo nome è di rivolgere lo sguardo al di là delle tristi realtà immediate o, piuttosto, d'imparare a riconoscere, all'interno stesso delle esplosioni di violenza omicida, il cammino discreto della pace, che giammai si arrende, che instancabilmente guarisce le ferite, che conserva e fa progredire la vita. Allora, il cammino verso la pace apparirà possibile e desiderabile, deciso e già vittorioso.

7. Impariamo, anzitutto, a rileggere la storia dei popoli e dell'umanità secondo schemi più veri di quelli di una semplice concatenazione di guerre e di rivoluzioni. Certo il rumore delle battaglie domina la storia; ma sono le pause della violenza che hanno permesso di attuare quelle durature opere culturali, che fanno onore all'umanità. Anzi, se si son potuti trovare, nelle guerre e nelle rivoluzioni stesse, dei fattori di vita e di progresso, questi derivavano da aspirazioni di un ordine ben diverso da quello della violenza: aspirazioni di natura spirituale quali la volontà di veder riconosciuta una dignità comune a tutta l'umanità, di salvaguardare l'anima e la libertà di un popolo. Laddove tali aspirazioni erano presenti, esse operavano come elemento regolatore in seno ai conflitti, impedivano fratture irrimediabili, conservavano una speranza, preparavano una nuova favorevole occasione per la pace. Laddove, invece, mancavano o si alteravano nell'esaltazione della violenza, esse lasciavano libero il campo alla logica della distruzione, la quale ha condotto a durature regressioni economiche e culturali e alla scomparsa di intere civiltà. Voi, che siete responsabili dei popoli, sappiate educare voi stessi all'amore della pace, individuando e facendo emergere nelle grandi pagine della storia nazionale l'esempio di quei vostri predecessori, la cui gloria è stata di far germinare frutti di pace. «Beati gli operatori di pace...».

8. Oggi voi contribuirete all'educazione alla pace, dando il maggior rilievo possibile ai grandi compiti pacifici, che s'impongono alla famiglia umana. Noi vostri sforzi per giungere a una gestione ragionevole e solidale dell'ambiente e del patrimonio comuni dell'umanità, all'abolizione della miseria che opprime milioni di uomini, all'affermazione di istituzioni capaci di esprimere e far crescere l'unità della famiglia umana a livello regionale e mondiale, gli uomini scopriranno l'affascinante richiamo della pace, che è riconciliazione tra di loro e riconciliazione con il loro contesto naturale. Incoraggiando contro tutte le demagogie correnti la ricerca di forme di vita più semplici, meno abbandonate alle spinte tiranniche degli istinti di possesso, di consumo, di dominio, più disponibili ai ritmi profondi della creatività personale e dell'amicizia, voi aprirete per voi stessi e per tutti uno spazio immenso alle insospettate possibilità della pace.

9. Quanto è deprimente per l'individuo la sensazione che modesti sforzi in favore della pace, nella sfera ristretta delle responsabilità di ciascuno, sono resi vani dai grandi dibattiti politici mondiali, prigionieri di una logica di semplici rapporti di forza e di corsa agli armamenti, altrettanto è liberatore lo spettacolo di istanze internazionali sinceramente convinte circa le possibilità della pace e appassionatamente dedite a costruire la pace. L'educazione alla pace può allora beneficiare anche di un rinnovato interesse per gli esempi quotidiani dei semplici operatori di pace a tutti i livelli: sono quegli individui e quelle famiglie che, mediante il dominio delle proprie passioni, l'accettazione e il rispetto vicendevoli, raggiungono la pace interiore e la irradiano; sono quei popoli, spesso poveri e provati, la cui saggezza millenaria s'è plasmata attorno al bene supremo della pace, popoli che hanno saputo resistere spesso alle ingannevoli seduzioni di progressi rapidi raggiunti con la violenza, convinti che simili guadagni avrebbero portato con sé i germi avvelenati di nuovi conflitti.

Sì, pur non ignorando il dramma delle violenze, apriamo gli occhi nostri e quelli delle giovani generazioni a queste visioni di pace: esse eserciteranno un'attrattiva decisiva. Soprattutto, esse libereranno l'aspirazione alla pace, che è costitutiva dell'uomo. Queste energie nuove faranno inventare un nuovo linguaggio di pace e nuovi gesti di pace.

10. Il linguaggio è fatto per esprimere i pensieri del cuore e per unire. Ma, quando è prigioniero di schemi precostituiti, esso a sua volta trascina il cuore sulla sua propria china. Occorre, dunque, agire sul linguaggio per agire sul cuore e sventare le insidie del linguaggio stesso.

E' facile constatare fino a che punto l'ironia acerba e la durezza nei giudizi, nella critica degli altri e soprattutto dell'«estraneo», la contestazione e la rivendicazione sistematiche invadano le mutue relazioni parlate e spengano con la carità sociale la giustizia stessa. A furia di esprimere tutto in termini di rapporti di forza, di lotte di gruppi e di classi, di amici e nemici, si crea il terreno propizio alle barriere sociali, al disprezzo, persino all'odio e al terrorismo e alla loro apologia sorniona o aperta. Al contrario, da un cuore dedito al valore superiore della pace derivano la preoccupazione di ascoltare e di capire, il rispetto dell'altro, la dolcezza che è forza vera, la fiducia. Un tale linguaggio mette sulla via dell'obiettività, della verità e della pace. E' grande, a questo proposito, il compito educativo dei mezzi di comunicazione sociale, come ha pure notevole influenza il modo con cui ci si esprime negli scambi e nei dibattiti dei confronti politici, nazionali e internazionali. Voi, che siete responsabili delle nazioni e delle Organizzazioni Internazionali, sappiate trovare un linguaggio nuovo, un linguaggio di pace: esso aprirà da solo un nuovo spazio alla pace.

11. Sia il quadro aperto dalle visioni di pace, sia l'apporto offerto dal linguaggio di pace, devono esprimersi in gesti di pace. Mancando questi, le convinzioni si vanificano sul nascere e il linguaggio di pace diventa retorica condannata ad un rapido discredito. Possono essere molto numerosi gli operatori di pace, sol che prendano coscienza delle loro possibilità e responsabilità. E' la pratica della pace che porta alla pace: a coloro che cercano il tesoro della pace, essa insegna che tale tesoro si rivela e si offre a coloro che realizzano modestamente, giorno per giorno, tutte quelle forme di pace, di cui sono capaci.

12. Genitori ed educatori, aiutate i fanciulli e i giovani a fare l'esperienza della pace nelle mille azioni quotidiane, che sono a loro portata, nella famiglia, nella scuola, nel gioco, nel cameratismo, nel lavoro di gruppo, nelle competizioni sportive, nelle molteplici forme di conciliazione e riconciliazione necessarie.

L'«Anno Internazionale del Fanciullo», che le Nazioni Unite hanno indetto per il 1979, dovrebbe attirare l'attenzione di tutti sul contributo originale dei fanciulli stessi alla pace.

Giovani, siate dei costruttori di pace! Voi siete operatori a pieno titolo in questa grande opera comune. Resistete alle comodità che addormentano nella triste mediocrità e alle violenze sterili con cui talvolta certi adulti, che non sono in pace con se stessi, vogliono strumentalizzarvi. Seguite le strade sulle quali vi spinge il vostro senso della gratuità, della gioia di vivere, della compartecipazione. Voi amate investire le vostre energie nuove - che sfuggono agli apriorismi discriminatori - negli incontri fraterni al di là delle frontiere, nell'apprendimento delle lingue straniere che facilitano la comunicazione, nel servizio disinteressato ai Paesi più poveri. Voi siete le prime vittime della guerra che spezza il vostro slancio. Voi siete la magnifica occasione per la pace.

13. Uomini impegnati nella vita professionale e sociale, spesso è difficile per voi realizzare la pace. Non c'è pace senza giustizia e senza libertà, senza un coraggioso impegno per promuovere l'una e l'altra. La forza che allora si esige deve essere paziente senza rassegnazione né scoraggiamento, ferma senza provocazione, prudente per preparare attivamente l'auspicato progresso, senza dissipare le energie infiammate di indignazione violenta, che subito si spengono. Contro le ingiustizie e le oppressioni, la pace è costretta ad aprirsi una strada adottando un'azione risoluta. Ma questa azione deve già portare l'impronta del fine a cui si indirizza, e cioè una migliore accettazione reciproca delle persone e dei gruppi. Essa troverà una regolazione nella volontà di pace che sgorga dalle profondità dell'uomo, nelle aspirazioni e nella legislazione dei popoli. E' questa capacità di pace, coltivata e disciplinata, che illumina nel trovare, di fronte alle tensioni e agli stessi conflitti, le tregue necessarie a svilupparne la logica feconda e costruttiva. Ciò che avviene nella vita sociale interna dei Paesi ha una considerevole ripercussione - per il meglio e per il peggio - sulla pace tra le nazioni.

14. Ma - conviene ancora insistervi - questi molteplici gesti di pace rischiano di essere scoraggiati e in parte annullati da una politica internazionale, che non trovi, al suo livello, la stessa dinamica di pace. Uomini politici, responsabili dei popoli e delle organizzazioni internazionali, io vi esprimo la mia stima sincera ed offro il mio pieno sostegno ai vostri sforzi, spesso sfibranti, per mantenere o ristabilire la pace. Anzi, cosciente che ne va di mezzo la felicità e addirittura la sopravvivenza dell'umanità e persuaso della grave responsabilità che mi incombe di fare eco all'appello fondamentale di Cristo: «Beati gli operatori di pace», oso incoraggiarvi ad andare più lontano. Aprite nuove porte alla pace! Fate tutto ciò che è in vostro potere per far prevalere la voce del dialogo su quella della forza. Che tutto ciò trovi un'applicazione, anzitutto, a livello interiore: come possono i popoli promuovere veramente la pace internazionale, se essi stessi sono prigionieri di ideologie, secondo cui la giustizia e la pace non si ottengono se non riducendo all'impotenza coloro i quali, già per principio, vengono considerati indegni di essere costruttori del loro proprio destino o collaboratori validi del bene comune? Nei colloqui con le parti contrarie, siate persuasi che l'onore e l'efficacia non si misurano sul metro dell'inflessibilità nella difesa degli interessi, ma sulla capacità di rispetto, di verità, di benevolenza e di fraternità fra le parti, in una parola sulla loro umanità. Fate gesti di pace, anche audaci, che rompano con le concatenazioni fatali e con il peso delle passioni ereditate dalla storia; poi tessete pazientemente la trama politica, economica e culturale della pace. Create - l'ora è propizia e il tempo stringe - delle zone di disarmo sempre più vaste. Abbiate il coraggio di riesaminare in profondità l'inquietante problema del commercio delle armi. Sappiate scoprire a tempo e sistemare con serenità i conflitti latenti, prima che essi scatenino le passioni. Date dei quadri istituzionali adatti alle solidarietà regionali e mondiali. Rinunziate a strumentalizzare, per conflitti d'interesse, valori legittimi e anche spirituali che vi si degradano, inasprendoli. Vigilate perché la legittima passione nel comunicare le idee si eserciti per la via della persuasione, e non sotto la pressione delle minacce e delle armi.

Facendo coraggiosi gesti di pace, voi farete emergere le autentiche aspirazioni dei popoli e troverete in esse come dei potenti alleati per lavorare allo sviluppo pacifico di tutti. Voi educherete voi stessi alla pace, desterete in voi ferme convinzioni e una nuova capacità d'iniziativa a servizio della grande causa della pace.

15. Tale opera di educazione alla pace - tra i popoli, nel proprio Paese, nel proprio ambiente, in se stessi - è proposta a tutti gli uomini di buona volontà, come ricorda l'enciclica «Pacem in Terris» di Giovanni XXIII. Essa è, in gradi diversi, a loro portata. E poiché «la pace sulla terra... non può né fondarsi né consolidarsi se non nel rispetto assoluto dell'ordine stabilito da Dio» (cfr. Giovanni XXIII, «Pacem in Terris»: AAS 55 [1963] 257) i credenti trovano nella loro religione lumi e inviti e forze per lavorare nell'educazione alla pace. Il genuino sentimento religioso non può che promuovere la vera pace. I pubblici poteri, riconoscendo - com'è loro dovere - la libertà religiosa, favoriscono lo sbocciare dello spirito di pace nel profondo del cuore e nell'ambito delle istituzioni educative, promosse dai credenti. I cristiani, da parte loro, sono specificamente educati da Cristo e da lui avviati ad essere operatori di pace: «Beati quelli che operano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9; cfr. Lc 10,5; ecc.). Al termine di questo messaggio, è comprensibile che io rivolga una particolare attenzione ai figli della Chiesa, per incoraggiare il loro contributo alla pace e situarlo nel grande Disegno di Pace rivelato da Dio in Gesù Cristo. L'apporto specifico dei cristiani e della Chiesa all'opera comune sarà tanto più sicuro quanto più si nutrirà alle loro proprie sorgenti, alla loro propria speranza.

16. Cari fratelli e sorelle in Cristo, l'aspirazione alla pace che voi condividete con tutti gli uomini, corrisponde alla chiamata iniziale di Dio a formare un'unica famiglia di fratelli, creata a immagine dello stesso Padre. La Rivelazione insiste sulla nostra libertà e sulla nostra solidarietà. Le difficoltà che incontriamo nel cammino verso la pace, sono legate in parte alla nostra debolezza di creature, i cui passi sono necessariamente lenti e graduali; sono aggravate dai nostri egoismi, dai nostri peccati di ogni genere, dopo quel peccato di origine, che ha segnato una rottura con Dio, determinando una rottura anche tra i fratelli. L'immagine della Torre di Babele descrive bene la situazione. Ma noi crediamo che Gesù Cristo, con il dono della sua vita sulla croce, è diventato la nostra Pace: egli ha abbattuto il muro di odio, che separava i fratelli nemici (cfr. Ef 2,14). Risuscitato ed entrato nella gloria del Padre, egli ci associa misteriosamente alla sua Vita: riconciliandoci con Dio, egli ripara le ferite del peccato e della divisione e ci rende capaci di inscrivere nelle nostre società un abbozzo di quell'unità che ristabilisce in noi. I più fedeli discepoli di Cristo sono stati operatori di pace, fino a perdonare ai loro nemici, fino ad offrire talvolta la propria vita per essi. Il loro esempio traccia la via per un'umanità nuova, che non si accontenta più di compromessi provvisori, ma realizza la più profonda fraternità. Noi sappiamo che il nostro cammino verso la pace sulla terra, senza perdere la sua consistenza naturale né le sue proprie difficoltà, è inglobato entro un altro cammino, quello della «salvezza», che trova compimento in una eterna pienezza di pace, in una comunione totale con Dio. E così il Regno di Dio, che è Regno di pace, con la sua propria sorgente, i suoi mezzi e il suo fine, permea già tutta l'attività terrena senza dissolversi in essa. Questa visione di fede ha una profonda incidenza sull'azione quotidiana dei cristiani.

17. Certamente, noi avanziamo lungo i sentieri della pace con le debolezze e tra gli incerti tentativi di tutti i nostri compagni di strada. Noi soffriamo con essi per le tragiche assenze di pace; ci sentiamo spinti a rimediarvi ancora più risolutamente, per l'onore di Dio e per l'onore dell'uomo; non pretendiamo di trovare nella lettura del Vangelo formule già pronte per realizzare - al giorno d'oggi - questo o quel progresso nella pace. Noi, però, troviamo quasi in ogni pagina del Vangelo e della storia della Chiesa, uno spirito, quello dell'amore fraterno, che educa potentemente alla pace. Noi troviamo nei doni dello Spirito Santo e nei Sacramenti, una forza, alimentata alla sorgente divina. Noi troviamo nel Cristo una speranza. Gli insuccessi non potranno rendere vana l'opera per la pace, anche se i risultati immediati si rivelano fragili, anche se siamo perseguitati a causa della nostra testimonianza in favore della pace. Il Cristo Salvatore unisce al suo destino tutti coloro che lavorano con amore per la pace.

18. La pace è opera nostra: essa esige, da parte nostra, un'azione coraggiosa e solidale. Ma la pace è insieme e prima di tutto un dono di Dio: essa esige la nostra preghiera. I cristiani devono essere in prima linea tra coloro che pregano ogni giorno per la pace, e devono anche educare a pregare per la pace. Essi ameranno pregare con Maria, Regina della Pace.

A tutti, cristiani, credenti e uomini di buona volontà, io dico: Non abbiate paura a puntare sulla pace, a educare alla pace! L'aspirazione alla pace non sarà giammai delusa. Il lavoro per la pace, ispirato dalla carità che non tramonta, produrrà i suoi frutti. La pace sarà l'ultima parola della Storia.

21 dicembre 1978

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA VERITA', FORZA DELLA PACE

1 gennaio 1980

 

A voi tutti che volete consolidare la pace sulla terra. A voi, uomini e donne di buona volontà. A voi, cittadini e responsabili dei popoli. A voi, giovani di tutti i Paesi!

A voi tutti indirizzo il mio messaggio, invitandovi a celebrare la XIII Giornata Mondiale della Pace mediante uno sforzo risoluto di pensiero e di azione, che venga ad appoggiare dall'interno l'edificio instabile e sempre minacciato della pace, e gli restituisca il suo contenuto di verità. La verità, forza della Pace! Uniamo i nostri sforzi per rafforzare la pace, facendo appello alle risorse della pace stessa e, in primo luogo, alla verità, la quale è per eccellenza la forza pacifica e possente della pace, poiché si comunica per irraggiamento suo proprio, al di fuori di ogni costrizione.

Una diagnosi: la «non-verità» serve la causa della guerra

1. Se è certo - e nessuno ne dubita - che la verità serve la causa della pace, è altresì indiscutibile che la «non-verità» va di pari passo con la causa della violenza e della guerra. Per «non-verità» bisogna intendere tutte le forme e tutti i livelli di assenza, di rifiuto, di disprezzo della verità: la menzogna propriamente detta, l'informazione parziale e deformata, la propaganda settaria, la manipolazione dei mezzi di comunicazione, e simili.

E' necessario passare qui in rassegna tutte le varie forme, sotto le quali si presenta questa «non-verità»? Basti indicarne qualche esempio soltanto. Poiché, se una legittima inquietudine si fa strada davanti alla proliferazione della violenza nella vita sociale, nazionale e internazionale, e davanti alle minacce manifeste contro la pace, l'opinione pubblica è spesso meno sensibile a tutte le forme di «non-verità», che stanno alla base della violenza e che a questa creano un terreno favorevole.

La violenza si radica nella menzogna e ha bisogno della menzogna, nel tentativo di assicurarsi una rispettabilità dinanzi all'opinione mondiale mediante giustificazioni del tutto estranee alla sua natura e, del resto, spesso tra loro contraddittorie. Che dire della pratica di imporre a coloro che non condividono le proprie posizioni - per meglio combatterli o ridurli al silenzio - l'etichetta di nemici, attribuendo loro intenzioni ostili, stigmatizzandoli come aggressori mediante una propaganda abile e costante?

Un'altra forma di «non-verità» si manifesta nel rifiuto di riconoscere e di rispettare i diritti oggettivamente legittimi e inalienabili di coloro che rifiutano di accettare una ideologia particolare, o che si appellano alla libertà di pensiero. Il rifiuto della verità ha luogo quando si prestano intenzioni aggressive a coloro i quali mostrano chiaramente che la loro unica preoccupazione è di proteggersi e di difendersi contro minacce reali, che - purtroppo - esistono sempre tanto all'interno di una nazione, quanto nei rapporti fra i popoli.

Accuse selettive, insinuazioni perfide, manipolazione delle informazioni, discredito gettato sistematicamente contro l'avversario - contro la sua persona, le sue intenzioni, i suoi atti -, ricatto e intimidazione: ecco il disprezzo della verità, messo in atto per creare un clima d'incertezza, nel quale si vogliono costringere le persone, i gruppi, i governi, le stesse istanze internazionali a silenzi rassegnati e complici, a compromessi parziali, a reazioni irrazionali: tutti atteggiamenti egualmente suscettibili di favorire il gioco omicida della violenza e di contrastare la causa della pace.

2. Alla base di tutte queste forme di «non-verità», come realtà che le alimenta e se ne alimenta, c'è una concezione errata dell'uomo e dei suoi dinamismi costitutivi. La prima menzogna, la falsità fondamentale è di non credere nell'uomo, nell'uomo in tutto il suo potenziale di grandezza, ma anche nel suo bisogno di redenzione dal male e dal peccato che è in lui.

Sostenuta da ideologie diverse, spesso opposte tra loro, va diffondendosi l'idea che l'uomo e l'umanità intera attuino il loro progresso soprattutto mediante la lotta violenta. Si è creduto di poter verificare una tale idea nella storia, o si è tentato abilmente di farne una teoria; ci si è pian piano abituati ad analizzare tutto - nella vita sociale come nella vita internazionale - esclusivamente in termini di rapporti di forza, e ad organizzarsi, di conseguenza, per imporre i propri interessi.

Certo, questa tendenza largamente diffusa a ricorrere alla prova di forza per far giustizia è spesso contenuta mediante tregue tattiche o strategiche. Tuttavia, finché si dà spazio alla minaccia, finché si sostengono selettivamente certe violenze utili a determinati interessi e ideologie, finche si mantiene la convinzione che il progresso della giustizia deriva in ultima analisi dalla lotta violenta, le sfumature, i freni e le selezioni cederanno periodicamente davanti alla logica semplice e brutale della violenza, che può giungere fino all'esaltazione suicida della violenza per la violenza.

La pace ha bisogno di sincerità e di verità

3. In una simile confusione degli spiriti, costruire la pace con le opere di pace è difficile e richiede la restaurazione della verità, se non si vuole che gli individui, i gruppi e le nazioni si mettano a dubitare della pace e consentano a nuove violenze.

Restaurare la verità significa, innanzitutto, chiamare con il loro nome gli atti di violenza, quali che siano le forme che assumono. Bisogna chiamare l'omicidio con il suo nome: l'omicidio è un omicidio, e le motivazioni politiche o ideologiche, lungi dal cambiarne la natura, vi perdono, piuttosto, esse stesse la loro dignità. Bisogna chiamare con il loro nome i massacri di uomini e di donne, qualunque sia la loro appartenenza etnica, la loro età e la loro condizione. Bisogna chiamare con il loro nome la tortura e, con le appropriate qualificazioni, tutte le forme di oppressione e di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, dell'uomo da parte dello Stato, di un popolo da parte di un altro popolo. Ciò bisogna fare, non per mettersi a posto la coscienza con denunce chiassose che fanno di tutto un fascio - in tal caso non si chiamano più le cose con il loro nome - né per stigmatizzare individui e popoli, ma per contribuire al cambiamento dei comportamenti e degli spiriti e per ridare alla pace le sue possibilità.

4. Promuovere la verità, come forza della pace, significa intraprendere uno sforzo costante per non utilizzare noi stessi, fosse pure a fin di bene, le armi della menzogna. La menzogna può infiltrarsi di soppiatto dappertutto. Per conservare durevolmente la sincerità - che è la verita con noi stessi - è necessario uno sforzo paziente, coraggioso per cercare e trovare la verità superiore ed universale sull'uomo, alla luce della quale potremo valutare le diverse situazioni, e ancora potremo giudicare, innanzitutto, noi stessi e la nostra sincerità. E' impossibile adagiarsi nel dubbio, nel sospetto, nel relativismo scettico, senza scivolare rapidamente nell'insincerità e nella menzogna. La pace - come ho detto sopra - è minacciata, quando regnano l'incertezza, il dubbio e il sospetto, e la violenza ne approfitta. Vogliamo veramente la pace? E' necessario allora scavare bene a fondo in noi stessi, per raggiungere quelle zone in cui - al di là delle divisioni che constatiamo in noi e tra di noi possiamo rafforzare la convinzione che i dinamismi propri dell'uomo, il riconoscimento della sua vera natura, lo portano all'incontro, al rispetto reciproco, alla fraternità e alla pace. Questa ricerca laboriosa della verità oggettiva e universale intorno all'uomo formerà, per il suo stesso procedere e per il suo risultato, uomini di pace e di dialogo, forti e insieme umili per una verità, della quale essi capiranno che bisogna servirla, e non già servirsene per interessi partigiani.

La verità illumina le vie della pace

5. Una delle menzogne della violenza consiste nel cercare, per giustificarsi, di screditare sistematicamente e radicalmente l'avversario, le sue azioni e le strutture socio-ideologiche, nelle quali egli opera e pensa. L'uomo di pace sa ben riconoscere la parte di verità che c'è in ogni opera umana e, più ancora, le possibilità di verità, che si trovano nell'intimo di ogni uomo.

Non è che il desiderio di pace gli faccia chiudere gli occhi sulle tensioni, le ingiustizie e le lotte, che fanno parte del nostro mondo. Egli le guarda in faccia, egli le chiama con il loro nome, per rispetto della verità. Inoltre, essendo sintonizzato profondamente con le cose della pace, egli non può che essere ancor più sensibile nei confronti di tutto ciò che contraddice la pace. Ciò lo spinge a portare avanti coraggiosamente l'indagine circa le cause reali del male e dell'ingiustizia, nell'intento di trovare per esse i rimedi appropriati. La verità è forza di pace, perché concepisce, quasi per una forma di connaturalità, gli elementi di verità che sono nell'altro e che essa cerca di riunire.

6. La verità non consente di disperare dell'avversario. L'uomo di pace, che essa ispira, non riduce l'avversario all'errore, nel quale lo vede soccombere. Al contrario, egli riduce l'errore alle sue reali proporzioni e fa appello alla ragione, al cuore e alla coscienza dell'uomo, per aiutarlo a riconoscere e ad accogliere la verità. Ciò conferisce alla denuncia delle ingiustizie una tonalità specifica: una denuncia siffatta non può sempre impedire che i responsabili delle ingiustizie non si irrigidiscano davanti alla verità chiaramente manifestata; tuttavia, almeno, essa non provoca sistematicamente un irrigidimento tale di cui le vittime facciano sovente le spese. Una delle grandi menzogne che avvelenano le relazioni tra individui e gruppi, per meglio stigmatizzare l'errore dell'avversario, consiste nel non prendere in considerazione tutti gli aspetti, anche giusti e buoni, della sua azione. La verità percorre altre strade, ed è per questo che essa conserva alla pace tutte le sue reali possibilità.

7. Soprattutto, la verità permette di non disperare delle vittime dell'ingiustizia; essa non permette di spingerle alla disperata risorsa della rassegnazione o della violenza. Essa stimola a puntare, anche qui sulle forze di pace nascoste negli uomini e nei popoli che soffrono. Essa crede che, confermandoli nella coscienza della loro dignità e dei loro diritti imprescrittibili, li rende forti, così da sottoporre le forze oppressive a delle spinte efficaci di trasformazione, più efficaci di quelle fiammate di violenza, che in genere poi non producono nulla, se non un futuro di sofferenze ancora più grandi. E' con questa convinzione che io non cesso di proclamare la dignità e i diritti della persona. D'altronde - come ho scritto nell'enciclica «Redemptor Hominis» - la logica della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e la stessa istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite tendono «a creare una base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio da quest'unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell'uomo: diciamo della persona nella comunità» (Giovanni Paolo II, «Redemptor Hominis», 17 § 4). L'uomo di pace, poiché attinge alla luce della verità e della sincerità, ha dunque una lucida visione delle ingiustizie, delle tensioni e dei conflitti esistenti. Ma, anziché esacerbare le frustrazioni e le lotte, egli confida nelle facoltà superiori dell'uomo, nella sua ragione e nel suo cuore, così da inventare cammini di pace che conducano ad un risultato veramente umano e duraturo.

La verità rafforza i mezzi della pace

8. Per passare da una situazione meno umana ad una situazione più umana, sia nella vita nazionale che in quella internazionale, la strada è lunga e vi si procede a tappe. L'uomo di pace lo sa, lo dice, e proprio nello sforzo di verità che ho or ora descritto, trova la luce necessaria per mantenere il giusto orientamento. Anche l'uomo di violenza lo sa, ma non lo dice e inganna l'opinione pubblica, facendole balenare la prospettiva di una soluzione radicale e rapida, installandosi poi nella sua menzogna per «spiegare» l'incessante rinvio dei traguardi della libertà promessa e dell'abbondanza assicurata.

Non c'è pace, se non c'è una disponibilità al dialogo sincero e continuo. La verità stessa si fa nel dialogo, ed essa rafforza, pertanto, questo indispensabile strumento di pace. Né la verità ha paura di oneste intese, poiché essa porta con sé quei lumi che permettono di impegnarvisi, senza sacrificare convinzioni e valori essenziali. La verità avvicina gli spiriti; essa rivela ciò che già unisce le parti, prima in contrasto tra loro; essa fa indietreggiare le diffidenze di ieri e prepara il terreno per nuovi progressi nella giustizia e nella fraternità, nella coabitazione pacifica di tutti gli uomini.

In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il problema della corsa agli armamenti. La situazione, in cui vive oggigiorno l'umanità, sembra includere una tragica contraddizione tra le molteplici e ferventi dichiarazioni in favore della pace da una parte, e dall'altra la non meno reale, anzi vertiginosa scalata agli armamenti. L'esistenza di questa corsa agli armamenti può anche gettare il sospetto di menzogna e d'ipocrisia su certe affermazioni di una volontà di coesistenza pacifica. Anzi, non può forse essa anche giustificare spesso la semplice impressione che tali affermazioni servano soltanto a mascherare intenzioni opposte?

9. Non si possono denunciare con sincerità i ricorsi alla violenza, se correlativamente non ci si dedica ad occupare il terreno con iniziative politiche coraggiose, al fine di eliminare le minacce alla pace, applicandosi alle radici delle ingiustizie. La verità profonda della politica è contraddetta, sia quando la politica si accomoda nella passività, sia quando s'indurisce e si trasforma in violenza. In politica, fare la verità che rafforza la pace significa avere il coraggio di mettere in luce per tempo le controversie latenti, riaprire al momento opportuno i «dossiers» riguardanti problemi momentaneamente sospesi, mediante leggi e accordi che servano ad evitare la loro esasperazione. Fare la verità significa pure avere il coraggio di prevedere l'avvenire: prendere in considerazione le nuove aspirazioni, compatibili con il bene, che sorgono negli individui e nei popoli con il progresso della cultura, al fine di adattare le istituzioni nazionali e internazionali alla realtà di una umanità in cammino.

Un campo immenso, dunque, si apre ai responsabili degli Stati e alle Istituzioni Internazionali per costruire un nuovo ordine mondiale più giusto, fondato sulla verità dell'uomo, basato su una giusta ripartizione sia delle ricchezze, che dei poteri e delle responsabilità.

Sì, questa è la mia convinzione: la verità rafforza la pace dall'interno, mentre un clima di più grande sincerità permette di mobilitare energie umane per la sola causa degna di esse: il pieno rispetto della verità circa la natura e il destino dell'uomo, fonte della vera pace nella giustizia e nell'amicizia.

Per i cristiani: la verità del Vangelo

10. Costruire la pace è interesse di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Infatti, tutti, essendo dotati di cuore e di intelligenza e fatti ad immagine di Dio, sono capaci di fare uno sforzo di verità e di sincerità a sostegno della pace. A questo comune lavoro io invito i cristiani affinché diano il contributo specifico del Vangelo, il quale conduce alle sorgenti profonde della verità, cioè al Verbo di Dio Incarnato.

Il Vangelo mette in forte rilievo il legame che esiste tra la menzogna e la violenza omicida con le parole di Cristo: «Ora, invece, cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio... Voi fate le opere del padre vostro..., voi che avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,40.41.44). Ecco perché ho potuto dire con molta convinzione a Drogheda, in Irlanda, e ripeto ancora: «La violenza è una menzogna, perché va contro la verità della nostra fede, la verità della nostra umanità... Non confidate nella violenza; non sostenete la violenza. Essa non è la via cristiana; non è il cammino della Chiesa Cattolica. Credete nella pace, nel perdono e nell'amore: questi appartengono a Cristo» («Omelia presso Drogheda», 29 settembre 1979, nn. 9-10: AAS 71 [1979] 1081-1082).

Sì, il Vangelo di Cristo è un Vangelo di pace: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). E la molla della pace evangelica è la verità. Gesù rivela all'uomo la sua completa verità; egli lo restaura nella sua verità, riconciliandolo con Dio, riconciliandolo con se stesso, riconciliandolo con gli altri. La verità è la forza della pace, perché essa rivela e compie l'unità dell'uomo con Dio, con se stesso, con gli altri. La verità, che rafforza la pace e che costruisce la pace, include costitutivamente il perdono e la riconciliazione. Rifiutare il perdono e la riconciliazione vuol dire mentire a se stessi ed entrare nella logica omicida della menzogna.

Appello finale

11. Io so che ogni uomo di buona volontà può comprendere tutto ciò nella sua esperienza personale, quando ascolta la voce profonda del suo cuore. Ecco perché rivolgo il mio invito a tutti, a tutti voi che volete rafforzare la pace rendendole il suo contenuto di verità che dissipa tutte le menzogne: sappiate condividere lo sforzo di riflessione e di azione, che io vi propongo in questa XIII Giornata Mondiale della Pace, interrogandovi circa la vostra disponibilità al perdono e alla riconciliazione, e facendo, nel campo delle vostre responsabilità familiari, sociali e politiche, dei gesti di perdono e di riconciliazione. Voi così farete la verità, e la verità vi renderà liberi (cfr. Ef 4,15 e Gv 8,32). La verità libererà lumi ed energie insospettate aprendo così nuove possibilità alla pace nel mondo.

8 dicembre 1979

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PER SERVIRE LA PACE RISPETTA LA LIBERTA'

1 gennaio 1981

A tutti voi, artefici della pace, a voi, responsabili delle nazioni, a voi, fratelli e sorelle, cittadini del mondo, a voi, giovani, che arditamente sognate un mondo migliore!

E' a tutti voi, uomini e donne di buona volontà, che oggi io mi rivolgo per invitarvi, in occasione della XIV giornata mondiale della pace, a riflettere sulla situazione del mondo e sulla grande causa della pace. Ciò faccio spinto da una forte convinzione, cioè che la pace è possibile, ma che essa è pure una continua conquista, un bene che va realizzato mediante sforzi incessantemente rinnovati. Ogni generazione avverte in modo nuovo la permanente esigenza della pace, al confronto con i problemi quotidiani della sua esistenza. Sì, è ogni giorno che l'ideale della pace deve essere tradotto in realtà concreta da ciascuno di noi.

Per servire la pace, rispetta la libertà

1. Se oggi io vi presento, quale oggetto della vostre riflessioni, il tema della libertà, lo faccio nella linea tracciata da Papa Giovanni XXIII nella sua enciclica «Pacem in Terris», quando egli propose la libertà come uno dei «quattro pilastri, che sostengono l'edificio della pace». La libertà risponde ad un'aspirazione profonda e molto diffusa nel mondo contemporaneo, come attesta, tra l'altro, l'uso frequente che si fa del termine stesso di «libertà», anche se esso non è sempre impegato nello stesso senso dai credenti e dagli atei, dagli scienziati e dagli economisti, da coloro che vivono in una società democratica e da coloro che subiscono un regime totalitario. Ognuno gli conferisce un accento speciale e persino un significato profondamente diverso. Cercando di svolgere il nostro servizio alla pace, è dunque del tutto necessario che comprendiamo qual è la vera libertà, che è insieme radice e frutto della pace.

Condizionamenti attuali, che richiedono un riesame

2. La pace deve realizzarsi nella verità; deve costruirsi sulla giustizia; deve essere animata dall'amore; deve farsi nella libertà (cfr. Ioannis XXIII «Pacem in Terris»). Senza un rispetto profondo ed esteso della libertà, la pace sfuggirà all'uomo. Non abbiamo che da guardare attorno a noi per convincercene. Infatti, il panorama che si apre ai nostri occhi in questo inizio degli anni ottanta, sembra poco rassicurante, anche se tanti uomini e donne, semplici cittadini o dirigenti responsabili, si preoccupano vivamente della pace, e spesso fino all'angoscia. La loro aspirazione non trova la propria attuazione in una pace vera, a motivo dell'assenza o della violazione della libertà, o ancora in ragione del modo ambiguo o erroneo con cui essa è esercitata.

Infatti, quale può essere la libertà delle nazioni, la cui esistenza, le cui aspirazioni e reazioni sono condizionate dal timore anziché dalla mutua fiducia, dall'oppressione anziché dal libero perseguimento del loro bene comune? La libertà è ferita, quando i rapporti tra i popoli sono fondati non sul rispetto dell'eguale dignità di ciascuno, ma sul diritto del più forte, sulla posizione dei blocchi dominanti e su imperialismi militari o politici. La libertà delle nazioni è ferita, quando le nazioni piccole sono costrette ad allinearsi a quelle grandi per veder assicurato il loro diritto alla esistenza autonoma o la loro sopravvivenza. La libertà è ferita, quando il dialogo tra «partners» uguali non è più possibile a motivo di domini economici o finanziari, esercitati da nazioni privilegiate e forti.

E all'interno di una nazione, sul piano politico, la pace ha forse una reale possibilità di riuscita, quando la libera partecipazione alle decisioni collettive o il libero godimento delle libertà individuali non sono garantiti? Non c'è vera libertà - fondamento della pace - quando tutti i poteri sono concentrati nelle mani di una sola classe sociale, di una sola razza, di un solo gruppo, o quando il bene comune viene confuso con gli interessi di un solo partito che si identifica con lo Stato. Non c'è vera libertà, quando le libertà degli individui sono assorbite da una collettività, «negando ogni trascendenza all'uomo e alla sua storia, personale e collettiva» (Pauli VI «Octogesima Adveniens», 26). La vera libertà è pure assente, quando forme diverse di anarchia eretta a teoria conducono a rifiutare o a contestare sistematicamente ogni autorità, giungendo infine ai terrorismi politici o a violenze cieche, sia spontanee che organizzate. Così pure non c'è vera libertà, quando la sicurezza interna è eretta a norma unica e suprema dei rapporti tra l'autorità ed i cittadini, come se essa fosse il solo o il principale mezzo per mantenere la pace. Non si può ignorare, in questo contesto, il problema della repressione sistematica o selettiva - accompagnata da assassini e torture, da sparizioni e da esili - di cui sono vittime tante persone, compresi Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici cristiani, impegnati nel servizio del prossimo.

3. Sul piano sociale, è difficile qualificare come veramente liberi gli uomini e le donne che non hanno la garanzia di un impiego onesto e rimunerativo o che, in tanti villaggi rurali, rimangono ancora sottoposti a spiacevoli servitù, ereditate talvolta da un passato di dipendenza o da una mentalità coloniale. Parimenti non v'è libertà sufficiente per quegli uomini e quelle donne che, in conseguenza di un incontrollato sviluppo industriale, urbano o burocratico, si sentono presi in un gigantesco ingranaggio, in un insieme di meccanismi non voluti o non padroneggiati, che non lasciano più lo spazio necessario per uno sviluppo sociale degno dell'uomo. La libertà è, del resto, ridotta più di quanto non appaia in una società che si lascia guidare dal dogma della crescita materiale indefinita, dalla corsa all'avere o dalla corsa agli armamenti. La crisi economica attuale, che raggiunge tutte le società, rischia di provocare, se non è messa a confronto con postulati d'un altro ordine, delle misure che restringeranno ulteriormente lo spazio di libertà, di cui la pace ha bisogno per sbocciare e fiorire.

A livello dello spirito, la libertà può ancora subire manipolazioni di vario genere. Ciò avviene quando i mezzi di comunicazione sociale abusano del loro potere senza preoccuparsi della rigorosa oggettività. Ciò avviene pure quando si ricorre a procedimenti psicologici senza riguardo alla dignità della persona. Per altro verso, la libertà resterà decisamente incompleta, o almeno di difficile esercizio, presso gli uomini, le donne ed i bambini, per i quali l'analfabetismo costituisce una specie di schiavitù quotidiana in una società che suppone la cultura.

Alle soglie dell'anno 1981, dichiarato dalle Nazioni Unite come anno della persona handicappata, è infine opportuno includere in questo quadro i nostri fratelli e sorelle che sono stati colpiti nella loro integrità fisica o spirituale. La nostra società è forse sufficientemente consapevole del suo dovere di fornir loro i mezzi che li abilitino a partecipare più liberamente alla vita in comune, ad aver accesso, in piena dignità, ad uno sviluppo umano corrispondente ai loro diritti di persone ed alle loro possibilità?

Positivi sforzi già avviati e meritevoli realizzazioni

4. Ma, accanto a questi esempi tipici, in cui certi condizionamenti più o meno gravi si oppongono al giusto dispiegamento della libertà (condizionamenti che pur potrebbero essere cambiati), vi è anche un altro aspetto, positivo questa volta, nel quadro del mondo contemporaneo alla ricerca della pace nella libertà. E' l'immagine di una folla di uomini e di donne che credono in questo ideale, che si impegnano a mettere la libertà al servizio della pace, a rispettarla, a promuoverla, a rivendicarla e a difenderla, e che sono disposti agli sforzi ed anche ai sacrifici che questo impegno richiede. Io penso a tutti coloro, capi di Stato e di governo, uomini politici, funzionari internazionali e responsabili civili a tutti i livelli, che si sforzano di rendere accessibili a tutti le libertà solennemente proclamate. Il mio pensiero va anche a tutti quegli uomini e donne che sanno che la libertà è indivisibile e che, di conseguenza, non si stancano di individuare, in tutta oggettività, nelle situazioni cangianti, gli attentati alla libertà nell'ambito della vita personale, della famiglia, della cultura, dello sviluppo socio-economico e della vita politica. Penso poi agli uomini ed alle donne di ogni parte del mondo, innamorati di una solidarietà senza frontiere, per i quali è impossibile, in una civiltà divenuta mondiale, isolare le loro proprie libertà da quelle che i loro fratelli e sorelle in altri continenti si sforzano di conquistare o di salvaguardare. E penso specialmente ai giovani, i quali credono che non si diventa veramente liberi, se non sforzandosi di procurare agli altri la medesima libertà.

Il radicamento della libertà nell'uomo

5. La libertà nella sua essenza è interna all'uomo, connaturale alla persona umana, ed è segno distintivo della sua natura. La libertà della persona trova in effetti il proprio fondamento nella sua dignità trascendente: una dignità che ad essa è stata donata da Dio, suo creatore, e che la orienta verso Dio. L'uomo, in quanto creato ad immagine di Dio (cfr. Gen 1,27), è inseparabile dalla libertà, da quella libertà che nessuna forza o costrizione esterna potrà mai sottrarre e che costituisce un suo diritto fondamentale, sia come individuo che come membro della società. L'uomo è libero perché possiede la facoltà di autodeterminarsi in funzione del vero e del bene. Egli è libero perché possiede la facoltà di scegliere, «mosso e indotto da convinzioni personali, e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna» («Gaudium et Spes», 17). Essere libero significa potere e volere scegliere, significa vivere secondo la propria coscienza.

Promuovere uomini liberi in una società libera

6. L'uomo deve, dunque, poter fare le sue scelte in funzione dei valori, ai quali concede la propria adesione; egli si mostrerà in ciò responsabile, ed è compito della società favorire questa libertà, tenendo conto del bene comune.

Il primo di tali valori ed il più fondamentale è sempre la sua relazione con Dio, espressa nelle convinzioni religiose. La libertà religiosa diventa in tal modo la base delle altre libertà. Alla vigilia della riunione di Madrid sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, ho potuto ripetere ciò che non ho smesso di affermare fin dall'inizio del mio ministero: «La libertà di coscienza e di religione... è... un diritto primario e inalienabile della persona; ed anzi, nella misura in cui essa attinge la sfera più intima dello spirito, si può dire persino che essa sostiene la ragion d'essere, intimamente ancorata in ogni persona, delle altre libertà» («La libertà religiosa e l'atto finale di Helsinki», 5; cfr. «L'Osservatore Romano», die 15 nov. 1980).

Le diverse istanze responsabili nella società devono rendere possibile l'esercizio della vera libertà in tutte le sue manifestazioni. Esse devono cercare di garantire ad ogni uomo e ad ogni donna la possibilità di realizzare pienamente il proprio potenziale umano. Esse devono riconoscere loro uno spazio autonomo, giuridicamente protetto, affinché ogni essere umano possa vivere, da solo o in comunità, secondo le esigenze della sua coscienza. Una tale libertà è, d'altronde, invocata dai più importanti documenti e patti internazionali, quali la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e le convenzioni internazionali relative allo stesso argomento, come pure dalla maggior parte delle costituzioni politiche nazionali. E' solo questione di giustizia, perché lo Stato, in quanto portatore del mandato avuto dai cittadini, deve non solamente riconoscere le libertà fondamentali delle persone, ma anche proteggerle e promuoverle. Lo Stato esplicherà questa positiva funzione rispettando la norma del diritto e cercando il bene comune secondo le esigenze della legge morale. Analogamente, i gruppi intermedi, liberamente costituiti, contribuiranno a loro modo alla difesa ed alla promozione delle libertà. Questo nobile compito riguarda tutte le forze vive della società.

7. Ma la libertà non è solamente un diritto che si reclama per sé: è anche un dovere che si assume nei riguardi degli altri. Per servire veramente la causa della pace, la libertà di ogni essere umano e di ogni comunità umana deve rispettare le libertà e i diritti degli altri, individuali o collettivi. In questo rispetto essa trova il suo limite, ma anche la sua logica e la sua dignità, perché l'uomo è per sua natura un essere sociale.

In effetti, certe forme di «libertà» non meritano questo nome, e bisogna vigilare per difendere la libertà contro certe contraffazioni di tipo diverso. Ad esempio, la società dei consumi - questo eccesso di beni non necessari all'uomo - può costituire, in un certo senso, un abuso di libertà, quando la ricerca sempre più insaziabile dei beni non è sottoposta alla legge della giustizia e dell'amore sociale. Un tale esercizio del consumismo provoca di fatto una limitazione dell'altrui libertà, ed anche nella prospettiva della solidarietà internazionale lede intere società, che non possono disporre del minimo necessario per i propri bisogni essenziali. L'esistenza nel mondo di zone di povertà assoluta, l'esistenza della fame e della denutrizione non possono non porre un pressante interrogativo ai paesi che si sono sviluppati liberamente, senza tener conto di quelli che non possedevano neppure il minimo e forse, talvolta, a loro spese. Si potrebbe anche affermare che all'interno dei paesi ricchi, la ricerca incontrollata dei beni materiali e di ogni tipo di comodità offre solo in apparenza maggiore libertà a coloro che ne beneficiano, perché essa propone come valore umano fondamerltale il possesso delle cose, invece di considerare un certo benessere materiale come condizione e mezzo per un pieno sviluppo dei talenti dell'uomo, in collaborazione ed in armonia con i propri simili.

Allo stesso modo, una società costruita su una base puramente materialista nega all'uomo la libertà, quando sottomette le libertà individuali alle leggi economiche, quando reprime la creatività spirituale dell'uomo in nome di una falsa armonia ideologica, quando rifiuta agli uomini l'esercizio del diritto di associazione, quando riduce praticamente a nulla la possibilità di partecipare alla vita pubblica o in questo campo agisce in modo tale che l'individualismo e l'assenteismo, civico o sociale, finiscono col divenire un comportamento generale.

Infine, la vera libertà non è promossa nemmeno nella società permissiva, la quale confonde la libertà con la licenza di fare qualunque scelta e proclama, in nome della libertà, una specie di amoralismo generale. Pretendere che l'uomo sia libero di organizzare la sua esistenza senza riferimento ai valori morali e che la società non abbia il compito di garantire la protezione e la promozione dei valori etici, significa proporre una caricatura della libertà. Un tale atteggiamento comporta la distruzione della libertà e della pace. Vi sono molti esempi di tale concezione errata della libertà, come l'eliminazione della vita umana mediante l'aborto accettato o legalizzato.

Promuovere popoli liberi in un mondo libero

8. Il rispetto della libertà dei popoli e delle nazioni è una parte integrante della pace. Le guerre non hanno cessato di scoppiare, e la distruzione ha colpito popoli e culture intere, perché non era stata rispettata la sovranità di un popolo o di una nazione. Tutti i continenti sono stati testimoni ed insieme vittime di guerre e di lotte fratricide, causate dal tentativo di una nazione di limitare l'autonomia di un'altra. Ci si può perfino domandare se la guerra non rischi di diventare - o di rimanere - un dato normale della nostra civiltà, con dei conflitti armati «limitati», che si trascinano per le lunghe, senza che l'opinione pubblica si allarmi, o con l'avvicendarsi di guerre civili. Le cause dirette o indirette sono molteplici e complesse: l'espansionismo territoriale, l'imperialismo ideologico, per il cui trionfo si ammucchiano armi di distruzione totale, lo sfruttamento economico da perpetrare, l'ossessione della sicurezza nazionale, le differenze etniche utilizzate dai mercanti di armi, e molti altri motivi ancora. Quale che ne sia la ragione, queste guerre contengono elementi d'ingiustizia, di disprezzo o di odio, e di violazione della libertà. Questo ho sottolineato, lo scorso anno, dinanzi all'assemblea generale delle Nazioni Unite: «Lo spirito di guerra, nel suo primitivo e fondamentale significato, spunta e matura laddove gli inalienabili diritti dell'uomo vengono violati. Questa è una nuova visuale, profondamente attuale, più profonda e più radicale, della causa della pace. E' una visuale che vede la genesi della guerra e, in certo senso, la sua sostanza nelle forme più complesse che derivano dall'ingiustizia, considerata sotto tutti gli aspetti, la quale prima attenta ai diritti dell'uomo, rompendo così l'organicità dell'ordine sociale, e si ripercuote in seguito su tutto il sistema dei rapporti internazionali» (Ioannis Pauli PP. II «Allocutio ad Nationum Unitarum legatos», 11, die 2 oct. 1979: «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», II,2 [1979] 530).

9. Senza la volontà di rispettare la libertà di ogni popolo, di ogni nazione o cultura, e senza un consenso globale a questo riguardo, sarà difficile creare le condizioni della pace. E' necessario, pertanto, avere il coraggio di ben considerarle. Ciò suppone da parte di ciascuna nazione e dei suoi governanti, un impegno cosciente e pubblico a rinunciare alle rivendicazioni ed ai disegni che siano pregiudizievoli per altre nazioni; in altre parole, ciò comporta il rifiuto di sottoscrivere qualunque dottrina di predominio nazionale o culturale. Occorre, altresì, la volontà di rispettare gli «itinerari» interni delle altre nazioni, riconoscere la loro personalità in seno alla famiglia umana, ed esser pronti quindi a rimettere in causa ed a correggere qualunque politica che, nel campo economico, sociale e culturale, costituisca di fatto un'ingerenza o uno sfruttamento. In questo contesto, vorrei particolarmente insistere perché la comunità delle nazioni s'impegni maggiormente nell'aiutare le nazioni giovani o ancora in via di sviluppo a raggiungere la piena capacità di disporre delle proprie ricchezze e l'autosufflcienza in materia alimentare e per i bisogni vitali essenziali. Io raccomando vivamente ai paesi ricchi di orientare la loro preoccupazione ed il loro aiuto, prima di tutto, ad eliminare attivamente l'estrema povertà.

La messa a punto di strumenti giuridici ha la sua importanza nel miglioramento dei rapporti tra le nazioni. Perché sia rispettata la libertà, occorre anche contribuire alla codificazione progressiva delle concrete conseguenze che derivano dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. In tale rispetto dell'identità dei popoli, vorrei includere in particolare il diritto per ciascun popolo di vedere rispettate le proprie tradizioni religiose sia al suo interno che dalle altre nazioni, nonché il diritto di partecipare a libere relazioni in campo religioso, culturale, scientifico ed educativo.

In un clima di fiducia e di responsabilità

10. La migliore garanzia della libertà e della sua effettiva realizzazione poggia sulla responsabilità delle persone e dei popoli, sugli sforzi che ciascuno compie al proprio livello, nel suo ambiente immediato, sul piano nazionale ed internazionale. Perché la libertà non è un regalo: essa dev'essere incessantemente conquistata. Essa cammina di pari passo col senso della responsabilità, che grava su ciascuno. Non si possono rendere liberi gli uomini, senza renderli al tempo stesso più coscienti delle esigenze del bene comune e più responsabili.

Per tutto ciò, è necessario far sorgere e consolidare un clima di mutua fiducia, senza il quale la libertà non può dispiegarsi. E' evidente per tutti che ciò costituisce la condizione indispensabile della vera pace e la sua prima espressione. Ma, come la libertà e come la pace, questa fiducia non è un regalo: essa deve essere acquistata, essa deve essere meritata. Quando un individuo non assume la sua responsabilità per il bene comune, quando una nazione non si sente corresponsabile della sorte del mondo, la fiducia è compromessa. A maggior ragione ciò vale quando si strumentalizzano gli altri per i propri fini egoistici, o semplicemente se ci si abbandona a manovre dirette a far prevalere i propri interessi sugli interessi legittimi degli altri. Solo la fiducia, meritata mediante azioni concrete in favore del bene comune, renderà possibile, tra le persone e le nazioni, il rispetto della libertà che è un servizio della pace.

La libertà dei figli di Dio

11. Al momento di concludere, mi permetterete di rivolgermi in maniera speciale a coloro che sono a me uniti nella fede di Cristo. L'uomo non può essere autenticamente libero, né promuovere la vera libertà, se non riconosce e non vive la trascendenza del suo essere sul mondo e la sua relazione con Dio, perché la libertà è sempre quella dell'uomo creato ad immagine del suo Creatore. Il cristiano trova nel Vangelo l'appoggio e l'approfondimento di questa convinzione. Cristo, redentore dell'uomo, rende liberi. L'apostolo Giovanni scrive: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36). E l'apostolo Paolo aggiunge: «Dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà» (2Cor 3,17). Essere liberati dall'ingiustizia, dalla paura, dall'oppressione, dalla sofferenza non servirebbe a nulla, se si rimanesse schiavi nel profondo del cuore, cioè schiavi del peccato. Per essere veramente libero, l'uomo deve essere liberato da questa schiavitù e trasformato in una creatura nuova. La libertà radicale dell'uomo si colloca così su un piano più profondo: quello dell'apertura verso Dio mediante la conversione del cuore, perché è nel cuore dell'uomo che affondano le radici di ogni assoggettamento e di ogni violazione della libertà. Finalmente, per il cristiano la libertà non deriva dall'uomo stesso: essa si manifesta nell'obbedienza alla volontà di Dio e nella fedeltà al suo amore. E' allora che il discepolo di Cristo trova la forza di lottare per la libertà in questo mondo. Di fronte alle difflcoltà di un tale impegno, egli non si lascerà trascinare all'inerzia né allo scoraggiamento, perché ripone la sua speranza in Dio, il quale sostiene e fa fruttificare ciò che si compie secondo il suo Spirito.

La libertà è la misura della maturità di un uomo e di una nazione. Per questo, non posso terminare il presente messaggio senza rinnovare l'appello pressante, che vi ho rivolto all'inizio: come la pace, la libertà è uno sforzo da ripetere senza posa per donare all'uomo la sua piena umanità. Non aspettiamo la pace dall'equilibrio del terrore. Non accettiamo la violenza come via alla pace. Cominciamo, piuttosto, col rispettare la vera libertà: la pace, che ne risulterà, sarà tale da soddisfare l'attesa del mondo, perché essa sarà fatta di giustizia e sarà fondata sull'incomparabile dignità dell'uomo libero.

Dal Vaticano, 8 dicembre 1980.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE, DONO DI DIO AFFIDATO AGLI UOMINI

1 gennaio 1982

 

Ai giovani,
che saranno domani i responsabili delle grandi decisioni nel mondo,

Agli uomini ed alle donne,
che sono oggi i responsabili della vita sociale,

Alle famiglie ed agli educatori agli individui ed alle comunità,

Ai Capi delle nazioni e dei governi,

E' a tutti voi che rivolgo il presente Messaggio all'alba dell'anno 1982, invitandovi a riflettere con me sul tema della nuova Giornata Mondiale: la pace, dono di Dio affidato agli uomini.

1. Questa verità si leva dinanzi a noi, quando si tratta di definire i nostri impegni e di prendere le nostre decisioni. Essa interpella l'umanità intera, tutti gli uomini e tutte le donne che sanno di essere responsabili gli uni degli altri e, solidalmente, del mondo.

Già alla fine della prima guerra mondiale, il mio predecessore, il Papa Benedetto XV consacrò un'enciclica a questo tema. Compiacendosi per la cessazione delle ostilità e insistendo sulla necessità di sedare gli odi e le inimicizie in una riconciliazione ispirata dalla mutua carità, egli iniziava la sua enciclica con queste parole: «Ecco la pace, questo magnifico dono di Dio, che, come dice sant'Agostino, "è tra i beni passeggeri della terra il più dolce di cui si possa parlare, il più desiderabile che si possa bramare, il migliore che si possa trovare" («De Civitate Dei» I, XIX, c. 11) («Pacem Dei munus» AAS 12 [1920] 209).

Sforzi per la pace in un mondo lacerato

2. Dopo di allora, molte volte i miei predecessori hanno dovuto richiamare questa verità nel loro sforzo costante di educazione alla pace e di incoraggiamento a lavorare per una pace duratura. Oggi la pace è diventata nel mondo intero una preoccupazione maggiore non soltanto per i responsabili della sorte delle nazioni, ma soprattutto per ampi settori delle popolazioni e per innumerevoli individui, che si consacrano con generosità e tenacia a creare una mentalità di pace e ad instaurare una vera pace tra i popoli e le nazioni. E' questa, certo, una realtà confortante. Ma non ci si può nascondere che, malgrado gli sforzi dispiegati da tutti gli uomini e da tutte le donne di buona volontà, gravi minacce continuano a pesare sulla pace nel mondo. Tra queste minacce, alcune assumono la forma di lacerazioni all'interno di molte nazioni; altre provengono da tensioni profonde e acute tra nazioni e blocchi contrapposti all'interno della comunità mondiale.

A dire il vero, i vari contrasti, di cui siamo oggi testimoni, si differenziano da quelli ricordati dalla storia per alcune caratteristiche nuove. Si nota, innanzitutto, la loro globalità: anche se localizzato, un conflitto è spesso l'espressione di tensioni che hanno la loro origine altrove nel mondo. Così pure accade spesso che un conflitto abbia delle risonanze profonde lontano dal luogo in cui e scoppiato. Si può parlare ancora di totalità: le tensioni attuali mobilitano tutte le forze delle nazioni e, d'altra parte, il loro accaparramento a proprio vantaggio ed anche l'ostilità si esprimono oggi sia nel tenore della vita economica o nelle applicazioni tecnologiche, sia nell'uso dei mass-media o nel campo militare. Bisogna, infine, sottolineare il loro carattere radicale: la posta in gioco dei conflitti e la sopravvivenza stessa dell'umanità intera, a motivo della capacità distruttiva degli attuali arsenali militari.

In conclusione, mentre tanti fattori favoriscono l'integrazione degli uomini, la società appare come un mondo lacerato, nel quale sulle forze di unione predominano le divisioni est-ovest, nord-sud, amico-nemico.

Un problema essenziale

3. Le cause di tale situazione sono - s'intende - complesse e di ordine diverso. Le cause politiche sono ovviamente più facili da discernere. Gruppi particolari abusano del loro potere per imporre il loro giogo a intere società. Mosse da un desiderio smodato di espansione, alcune nazioni giungono a costruire la loro prosperità a dispetto, cioè a spese del benessere delle altre. Il nazionalismo sfrenato alimenta così dei progetti di egemonia, nel quadro dei quali i rapporti con le altre nazioni sembrano stretti in un'alternativa spietata: o satellizzazione e dipendenza, oppure competizione e ostilità. Una più approfondita analisi porta a scoprire la causa di tale situazione nell'applicazione di certe concezioni e ideologie, che pretendono di offrire il solo fondamento della verità intorno all'uomo, alla vita sociale ed alla storia.

Davanti al dilemma «pace o guerra», l'uomo si ritrova, pertanto, confrontato con sé stesso, con la sua natura, col suo progetto di vita personale e comunitaria, con l'uso della sua libertà. I rapporti tra gli uomini si dovrebbero, forse, svolgere inesorabilmente sul filo dell'incomprensione e delle tensioni senza pietà, in forza di una legge fatale dell'esistenza umana? Oppure gli uomini - in rapporto alle specie animali, che lottano tra di loro secondo la «legge della giungla» - hanno la specifica vocazione e la radicale possibilità di vivere in rapporti pacifici con i loro simili, di partecipare con essi alla creazione della cultura, della società, della storia? L'uomo, in definitiva, quando si interroga sulla pace, è portato ad interrogarsi sul senso e sulle condizioni della propria esistenza, personale e comunitaria.

La pace, dono di Dio

4. La pace non è tanto un equilibrio superficiale tra interessi materiali divergenti - che sarebbe secondo l'ordine della quantità, della tecnica -, ma piuttosto, nella sua realtà profonda, un bene di ordine essenzialmente umano, proprio dei soggetti umani e, dunque, di natura razionale e morale, frutto della verità e della virtù. Essa risulta dal dinamismo delle volontà libere, guidate dalla ragione verso il bene comune da raggiungere nella verità, nella giustizia e nell'amore. Questo ordine razionale e morale poggia precisamente sulla decisione della coscienza degli esseri umani alla ricerca di un'armonia nei loro rapporti reciproci, nel rispetto della giustizia per tutti e, quindi, dei diritti umani fondamentali inerenti a ciascuna persona. Non si vede come un tale ordine morale potrebbe prescindere da Dio, che è fonte primaria dell'essere, verità essenziale e bene supremo.

Già in questo senso, la pace viene da Dio come dal suo fondamento: essa è un dono di Dio. Appropriandosi delle ricchezze e delle risorse dell'universo elaborate dal genio umano ed è spesso a motivo di esse che sono nati i conflitti e le guerre «l'uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della "natura", e cioè in definitiva da parte del Creatore» («Laborem Exercens», 12). E Dio non è soltanto colui che dona il creato all'umanità per gestirlo e svilupparlo in termini di solidarietà, al servizio di tutti gli uomini senza discriminazione; egli è pure colui che inscrive nella coscienza dell'uomo le leggi che lo obbligano a rispettare, in vari modi, la vita e tutta la persona del suo prossimo, creata come lui ad immagine e somiglianza di Dio, al punto che Dio stesso è il garante di tutti questi diritti umani fondamentali. Sì, Dio è veramente la fonte della pace: egli chiama alla pace, egli la garantisce, egli la dona come «frutto della giustizia».

Più ancora, egli aiuta interiormente gli uomini a realizzarla o a ritrovarla. In effetti, l'uomo, nella sua esistenza limitata e soggetta all'errore ed al male, va alla ricerca del bene della pace come a tentoni, incontrando molte difficoltà. Le sue facoltà sono offuscate da apparenze di verità, attirate da falsi beni e deviate da istinti irrazionali ed egoistici. Di qui la necessità per lui di aprirsi alla luce trascendente di Dio, che si proietta nella sua vita, la purifica dall'errore e la libera dalle passioni aggressive. Dio non è lontano dal cuore dell'uomo che lo prega e cerca di praticare la giustizia; in continuo dialogo con lui, nella libertà, egli gli presenta il bene della pace come la pienezza della comunione di vita con Dio e con i fratelli. Nella Bibbia, il termine «pace» ritorna incessantemente associato all'idea di benessere, di armonia, di felicità, di sicurezza, di concordia, di salvezza, di giustizia, come il bene per eccellenza che Dio - «il Signore della pace» (cfr. 2Ts 3,16) - dona già e promette in abbondanza: «Io farò scorrere come un fiume la prosperità» (Is 66,12).

Dono di Dio affidato agli uomini

5. Se la pace è un dono, l'uomo non è mai dispensato dalla responsabilità di ricercarla e di sforzarsi di stabilirla con impegno personale e comunitario lungo tutto il corso della storia. Il dono divino della pace, dunque, è sempre anche una conquista ed una realizzazione umana, perché esso è proposto all'uomo per essere accolto liberamente ed attuato progressivamente mediante la sua volontà creatrice. D'altra parte, la Provvidenza, nel suo amore per l'uomo, non lo abbandona mai, ma lo sospinge o lo conduce misteriosamente, anche nelle ore più oscure della storia, lungo il sentiero della pace. Le difficoltà, le delusioni e le tragedie del passato e del presente devono appunto essere meditate come lezioni provvidenziali, dalle quali spetta agli uomini ricavare la saggezza necessaria per aprire nuove strade, più razionali e più coraggiose, al fine di costruire la pace. Il riferimento alla Verità divina dona all'uomo l'ideale e le energie necessarie per superare le situazioni di ingiustizia, per liberarsi dalle ideologie di potenza e di dominio, per intraprende un cammino di vera fraternità universale.

I cristiani, fedeli a Cristo che ha predicato il «Vangelo della pace» e che ha fondato la pace nei cuori riconciliandoli con Dio, hanno - come sottolineerò alla fine del presente Messaggio - dei motivi ancora più decisivi per riguardare la pace come un dono di Dio e per contribuire coraggiosamente alla sua instaurazione in questo mondo, nella misura stessa in cui ne desiderano il totale compimento nel Regno di Dio. Ed essi sanno di essere invitati a unire i loro sforzi a quelli dei credenti di altre religioni, che denunciano instancabilmente l'odio e la guerra e che - per vie diverse - si impegnano a promuovere la giustizia e la pace.

Era importante considerare bene, innanzitutto, nei suoi fondamenti naturali questa visione piena di speranza per l'umanità rivolta verso la pace e sottolinearvi la responsabilità in risposta al dono di Dio; ciò illumina e stimola l'attività degli uomini sul piano dell'informazione, degli studi e degli impegni in favore della pace: tre settori, questi, che vorrei ora spiegare con alcuni esempi.

L'informazione

6. La pace del mondo dipende, ad un certo livello, da una migliore conoscenza che gli uomini e le società hanno di se stessi. Tale conoscenza è connessa naturalmente con l'informazione e con la sua qualità. Fanno opera di pace coloro che, nel rispetto del prossimo e nella carità, ricercano e proclamano la verità. Fanno opera di pace coloro che si studiano di richiamare l'attenzione intorno ai valori delle diverse culture, alle specifiche caratteristiche delle società, alle ricchezze di ciascun popolo. Fanno opera di pace coloro che, per mezzo dell'informazione, eliminano lo schermo delle distanze, in maniera tale che noi ci sentiamo veramente coinvolti nella sorte di quegli uomini e di quelle donne che, lontani da noi, sono vittime della guerra o delle ingiustizie.

Certamente l'accumulo di tali informazioni, soprattutto se esse si riferiscono a catastrofi, per le quali non si può far nulla, potrebbe finire con il rendere indifferente o freddo colui che resta solamente spettatore, senza mai compiere un gesto secondo le sue possibilità; ma, di per sé, il ruolo dei mass-media conserva il suo lato positivo: ormai ognuno di noi è invitato a farsi prossimo di tutti gli uomini, suoi fratelli (cfr. Lc 10,29-37).

L'informazione qualificata ha anche un influsso diretto sull'educazione e sulle decisioni politiche. Se si vuole che i giovani siano sensibilizzati al problema della pace e che si preparino a diventare operatori di pace, è indispensabile che i programmi educativi diano uno spazio preferenziale all'informazione circa le situazioni concrete in cui la pace è minacciata, e circa le condizioni che sono necessarie per promuoverla. In effetti, la costruzione della pace non potrebbe risultare dal solo potere dei governanti. Non si può costruire solidamente la pace, se essa non corrisponde all'incrollabile determinazione della buona volontà di tutti. E' necessario che i governanti siano sostenuti ed illuminati da una opinione pubblica che li incoraggi e, all'occorrenza, esprima loro la sua riprovazione. Di conseguenza, è anche normale che i governanti spieghino all'opinione pubblica tutto ciò che ha attinenza con i problemi della pace.

Gli studi che contribuiscono all'edificazione della pace

7. L'edificazione della pace dipende parimenti dal progresso delle ricerche che ad essa si riferiscono. Gli studi scientifici dedicati alla guerra, alla sua natura, alle sue cause, ai suoi mezzi, ai suoi scopi, ai suoi interessi sono pieni di insegnamenti in ordine alle condizioni della pace. Per il fatto che mettono in luce i rapporti tra guerra e politica, tali studi dimostrano anche che, per regolare i conflitti, il negoziato ha ben maggiore efficacia che non lo scontro armato.

Di qui segue che è destinato ad ampliarsi il ruolo del diritto nel mantenimento della pace. Si sapeva già quanto largamente, in ogni Stato, la promozione della giustizia e il rispetto dei diritti dell'uomo beneficiassero del lavoro dei giuristi. Ma il ruolo di costoro non è minore quando si tratta di ricercare i medesimi obiettivi sul piano internazionale, e di perfezionare, a questo livello, gli strumenti giuridici che costruiscono la pace e la mantengono.

Tuttavia, da quando la preoccupazione per la pace si e stampata nell'intimo dell'essere umano, i progressi lungo il sentiero della pace dipendono ugualmente dalle ricerche effettuate dagli psicologi e dai filosofi. E' vero che la polemologia si è già arricchita degli studi intorno all'aggressività umana, agli impulsi di morte, allo spirito gregario che può improvvisamente ostacolare intere società. Rimane, tuttavia, ancora molto da dire intorno alla paura che l'uomo ha di assumere la propria libertà, alla sua insicurezza di fronte a sé stesso e di fronte agli altri. Una migliore conoscenza degli impulsi di vita, dell'istinto, della simpatia, della disposizione all'amore ed alla condivisione, contribuisce indubbiamente a penetrare meglio nei meccanismi psicologici che favoriscono la pace.

Mediante queste ricerche la psicologia è, dunque, chiamata ad illuminare ed a completare la riflessione dei filosofi. In ogni tempo, questi si sono interrogati circa la guerra e circa la pace. La filosofia non si è mai trovata priva di responsabilità in questo campo, e rimane dolorosamente vivo il ricordo di quei celebri filosofi che hanno visto nell'uomo «un lupo per l'uomo», e nella guerra una necessità della storia. E' anche vero, tuttavia, che molti di essi hanno voluto gettare le fondamenta di una pace duratura, e addirittura perpetua, proponendo, per esempio, solide basi teoriche al diritto internazionale.

Tutti questi sforzi meritano di essere ripresi ed intensificati, ed i pensatori che vi si dedicano potranno beneficiare del ricchissimo contributo di una corrente della filosofia contemporanea, la quale dà un rilievo singolare al tema della persona e contribuisce in maniera speciale ad indagare gli argomenti della libertà e della responsabilità. La riflessione intorno ai diritti dell'uomo, alla giustizia ed alla pace ne potrà esser certamente illuminata.

L'azione indiretta

8. Se la promozione della pace è debitrice, in un certo senso, dell'informazione e della ricerca, essa dipende, soprattutto, dall'azione che gli uomini intraprendono in suo favore. Certe forme di azione, qui intraviste, non hanno con la pace che un rapporto indiretto. Si avrebbe torto, tuttavia, a considerarle come trascurabili e - come accenneremo sommariamente tra poco mediante qualche esempio - quasi tutti i settori dell'attività umana offrono occasioni inattese per promuovere la pace.

Tale è il caso degli scambi culturali, nel senso più ampio del termine. Così, tutto ciò che consente agli uomini di conoscersi meglio attraverso l'attività artistica infrange le barriere. Là dove fallisce la parola, e dove la diplomazia, può offrire un aiuto aleatorio, la musica, la pittura, il teatro lo sport possono avvicinare gli uomini. Lo stesso si verifica per la ricerca scientifica: la scienza, come l'arte, del resto, suscita e raccoglie una società universale nella quale si ritrovano, senza divisioni, tutti gli uomini appassionati di verità e di bellezza. La scienza e l'arte anticipano in tal modo, nel loro proprio settore, il formarsi di una società universale pacificata.

La vita economica stessa è chiamata a ravvicinare gli uomini, rendendoli ben coscienti della loro interdipendenza e della loro complementarietà. Senza dubbio le relazioni economiche creano spesso un campo di confronto spietato, di concorrenza senza riguardi di sorta, ed anche, talvolta, di sfruttamento vergognoso.

Ma queste medesime relazioni non potrebbero trasformarsi in relazioni di servizio, di solidarietà, e rimuovere di per se stesse una delle cause più frequenti di discordia?

Giustizia e pace all'interno delle Nazioni

9. Se la pace dev'essere la preoccupazione di tutti gli uomini, il costruirla è un compito che spetta, direttamente e principalmente, ai dirigenti politici. Da questo punto di vista, il luogo principale per l'edificazione della pace è sempre la Nazione, quale società politicamente organizzata. Se la formazione di una società politica ha come scopi l'instaurazione della giustizia, la promozione del bene comune, la partecipazione di tutti, allora la pace di tale società non si realizzerà che nella misura in cui questi tre imperativi saranno veramente rispettati. La pace non può fiorire se non là dove sono salvaguardate le esigenze elementari della giustizia.

Il rispetto incondizionato ed effettivo dei diritti imprescrittibili ed inalienabili di ciascuno è la condizione sine qua non perché la pace regni in una società. In rapporto a questi diritti fondamentali, tutti gli altri sono in qualche modo derivati e secondari. In una società in cui tali diritti non siano protetti, è spenta l'idea stessa di universalità, dal momento che solamente alcuni individui instaurano, a loro esclusivo profitto, un principio di discriminazione, secondo il quale i diritti e la stessa esistenza altrui vengono a dipendere dall'arbitrio dei più forti. Una tale società non può dunque essere in pace con se stessa; essa reca in sé un principio di divisione, di esplosione. Per la medesima ragione, una società politica non può effettivamente collaborare alla costruzione della pace internazionale, se essa stessa non è pacificata, cioè se al proprio interno essa non prende sul serio la promozione dei diritti dell'uomo. Nella misura in cui i dirigenti di una determinata nazione si impegnano ad edificare una società pienamente giusta, essi apportano già un contributo decisivo all'edificazione di una pace autentica, solida e duratura (cfr. «Pacem in Terris», II).

Giustizia e pace tra le Nazioni

10. Ma se la pace all'interno di ciascuna nazione è la condizione necessaria affinché possa germinare la vera pace, essa tuttavia non ne è la condizione sufficiente. La costruzione della pace su scala mondiale non potrebbe effettivamente risultare dalle volontà sparse, spesso ambigue e talvolta contraddittorie delle nazioni. E', del resto, per rimediare a questa carenza che gli Stati si sono provvisti di Organizzazioni Internazionali appropriate, di cui uno degli scopi principali è quello di armonizzare le volontà e di farle convergere verso la salvaguardia della pace e verso una maggiore giustizia tra le Nazioni.

In virtù del prestigio che si sono acquistate, in virtù delle loro realizzazioni, le grandi Organizzazioni Internazionali hanno compiuto un'opera rilevante in favore della pace. Senza dubbio ci sono stati degli insuccessi; esse non hanno potuto prevenire ne eliminare rapidamente tutti i conflitti. Ma pure hanno contribuito a dimostrare agli occhi del mondo che la guerra, il sangue e le lacrime non attenuano per nulla le tensioni. Esse hanno offerto la prova, per così dire, sperimentale che, anche a livello mondiale, gli uomini sono capaci di congiungere i loro sforzi e di ricercare insieme la pace.

La dinamica cristiana della pace

11. A questo punto del mio Messaggio, desidero rivolgermi più espressamente ai miei fratelli e sorelle nella Chiesa. A tutti gli sforzi seri per conseguire la pace, la Chiesa dà il suo appoggio e il suo incoraggiamento. Essa non esita a proclamare che l'azione di tutti coloro che consacrano le loro migliori energie alla causa della pace s'inscrive nel piano della salvezza di Dio in Gesù Cristo. Ma ai cristiani ricorda che essi hanno delle ragioni ben più grandi per essere testimoni attivi del dono divino della pace.

Anzitutto, il Cristo, con la parola e con l'esempio, ha suscitato nuovi comportamenti di pace. Egli ha spinto l'etica della pace ben al di là degli atteggiamenti correnti di giustizia e di intesa. All'inizio del suo ministero, proclama: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Invia i suoi discepoli a portare la pace di casa in casa, di città in città (ibid. 10,11-13). Li invita a preferire la pace ad ogni vendetta e perfino a certe legittime richieste, tanto desidera estirpare dal cuore dell'uomo la radice dell'aggressività (ibid. 5,38-42). Esige che siano amati quelli che ogni sorta di barriere ha trasformato in nemici (ibid. 5,43-48). Cita come esempio gli stranieri che si è soliti disprezzare, come i samaritani (cfr. Lc 10,33;17,16). Invita a restare sempre umili ed a perdonare senza misura (Mt 18,21-22). L'atteggiamento di condivisione con coloro che sono sprovvisti del necessario - di cui egli fa il punto-chiave del giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46) - deve contribuire efficacemente ad instaurare rapporti di fraternità.

Tale appelli di Gesù e il suo esempio hanno già avuto di per se stessi un'ampia risonanza nell'atteggiamento dei suoi discepoli, come attesta la storia da due millenni. Ma l'opera del Cristo si colloca ad un livello di diversa profondità, che è dell'ordine di una misteriosa trasformazione dei cuori. Egli ha portato veramente «da pace sulla terra agli uomini che Dio ama», secondo l'annuncio fatto fin dalla nascita (cfr. Lc 2,14); e questo non solo rivelando loro l'amore del Padre, ma soprattutto riconciliandoli con Dio mediante il suo Sacrificio. Essendo il peccato e l'odio a far da ostacolo alla Pace con Dio e con gli altri, egli l'uno e l'altro ha distrutti mediante l'offerta della sua vita sulla croce; egli ha riconciliato in un solo corpo quelli che erano nemici (cfr. Ef 2,16; Rm 12,5). Da allora, le sue prime parole di Risorto agli apostoli sono state: «La pace sia con voi» (Gv 20,19). Coloro che accolgono la fede formano nella Chiesa una comunità profetica: con lo Spirito Santo trasmesso dal Cristo, dopo il battesimo che li inserisce nel Corpo di Cristo, essi fanno l'esperienza della pace data da Dio nel Sacramento della Riconciliazione e nella Comunione eucaristica; annunciano così «il Vangelo della pace» (Ef 6,15); cercano di viverlo essi stessi giorno per giorno, concretamente; e aspirano al tempo della riconciliazione integrale, allorché, grazie ad un nuovo intervento del Dio vivente che risuscita i morti, l'uomo sarà del tutto trasparente davanti a Dio e ai suoi fratelli. Tale è la visione di fede che sostiene l'azione dei cristiani in favore della pace.

Così, con la sua stessa esistenza, la Chiesa si presenta in mezzo al mondo come una società di uomini riconciliati e pacificati dalla grazia del Cristo, in comunione d'amore e di vita con Dio e con tutti i fratelli, al di sopra di ogni sorta di barriere umane; essa è già in se stessa - e cerca di divenirlo sempre più in pratica - un dono e un fermento di pace, offerti da Dio all'intera umanità. Certo, i membri della Chiesa sono ben consapevoli di essere troppo spesso peccatori, anche in questo settore; sentono, tuttavia, la grave responsabilità di mettere in opera questo dono della pace. Pertanto, devono anzitutto superare le loro proprie divisioni per incamminarsi senza indugi verso la pienezza dell'unità in Cristo; collaboreranno così con Dio per offrire la sua pace al mondo. Essi devono pure evidentemente unire i propri sforzi con quelli di tutti gli uomini di buona volontà, che operano per la pace nei diversi settori della società e della vita internazionale. La Chiesa desidera che i suoi figli si impegnino, mediante la propria testimonianza e le proprie iniziative, al primo posto tra coloro che preparano e fanno regnare la pace. In pari tempo, essa si rende ben conto che, nella pratica, si tratta di un'opera difficile, la quale esige molta generosità, discernimento e speranza, come una vera sfida.

La pace come sfida permanente per il cristiano

12. L'ottimismo cristiano, fondato sulla croce gloriosa del Cristo e sull'effusione dello Spirito Santo, non giustifica in realtà alcuna illusione. Per il cristiano, la pace sulla terra è sempre una sfida, a motivo della presenza del peccato nel cuore dell'uomo. Mosso dalla fede e dalla speranza, il cristiano si impegna dunque a promuovere una società più giusta; lotta contro la fame, la miseria, la malattia; è attento alla sorte dei migranti, dei prigionieri, degli emarginati, (cfr. Mt 25,35-36). Ma egli sa che se tutte le iniziative esprimono qualche cosa della misericordia e della perfezione di Dio (cfr. Lc 6,36; Mt 5,48), esse sono sempre limitate nella loro portata, precarie nei loro risultati, ambigue nella loro ispirazione. Solo Dio, che dà la vita, allorché ricapitolerà tutto nel suo Figlio (cfr. Ef 1,10), realizzerà la speranza ardente degli uomini, portando egli stesso a compimento tutto ciò che sarà stato intrapreso nella storia, secondo il suo Spirito, in materia di giustizia e di pace.

Perciò, pur spendendosi con ardore per prevenire la guerra o per porvi termine, il cristiano non si illude ne sulla sua capacità di far trionfare la pace, né sulla portata delle iniziative da lui intraprese a questo scopo. Di conseguenza, egli si interessa a tutte le realizzazioni umane in favore della pace, vi prende parte molto spesso, considerandole con realismo ed umiltà. Si potrebbe quasi dire che le «relativizza» doppiamente, mettendole in relazione con la condizione peccatrice dell'uomo e ponendole in rapporto al disegno salvifico di Dio. Anzitutto, il cristiano, non ignorando che disegni di aggressività, di egemonia e di manipolazione degli altri sono latenti nel cuore degli uomini e talvolta, anzi, nutrono segretamente le loro intenzioni, nonostante certe dichiarazioni o manifestazioni di segno pacifista, sa che sulla terra una società umana totalmente e per sempre pacificata è purtroppo un'utopia, e che le ideologie che la riflettono, come se potesse essere facilmente raggiunta, alimentano speranze irrealizzabili, quali che siano le ragioni del loro atteggiamento: visione erronea della condizione umana, mancanza di applicazione nel considerare nel suo insieme il problema, evasione per attenuare la paura, o, in altri, calcolo interessato. Il cristiano è pure persuaso - non fosse altro per averne fatto la dolorosa esperienza - che queste speranze fallaci conducono direttamente alla pseudo-pace dei regimi totalitari. Ma questa considerazione realistica non trattiene affatto i cristiani dal loro impegno per la pace; essa stimola, anzi, il loro ardore, perché sanno che la vittoria di Cristo sulla menzogna, sull'odio e sulla morte, apporta agli uomini pensosi della pace una motivazione ad agire più decisa di quella offerta dalle antropologie più generose e una speranza più fondata di quella che brilla nei sogni più audaci.

E' questa la ragione per cui il cristiano, anche quando fortemente si impegna a contrastare ed a prevenire tutte le forme di guerra, non esita a ricordare, in nome di una elementare esigenza di giustizia, che i popoli hanno il diritto ed anche il dovere di proteggere, con l'uso di mezzi proporzionati, la loro esistenza e la loro libertà contro un ingiusto aggressore (cfr. «Gaudium et Spes», 79). Tuttavia, tenuto conto della differenza, per così dire, di natura, tra le guerre classiche e le guerre nucleari o batteriologiche, tenuto conto anche dello scandalo della corsa agli armamenti di fronte alle necessità del Terzo Mondo, questo diritto, ben fondato nel suo principio, non fa che sottolineare per la società mondiale l'urgenza di darsi dei mezzi efficaci di negoziato. Così il terrore nucleare, che invade il nostro tempo, può spingere gli uomini ad arricchire il loro comune patrimonio di questa scoperta assai semplice che è alla loro portata, e cioè che la guerra è il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere i conflitti. Oggi più che mai, dunque, la società umana è costretta a dotarsi degli strumenti di contrattazione e di dialogo, di cui ha bisogno per sopravvivere e, dunque, delle istituzioni indispensabili per la costruzione della giustizia e della pace.

Possa essa, altresì, prendere coscienza che questa opera sorpassa le forze umane!

La preghiera per la pace

13. Nel corso di questo Messaggio, ho fatto appello alla responsabilità degli uomini di buona volontà e, specialmente, dei cristiani, poiché Dio ha affidato la pace agli uomini. Con il realismo e la speranza che la fede permette, ho voluto attirare l'attenzione dei cittadini e dei governanti su un certo numero di realizzazioni e di atteggiamenti, già possibili e capaci di edificare saldamente la pace. Ma, al di là o piuttosto all'interno stesso di questa necessaria azione che potrebbe sembrare dipendere innanzitutto dagli uomini, la pace è prima di tutto un dono di Dio - non bisogna mai dimenticarlo - e deve essere sempre implorata dalla sua misericordia.

Una tale convinzione sembra aver animato gli uomini di tutte le civiltà, che hanno messo la pace al primo posto nelle loro preghiere. Se ne trova l'espressione in tutte le religioni. Quanti uomini, facendo l'esperienza delle lotte omicide e dei campi di concentramento, quante donne e quanti bambini in difficoltà a causa delle guerre, si sono rivolti prima di noi al Dio della pace! Oggi che le minacce attingono una gravità del tutto particolare per la loro estensione e il loro carattere radicale, oggi che le difficoltà per costruire la pace si complicano in una maniera nuova, spesso inestricabile, molte persone, anche quelle aventi poca familiarità con la preghiera, possono ritrovarne spontaneamente il sentiero. Sì, il nostro avvenire è nelle mani di Dio, che solo dona la vera pace. E quando i cuori umani progettano sinceramente azioni di pace, è ancora la grazia di Dio che ispira e fortifica i loro sentimenti. Tutti sono invitati a ripetere in tal senso la preghiera di san Francesco d'Assisi, di cui stiamo celebrando l'ottavo centenario della nascita: Signore fa di noi degli artefici di pace; là dove domina l'odio, che noi annunciamo l'amore; là dove ferisce l'offesa, che noi offriamo il perdono, là dove infierisce la discordia, che noi costruiamo la pace.

I cristiani, da parte loro, amano implorare la pace, facendo salire sulle loro labbra la preghiera di tanti salmi punteggiati da suppliche di pace e ripetuti con l'amore universale di Gesù. E' qui un punto già comune e molto profondo in tutti i passi ecumenici. Gli altri credenti di tutto il mondo attendono anch'essi dall'Onnipotente il dono della pace e, più o meno coscientemente, molti altri uomini di buona volontà sono pronti a fare la medesima preghiera nel segreto del loro cuore. Possa una supplica fervente salire così verso Dio dai quattro angoli della terra! Sarà già una magnifica unanimità sul sentiero della pace. E come dubitare che Dio non esaudisca questo grido dei suoi figli: «Signore, donaci la pace! Donaci la tua pace!».

Dal Vaticano, 8 dicembre 1981.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

IL DIALOGO PER LA PACE UNA SFIDA PER IL NOSTRO TEMPO

 1 gennaio 1983

 

1. Alle soglie del nuovo anno 1983, in occasione della XVI Giornata Mondiale della Pace, vi presento questo messaggio che ha per tema: «Il dialogo per la pace, una sfida per il nostro tempo». Lo indirizzo a tutti coloro che sono, in certa misura, responsabili della pace: a coloro che presiedono alle sorti dei popoli, ai funzionari internazionali, agli uomini politici, ai diplomatici, ma anche ai cittadini di ogni paese. Tutti sono, in effetti, sollecitati dalla necessità di preparare una vera pace, di mantenerla o di ristabilirla, su basi solide e giuste. Ora, io sono profondamente convinto che il dialogo - il vero dialogo - è condizione essenziale per una simile pace. Sì, questo dialogo è necessario; non è solamente opportuno; è difficile, ma è possibile, nonostante gli ostacoli che il realismo ci deve far prendere in considerazione. Esso costituisce, dunque, una vera sfida, che io vi invito a raccogliere. E ciò faccio senz'altro scopo che quello di contribuire, io stesso e la Santa Sede, alla pace, prendendo molto a cuore le sorti dell'umanità, come erede e primo responsabile del Messaggio di Cristo, il quale è innanzitutto un Messaggio di Pace per tutti gli uomini.

Aspirazione degli uomini alla pace e al dialogo

2. Sono sicuro di collegarmi, così facendo, all'aspirazione fondamentale degli uomini e delle donne del nostro tempo. Questo desiderio della pace non è forse affermato da tutti i governanti negli auguri alla loro nazione, o nelle dichiarazioni da loro rivolte agli altri paesi? Quale partito politico oserebbe fare a meno di includere nel suo programma la ricerca della pace? Quanto alle organizzazioni internazionali, esse sono state create per promuovere e garantire la pace, e tengono fede a questo obiettivo malgrado gli insuccessi, La stessa opinione pubblica, quando non è eccitata artificialmente da qualche sentimento passionale d'orgoglio o d'ingiusta frustrazione, opta per soluzioni di pace; ed anzi, movimenti sempre più numerosi militano, pur con lucidità o una sincerità che possono a volte lasciar a desiderare, per far prendere coscienza della necessità di eliminare non soltanto ogni guerra, ma anche tutto ciò che può condurre alla guerra. I cittadini, in generale, desiderano che un clima di pace garantisca la loro ricerca del benessere, particolarmente quando si trovano messi di fronte - come ai nostri giorni - ad una crisi economica che minaccia tutti i lavoratori.

Ma bisognerebbe andare fino al fondo di questa aspirazione, fortunatamente molto diffusa: la pace non si stabilirà, non si manterrà, senza che se ne adottino i mezzi. E il mezzo per eccellenza è quello di adottare un atteggiamento di dialogo; è quello di introdurre pazientemente i meccanismi e le fasi del dialogo ovunque la pace è minacciata o è già compromessa, nelle famiglie, nella società, tra i paesi o tra i blocchi di paesi.

L'esperienza passata dimostra l'importanza del dialogo

3. L'esperienza della storia, anche della storia recente, testimonia in effetti che il dialogo è necessario per la vera pace. Sarebbe facile menzionare dei casi in cui il conflitto sembrava fatale, e in cui invece la guerra è stata evitata o abbandonata, perché le parti in causa hanno creduto nel valore del dialogo e lo hanno praticato nel corso di lunghe e leali trattative. Al contrario, quando vi sono stati conflitti - e, contrariamente ad un'opinione assai diffusa, si possono, purtroppo, contare più di centocinquanta conflitti armati dopo la seconda guerra mondiale! -, ciò fu perché il dialogo non aveva avuto veramente luogo, o perché era stato falsato, trasformato in una trappola, volontariamente ridotto. L'anno che si è appena concluso ha offerto una volta di più lo spettacolo della violenza e della guerra; alcuni uomini hanno dimostrato che preferivano servirsi delle proprie armi piuttosto che cercare di intendersi. Sì, accanto a segni di speranza, l'anno 1982 lascerà in molte famiglie umane un ricordo di desolazione e di rovine, un sapore amaro di lacrime e di morte.

Il dialogo per la pace è necessario

4. Ora, chi oserebbe, dunque, far poco conto di tali guerre, alcune delle quali durano ancora, o degli stati di guerra, o delle frustrazioni profonde che esse lasciano? Chi oserebbe pensare senza tremare alle guerre ben più estese e ben più terribili, che permangono minacciose? Non si deve forse far tutto il possibile per evitare la guerra, anche la «guerra limitata» (così chiamata con un eufemismo da coloro che non sono direttamente chiamati in causa), essendo scontato il male che rappresenta ogni guerra, il suo prezzo in vite umane, in sofferenze, in devastazione di ciò che sarebbe necessario alla vita e allo sviluppo degli uomini, senza contare lo sconvolgimento della necessaria tranquillità, il deterioramento del tessuto sociale, l'aggravamento della diffidenza e dell'odio che le guerre alimentano verso il prossimo? Ed oggi, quando persino le guerre convenzionali si fanno così micidiali, quando si conoscono le conseguenze drammatiche che avrebbe una guerra nucleare, la necessità di arrestare la guerra o di allontanarne la minaccia è tanto più imperiosa! E più fondamentale, di conseguenza, appare la necessità di ricorrere al dialogo, alla sua virtù politica, che deve evitare di venire alle armi.

Il dialogo per la pace è possibile

5. Ma alcuni, oggi, credendo di essere realisti, dubitano della possibilità del dialogo e della sua efficacia, almeno quando le posizioni sono talmente tese e inconciliabili, che ad essi sembrano non lasciar spazio ad alcuna intesa. Quante esperienze negative, quanti ripetuti scacchi sembrerebbero sostenere questa diffusa opinione!

E tuttavia, il dialogo per la pace è possibile, sempre possibile. Non è un'utopia. D'altronde, anche quando esso non è parso possibile e si è giunti al confronto militare, non è stato forse necessario, in ogni caso, dopo la devastazione della guerra, che ha dimostrato la forza del vincitore, ma che non ha risolto nulla per quanto concerne i diritti contestati, ritornare alla ricerca del dialogo? In verità, la convinzione che qui affermo non poggia su questa fatalità, ma su una realtà: sulla considerazione della natura profonda dell'uomo. Colui che condivide la fede cristiana ne sarà più facilmente persuaso, anche se crede pure alla debolezza congenita e al peccato che segnano il cuore umano fin dalle origini. Ma ogni uomo, credente o no, pur restando prudente e lucido circa la possibile ostinazione del suo fratello, può e deve conservare una sufficiente fiducia nell'uomo, nella sua capacità di essere ragionevole, nel suo senso del bene, della giustizia, dell'equità, nella sua possibilità di amore fraterno e di speranza, mai totalmente pervertiti, per scommettere sul ricorso al dialogo e sulla sua possibile ripresa. Sì, gli uomini in definitiva sono capaci di superare le divisioni, i conflitti d'interesse, anche le opposizioni che paiono radicali, soprattutto quando ciascuna parte è convinta di difendere una giusta causa, se credono al valore del dialogo, se accettano di ritrovarsi tra uomini per cercare una soluzione pacifica e ragionevole ai loro conflitti. Occorre, inoltre, che non si lascino scoraggiare dai fallimenti reali o apparenti. E occorre pure che siano disposti a ricominciare incessantemente a proporre un vero dialogo - togliendo gli ostacoli e sventando i vizi del dialogo, dei quali parlerò più avanti - ed a percorrere fino in fondo questo solo cammino che conduce alla pace, con tutte le sue esigenze e le sue condizioni.

Le virtù del vero dialogo

6. Ritengo utile, perciò, richiamare qui le qualità di un vero dialogo. Esse si applicano, innanzitutto, al dialogo tra le persone; ma penso anche e soprattutto al dialogo tra i gruppi sociali, tra le forze politiche in una nazione, tra gli Stati in seno alla comunità internazionale. Essi si applicano anche al dialogo tra i grandi raggruppamenti umani, che si distinguono e si affrontano sul piano etnico, culturale, ideologico o religioso, poiché i polemologi riconoscono che la maggior parte dei conflitti trovano lì le loro radici, pur ricollegandosi anche ai presenti grandi antagonismi tra Est e Ovest da una parte, tra Nord e Sud dall'altra.

Il dialogo è un elemento centrale e indispensabile del pensiero etico degli uomini, chiunque essi siano. Sotto l'aspetto di uno scambio, di una comunicazione tra gli esseri umani, quale permette il linguaggio, esso è in realtà una ricerca comune.

Fondamentalmente, esso suppone la ricerca di ciò che è vero, buono e giusto per ogni uomo, per ogni gruppo e ogni società, sia nella parte con cui si è solidali, sia in quella che si presenta come avversa.

Esso dunque esige, in via preliminare, l'apertura e l'accoglienza: che ogni parte esponga i propri elementi, ma ascolti anche l'esposizione della situazione così come è descritta dall'altra parte, la recepisca sinceramente con i veri problemi suoi propri, i suoi diritti, le ingiustizie di cui ha coscienza, le soluzioni ragionevoli che propone. Come potrebbe stabilirsi la pace, se una delle parti non si è neppure data pensiero di considerare le condizioni di esistenza dell'altra?

Il dialogare suppone, dunque, che ciascuno accetti questa differenza e questa specificità dell'altro, prenda bene la misura di ciò che lo separa dall'altro, e che l'assuma col rischio di tensione che ne risulta, senza rinunciare per viltà o per costrizione a ciò che sa essere vero e giusto, ciò che sfocerebbe in un compromesso zoppicante e, inversamente, senza pretendere di ridurre l'altro ad un oggetto, ma stimandolo come soggetto intelligente, libero e responsabile.

Il dialogo, nello stesso tempo, è la ricerca di ciò che è e resta comune agli uomini, anche in mezzo alle tensioni, opposizioni e conflitti. In questo senso, vuol dite fare dell'altro il proprio prossimo. Vuol dire accettare il suo contributo, e condividere con lui la responsabilità di fronte alla verità e alla giustizia. Vuol dire proporre e studiare tutte le possibili formule di onesta conciliazione, sapendo congiungere alla giusta difesa degli interessi e dell'onore della parte, che si rappresenta, la non meno giusta comprensione e il rispetto delle ragioni dell'altra parte, come pure le esigenze del bene generale comune ad entrambe.

Del resto, non è forse sempre più evidente che tutti i popoli della terra si trovano in una situazione di interdipendenza vicendevole sul piano economico, politico e culturale? Chi pretendesse di sottrarsi a questa solidarietà non tarderebbe a soffrirne egli stesso.

Infine, il vero dialogo è la ricerca del bene con mezzi pacifici; è volontà costante di ricorrere a tutte le possibili formule di negoziati, di mediazioni, di arbitrato, per far sì che i fattori di avvicinamento prevalgano sui fattori di divisione e di odio. Esso è un riconoscimento della dignità inalienabile degli uomini. Esso poggia sul rispetto della vita umana. Esso è una scommessa sulla socievolezza degli uomini, sulla loro vocazione a camminare insieme, con continuità, mediante un incontro convergente delle intelligenze, delle volontà, dei cuori, verso lo scopo che il Creatore ha loro fissato: rendere la terra abitabile per tutti e degna di tutti.

Il valore politico di un tale dialogo non potrà mancare di portare frutti per la pace. Il mio venerato predecessore Paolo VI ha consacrato al dialogo una grande sezione della sua prima enciclica «Ecclesiam Suam». Egli scriveva: «L'apertura di un dialogo... disinteressato, oggettivo, leale è per se stessa una dichiarazione in favore di una pace libera e onesta. Essa esclude simulazione, rivalità, inganni e tradimenti». Questa virtù del dialogo chiede ai responsabili politici di oggi molta lucidità, lealtà e coraggio, non solo di fronte agli altri popoli, ma davanti all'opinione pubblica del loro proprio popolo. Essa suppone sovente una vera conversione. Ma non c'è altra possibilità dinanzi alla minaccia della guerra. E ancora una volta, essa non è chimerica. Sarebbe facile citare quei nostri contemporanei, che si sono fatti onore praticandola in questo modo.

Gli ostacoli al dialogo, i falsi dialoghi

7. Come contropartita, mi sembra utile anche il denunciare alcuni particolari ostacoli al dialogo per la pace.

Non parlo delle difficoltà inerenti al dialogo politico, come quella, frequente, di conciliare concreti interessi contrapposti, o di far valere condizioni troppo precarie di esistenza senza che si possa invocare un'ingiustizia propriamente detta da parte degli altri. Penso a ciò che irrigidisce o impedisce i normali processi del dialogo. Ho già fatto intendere che il dialogo è bloccato dalla volontà aprioristica di non concedere nulla, dalla mancanza di ascolto, dalla pretesa di essere - personalmente e da soli - la misura della giustizia. Questo atteggiamento può in realtà semplicemente nascondere l'egoismo cieco e sordo di un popolo, o più spesso la volontà di potenza dei suoi dirigenti. Succede pure, del resto, che essa coincida con una concezione oltranzista e superata della sovranità e della sicurezza dello Stato. Questo allora rischia di diventare l'oggetto di un culto per così dire indiscutibile, per giustificare le imprese più contestabili. Orchestrato dai potenti mezzi di cui dispone la propaganda, un simile culto - che non va confuso con l'attaccamento patriottico ben inteso alla propria nazione - può soffocare il senso critico e il senso morale presso i cittadini più avvertiti e incoraggiare alla guerra.

A più forte ragione bisogna menzionare la menzogna tattica e deliberata, che abusa del linguaggio, ricorre alle tecniche più sofisticate della propaganda, intrappola il dialogo ed esaspera l'aggressività.

Infine, quando alcune parti sono nutrite di ideologie che, nonostante le loro dichiarazioni, si oppongono alla dignità della persona umana, alle sue giuste aspirazioni secondo i sani principi della ragione, della legge naturale ed eterna, di ideologie che vedono nella lotta il motore della storia, nella forza la sorgente del diritto, nell'individuazione del nemico l'«abc» della politica, il dialogo è paralizzato e sterile, oppure, se ancora esiste, è in realtà superficiale e falsato. Esso si fa difficilissimo, per non dire impossibile. Ne segue quasi l'incomunicabilità tra i paesi e i blocchi; anche le istituzioni internazionali vengono paralizzate; e lo scacco del dialogo rischia allora di servire la corsa agli armamenti.

Tuttavia, anche in ciò che può essere considerato come un vicolo cieco, nella misura in cui le persone fanno corpo con queste ideologie, il tentativo di un dialogo lucido sembra ancora necessario per sbloccare la situazione e operare in favore di possibili regolamentazioni della pace su dei punti particolari, contando sul buon senso, sulle prospettive di danno per tutti e sulle giuste aspirazioni, alle quali aderiscono in gran parte i popoli stessi.

Dialogo a livello nazionale

8. Il dialogo per la pace si deve instaurare anzitutto a livello nazionale, per risolvere i conflitti sociali e per ricercare il bene comune. Pur tenendo conto degli interessi dei diversi gruppi, la concertazione pacifica può farsi costantemente, mediante il dialogo, nell'esercizio delle libertà e dei doveri democratici per tutti, grazie alle strutture di partecipazione ed alle molteplici istanze di conciliazione tra i datori di lavoro e i lavoratori, in modo da rispettare ed associare i gruppi culturali, etnici e religiosi che formano una nazione. Quando purtroppo il dialogo tra governanti e popolo è assente, anche la pace sociale è minacciata o assente: si genera come uno stato di guerra. Ma la storia e l'osservazione attuale mostrano che molti paesi sono riusciti o riescono a stabilire una vera concertazione permanente, a risolvere i conflitti che sorgono nel loro ambiente, o perfino a prevenirli, dotandosi di strumenti di dialogo veramente efficaci. Essi si danno, d'altra parte, una legislazione in costante evoluzione, che appropriate giurisdizioni fanno rispettare per corrispondere al bene comune.

Dialogo per la pace a livello internazionale

9. Se il dialogo si è rivelato capace di produrre dei risultati a livello nazionale, perché non dovrebbe essere così a livello internazionale? E' vero che i problemi sono più complicati e le parti e gli interessi in causa più numerosi e meno omogenei. Ma il mezzo per eccellenza resta sempre il dialogo leale e paziente. Là dove esso manca tra le nazioni, bisogna fare del tutto per instaurarlo. Là dove esso è imperfetto, bisogna perfezionarlo. Non bisognerebbe mai scartare il dialogo per rimettersi alla forza delle armi al fine di risolvere i conflitti. E la grave responsabilità che qui è in gioco non è solamente quella delle parti, che al presente si avversano e la cui passione è difficile da dominare, ma anche e più ancora quella di paesi più potenti, i quali si astengono dall'aiutarle a riannodare il dialogo, anzi lo spingono alla guerra, e le tentano con il commercio delle armi.

Il dialogo tra le nazioni deve essere basato sulla forte convinzione che il bene di un popolo non può, in definitiva, realizzarsi contro il bene di un altro popolo: tutti hanno i medesimi diritti, le medesime rivendicazioni ad una vita degna per i loro cittadini. E' essenziale a questo proposito fare progressi nella ricomposizione delle smagliature artificiali, ereditate dal passato, e nel superamento degli antagonismi di blocchi. Bisogna riconoscere sempre di più la crescente interdipendenza tra le nazioni.

Oggetto del dialogo internazionale

10. Se si vuole precisare l'oggetto del dialogo internazionale, si può dire che esso deve portarsi segnatamente sui diritti dell'uomo, sulla giustizia tra i popoli, sull'economia, sul disarmo, sul bene comune internazionale.

Sì, esso deve far sì che gli uomini e i gruppi umani siano riconosciuti nella loro specificità, nella loro originalità, con un loro necessario spazio di libertà, e in particolare, nell'esercizio dei loro diritti fondamentali. A questo riguardo, si spera in un sistema giuridico internazionale più sensibile alle richieste di coloro, i cui diritti sono violati, e si auspicano giurisdizioni che dispongano di mezzi efficaci e tali da essere in grado di far rispettare la propria autorità.

Se l'ingiustizia, sotto ogni forma, è la prima causa delle violenze e delle guerre, va da sé che, in via di massima, il dialogo per la pace è indissociabile dal dialogo per la giustizia in favore dei popoli, che soffrono frustrazione e dominazione da parte degli altri.

Il dialogo per la pace comporterà necessariamente anche una discussione sulle norme che regolano la vita economica. Infatti la tentazione della violenza e della guerra sarà sempre presente nelle società dove la cupidigia, la corsa ai beni materiali, spinge una minoranza sicura a rifiutare alla massa degli uomini la soddisfazione dei più elementari diritti all'alimentazione, all'educazione, alla cura della salute, alla vita (cfr. Gaudium et Spes, 69). Ciò vale all'interno di ogni paese, ma vale anche nei rapporti tra paesi, soprattutto se le relazioni bilaterali continuano ad essere preponderanti. E' così che l'apertura alle relazioni multilaterali, nel quadro specifico delle organizzazioni internazionali, porta una possibilità di dialogo, meno appesantito da ineguaglianze, e pertanto più favorevoli alla giustizia.

Evidentemente l'oggetto del dialogo internazionale cadrà anche sulla pericolosa corsa agli armamenti, in modo da farla ridurre progressivamente, come già ho suggerito nel mio messaggio all'ONU, nello scorso mese di giugno, e come è detto nel messaggio che i saggi dell'Accademia Pontificia delle Scienze hanno portato, da parte mia, ai responsabili delle potenze nucleari. Invece di essere al servizio degli uomini, l'economia si militarizza. Lo sviluppo e il benessere sono subordinati alla sicurezza. Scienza e tecnologia si degradano al ruolo di ausiliarie della guerra. La Santa Sede non si stancherà di insistere sulla necessità di frenare la corsa agli armamenti mediante progressivi negoziati, ispirati al principio della reciprocità. Essa continuerà ad incoraggiare tutti i passi, anche i più piccoli, nel dialogo ragionevole, in questo campo di capitale importanza.

Ma l'oggetto del dialogo per la pace non potrà essere ridotto a una denuncia della corsa agli armamenti; si tratta di ricercare tutto un ordine internazionale più giusto; un «consensus» sulla ripartizione più equa dei beni, dei servizi, del sapere, dell'informazione; e una ferma volontà di ordinare queste esigenze al bene comune. So che un tale dialogo, di cui fa parte il dialogo Nord-Sud, è molto complesso; esso deve essere risolutamente perseguito per preparare le condizioni della vera pace, nell'approssimarsi del terzo millennio.

Appello ai responsabili

11. Dopo tali considerazioni, il mio messaggio vuole essere soprattutto un appello a raccogliere la sfida del dialogo per la pace.

Io lo indirizzo innanzitutto a voi, Capi di Stato e di Governo! Possiate voi, affinché il vostro popolo conosca un'autentica pace sociale, permettere tutte le condizioni di dialogo e di accordo, le quali, equamente stabilite, non comprometteranno, ma piuttosto favoriranno, a lunga scadenza, il bene comune della nazione nella libertà e indipendenza! Possiate attuare questo dialogo da pari a pari con gli altri paesi, ed aiutare le parti in conflitto a trovare le vie del dialogo, della ragionevole conciliazione e della giusta pace!

Faccio appello parimenti a voi, diplomatici, la cui nobile professione è quella, tra l'altro, di affrontare i punti controversi, cercando di risolverli attraverso il dialogo e il negoziato, per evitare il ricorso alle armi, o per sostituirvi ai belligeranti. Lavoro di pazienza e di perseveranza, che la Santa Sede apprezza tanto più, in quanto è impegnata essa stessa nei rapporti diplomatici, dove si sforza di far adottare il dialogo come il mezzo più adatto per superare i contrasti.

Voglio soprattutto ribadire la mia fiducia in voi, responsabili e membri delle organizzazioni internazionali, ed in voi, funzionari internazionali! Nel corso dell'ultimo decennio le vostre organizzazioni sono state troppo spesso oggetto di tentativi di manipolazione da parte di nazioni desiderose di sfruttare tali istanze. Resta comunque il fatto che la molteplicità attuale degli scontri violenti, le divisioni e gli intoppi, nei quali s'imbattono le relazioni bilaterali, offrono alle grandi organizzazioni internazionali l'occasione di avviare un mutamento qualitativo nelle loro attività, a costo di riformare su certi punti le loro proprie strutture, onde tener conto delle realtà nuove e godere di un potere efficace. Siano esse regionali o mondiali, le vostre organizzazioni hanno una opportunità eccezionale di cui profittare: riappropriarsi, in tutta pienezza, della missione che loro spetta in virtù della loro origine, del loro statuto e del loro mandato; divenire i luoghi e gli strumenti per eccellenza del vero dialogo per la pace. Lungi dal lasciarsi invadere dal pessimismo e dallo scoraggiamento che paralizzano, esse hanno la possibilità di affermarsi maggiormente come luoghi d'incontro, dove potranno essere considerate le più audaci revisioni dei comportamenti, che al presente prevalgono negli scambi politici, economici, monetari e culturali.

Lancio parimenti uno speciale appello a voi, che lavorate nei mass-media! I dolorosi avvenimenti che il mondo ha conosciuto in questi ultimi tempi, hanno confermato l'importanza di un'opinione illuminata, affinché un conflitto non degeneri in guerra. L'opinione pubblica, infatti, può frenare le tendenze bellicose o, al contrario, appoggiare tali tendenze fino all'accecamento. Ora, in quanto tecnici delle emissioni radiofoniche, televisive, e della stampa, voi avete un ruolo sempre più preponderante in questo campo: vi incoraggio a pesare la vostra responsabilità e a mettere in luce col massimo di obiettività i diritti, i problemi e le mentalità di ognuna delle parti, al fine di promuovere la comprensione e il dialogo tra i gruppi, i paesi e le civiltà.

Infine, devo rivolgermi a ciascun uomo ed a ciascuna donna, nonché a voi, giovani: voi avete molteplici occasioni per abbattere le barriere dell'egoismo, dell'incomprensione e dell'aggressività, grazie al vostro modo di dialogare, ogni giorno, nella vostra famiglia, nel vostro villaggio, nel vostro quartiere, nelle associazioni della vostra città, della vostra regione, per non parlate delle organizzazioni non governative. Il dialogo per la pace è affare di tutti.

Motivazioni particolari dei cristiani, per raccogliere la sfida del dialogo

12. Ed ora, esorto in modo speciale voi, cristiani, a prendere tutta la vostra parte in questo dialogo, secondo le responsabilità che vi spettano, a ricercarlo con quella qualità di accoglienza, di franchezza e di giustizia, che è richiesta dalla carità di Cristo, a riprenderlo incessantemente con la tenacia e la speranza che la fede vi consente. Voi conoscete anche la necessità della conversione e della preghiera, poiché l'ostacolo per eccellenza alla instaurazione della giustizia e della pace si trova nel cuore dell'uomo, nel peccato (cfr. Gaudium et Spes, 10), come era nel cuore di Caino, che rifiutava il dialogo col suo fratello Abele (cfr. Gen 4,6-9). Gesù ci ha insegnato come ascoltare, condividere, come fare agli altri ciò che si vorrebbe per se stessi, come risolvere le controversie mentre si cammina assieme (cfr. Mt 5,25), come perdonare. E soprattutto, con la sua morte e risurrezione, Egli è venuto a liberarci dal peccato che ci oppone gli uni agli altri, a darci la sua pace, ad abbattere il muro che separa i popoli. Questo è il motivo per il quale la Chiesa non cessa di pregare il Signore di concedere agli uomini il dono della sua pace, come sottolineava il messaggio dello scorso anno. Gli uomini non sono più destinati a non comprendersi e a dividersi, come in Babele (cfr. Gen 11,7-9). A Gerusalemme, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo fece ritrovare ai primi discepoli del Signore, al di là della diversità delle lingue, il cammino regale della pace nella fraternità. La Chiesa resta il testimone di questa grande speranza.

Possano i cristiani avere sempre più coscienza della loro vocazione ad essere, contro venti e maree, gli umili custodi di quella pace che, nella notte di Natale, Dio ha affidato agli uomini!

E possano, con loro, tutti gli uomini di buona volontà raccogliere questa sfida per il nostro tempo, anche in mezzo alle situazioni più difficili: fare di tutto, cioè, per evitare la guerra ed impegnarsi, pertanto, con accresciuta convinzione sulla via che ne allontana la minaccia: il dialogo per la pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 1982.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XVII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE NASCE DA UN CUORE NUOVO

1 gennaio 1984

 

Responsabili della vita politica delle nazioni; operatori della vita economica, sociale e culturale; giovani, che sperate in un mondo fraterno e solidale; e voi tutti, uomini e donne, che desiderate la pace!

Mi rivolgo a voi all'alba dell'anno 1984, che si annuncia dappertutto pieno di interrogativi e di angosce, ma anche ricco di speranze e di possibilità. Questo appello in occasione della XVII giornata mondiale della pace mi sgorga dal più profondo del cuore, e io so di interpretare il desiderio di molti uomini e donne che in un mondo diviso aspirano alla fraternità. Il messaggio che v'invio è a un tempo semplice ed esigente, perché riguarda ciascuno di voi personalmente, sollecita ciascuno ad offrire il suo contributo di collaborazione allo stabilimento della pace nel mondo, senza scaricarne il peso sugli altri. Il tema che oggi propongo alla vostra riflessione e azione è questo: «La pace nasce da un cuore nuovo».

1. Una situazione paradossale

Al giorno d'oggi non si può non rimanere colpiti dalle ombre e dalle minacce, senza dimenticare peraltro le luci e le speranze. In realtà, la pace è precaria, mentre l'ingiustizia abbonda. In numerosi paesi sono in corso guerre implacabili, le quali si protraggono malgrado l'accumularsi dei morti, dei lutti, delle rovine, e senza che ci si incammini, a quanto appare, verso una soluzione. La violenza e il terrorismo fanatico non risparmiano altri paesi, e sono gli innocenti che, troppe volte, ne fanno le spese, mentre le passioni si esasperano e la paura rischia di condurre a passi estremi. In numerose regioni sono violati i diritti dell'uomo, irrise le libertà, mantenute ingiustamente le detenzioni, perpetrate per ragioni di parte esecuzioni sommarie, e l'umanità, in questo ventesimo secolo che ha visto moltiplicarsi le dichiarazioni e le istanze di ricorso, ne è male informata o, se lo è, resta pressoché impotente ad arrestare tali abusi. Numerosi paesi si battono penosamente per vincere al loro interno la fame, le malattie, il sottosviluppo, mentre altri ben forniti rafforzano le loro posizioni e la corsa agli armamenti continua sconsideratamente ad assorbire risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate. L'accumulo delle armi convenzionali, chimiche, batteriologiche e, soprattutto, nucleari fa pesare una grave minaccia sull'avvenire delle nazioni, specialmente in Europa, e giustamente preoccupa le popolazioni. Si avverte diffusa nell'opinione pubblica una nuova e grave inquietudine, che io ben comprendo.

Il mondo odierno è come prigioniero in una rete di tensioni. La tensione tra ciò che comunemente si chiama l'Est e ciò che si chiama l'Ovest non intacca soltanto le relazioni tra le nazioni direttamente interessate, ma segna anche, e anzi aggrava, molte altre situazioni difficili esistenti altrove nel mondo. Dinanzi a un tale stato di cose, bisogna prendere coscienza del formidabile pericolo che questa tensione crescente e questa polarizzazione su vasta scala rappresentano, soprattutto se si pensa ai mezzi di distruzione massiccia e inaudita dei quali si dispone. Ciononostante, pur essendo ben coscienti di questo pericolo, i protagonisti incontrano una grande difficoltà, per non dire impotenza, nell'arrestare un tale processo, nel reperire mezzi atti ad alleggerire le tensioni mediante passi concreti per la «de-escalation», per la riduzione degli armamenti, per l'intesa, il che permetterebbe di consacrare maggiori sforzi agli obiettivi prioritari del progresso economico, sociale, culturale.

Se la tensione tra l'Est e l'Ovest, col suo retroterra ideologico, accaparra l'attenzione e suscita timore in un gran numero di paesi, soprattutto dell'emisfero settentrionale, essa non deve nasconderne un'altra più fondamentale ancora tra il Nord e il Sud che riguarda la vita stessa di una gran parte dell'umanità. Si tratta del crescente contrasto tra i paesi che hanno avuto la possibilità di accelerare il loro sviluppo e di accrescere le loro ricchezze, e i paesi bloccati nel sottosviluppo. Proprio qui sta un'altra fonte enorme di opposizione, di acredine, di ribellione o di paura, tanto più che essa è alimentata da molteplici ingiustizie.

E' davanti a questi giganteschi problemi che io propongo il tema del rinnovamento del «cuore». Si potrebbe pensare che simile proposta sia troppo semplice e il mezzo sproporzionato. E tuttavia, a ben riflettervi, l'analisi qui abbozzata consente di andare al fondo della questione ed è tale da rimettere in discussione certi presupposti che minacciano appunto la pace. L'impotenza, nella quale si trova l'umanità, di risolvere le tensioni, rivela che gli intoppi o, al contrario, le speranze derivano da qualcosa di più profondo degli stessi sistemi.

2. La guerra nasce nello spirito dell'uomo

E' mia profonda convinzione, è il filo conduttore della Bibbia e del pensiero cristiano, è - come spero - un'intuizione di molti uomini di buona volontà che la guerra prenda origine dal cuore dell'uomo. E' l'uomo che uccide, e non la sua spada e neppure, oggi, i suoi missili.

Il «cuore», nel senso biblico, è il fondo più intimo della persona umana nella sua relazione col bene, con gli altri, con Dio. Non si tratta tanto della sua affettività, ma piuttosto della sua coscienza, delle sue convinzioni, del sistema di pensiero, al quale essa si rifà, come anche delle passioni che la coinvolgono. E' col cuore che l'uomo è sensibile ai valori assoluti del bene, alla giustizia, alla fraternità, alla pace.

La sregolatezza del cuore è, in particolare, quella della coscienza, allorché essa chiama bene o male ciò che intende scegliere in base ai suoi interessi materiali o alla sua volontà di potenza. La stessa complessità dell'esercizio del potere non impedisce che vi sia sempre una responsabilità della coscienza individuale nella preparazione, nello scatenamento o nell'estensione di un conflitto; il fatto poi che la responsabilità sia condivisa da un gruppo nulla cambia al principio.

Ma questa coscienza è spesso sollecitata, per non dire asservita, da sistemi socio-politici e ideologici che sono pur essi opera dello spirito umano. Nella misura in cui gli uomini si lasciano sedurre da sistemi che presentano una visione globale esclusiva e quasi manichea dell'umanità e fanno della lotta contro gli altri, della loro eliminazione o del loro asservimento la condizione del progresso, essi si chiudono in una mentalità di guerra, che irrigidisce le tensioni, e così si rendono quasi incapaci di dialogo. L'adesione incondizionata a tali sistemi diviene a volte una sorta di idolatria del potere, della forza, della ricchezza, una forma di schiavitù che toglie la libertà agli stessi governanti.

Al di là dei sistemi ideologici propriamente detti, sono d'altra parte molteplici le passioni che sviano il cuore umano e lo spingono alla guerra. Per questa ragione, gli uomini possono lasciarsi trascinare fino a un senso di superiorità razziale e all'odio verso gli altri, o anche alla gelosia, alla brama della terra o delle risorse altrui o, in generale, alla volontà di potenza, all'orgoglio, al desiderio di estendere il proprio dominio su altri popoli, da essi disprezzati.

Certo, le passioni nascono spesso da reali frustrazioni degli individui e dei popoli, allorché altri hanno rifiutato di garantire la loro esistenza o i sistemi sociali sono in ritardo rispetto al buon uso della democrazia e alla condivisione dei beni. L'ingiustizia è già un grave peccato nel cuore dell'uomo sfruttatore; ma a volte le passioni sono alimentate di proposito. Difficilmente una guerra può essere scatenata se, da una parte e dall'altra, le popolazioni non provano forti sentimenti di reciproca ostilità, o se non sono persuase che le loro pretese contrastanti toccano gli stessi loro interessi vitali. E' questo appunto che spiega le manipolazioni ideologiche provocate da una volontà aggressiva. Una volta scatenate le lotte, l'ostilità non fa che crescere, poiché si nutre delle sofferenze e atrocità che si accumulano da una parte e dall'altra. Possono risultarne delle psicosi di odio.

Il fatto, dunque, di ricorrere alla violenza e alla guerra deriva in ultima analisi dal peccato dell'uomo, dall'accecamento del suo spirito e dalla sregolatezza del suo cuore, che invocano il motivo dell'ingiustizia per aumentare o irrigidire la tensione o il conflitto.

Sì, la guerra nasce veramente nel cuore dell'uomo che pecca, da quando la gelosia e la violenza hanno invaso il cuore di Caino nei confronti del fratello Abele, secondo l'antico racconto biblico. E non si tratta, in realtà, di una rottura ancora più profonda, quando gli uomini diventano incapaci di accordarsi circa la distinzione fra il bene e il male, e circa i valori della vita, dei quali Dio è sorgente e garante? E ciò non spiega forse quella «deriva» del cuore dell'uomo che non riesce a fare la pace con i suoi simili sulla base della verità, con vera rettitudine e sincera benevolenza?

Il ristabilimento della pace sarebbe anch'esso di breve durata e del tutto illusorio, se non ci fosse un vero mutamento del cuore. La storia ci ha insegnato che anche le «liberazioni», per le quali un paese aveva tanto sospirato mentre era sotto occupazione o le sue libertà erano soffocate, hanno deluso nella misura in cui i responsabili e i cittadini hanno conservato la loro grettezza di spirito con le connesse intolleranze e durezze, senza superare i loro antagonismi. Nella Bibbia stessa i profeti hanno denunciato queste liberazioni effimere, quando il cuore non era veramente cambiato, cioè «convertito».

3. La pace nasce da un cuore nuovo

Se gli attuali sistemi generati dal «cuore» dell'uomo si rivelano incapaci di assicurare la pace, è il «cuore» dell'uomo che occorre rinnovare, per rinnovare i sistemi, le istituzioni e i metodi. La fede cristiana ha un termine per designare questo cambiamento radicale del cuore: esso è «conversione». In linea di massima, si tratta di ritrovare la chiaroveggenza e l'imparzialità insieme con la libertà di spirito, il senso della giustizia insieme col rispetto dei diritti dell'uomo, il senso dell'equità con la solidarietà mondiale tra ricchi e poveri, la fiducia reciproca e l'amore fraterno.

Sarebbe necessario, innanzitutto, che le persone e i popoli acquistassero una reale libertà di spirito per prendere coscienza degli sterili atteggiamenti del passato, del carattere chiuso e parziale dei sistemi filosofici e sociali che partono da presupposti discutibili e riducono l'uomo e la storia a un campo ristretto di forze materialiste, che poggiano unicamente sulla potenza delle armi o dell'economia, che rinchiudono gli uomini in categorie del tutto in contrasto le une con le altre, che esaltano soluzioni a senso unico, che non tengono conto delle complesse realtà nella vita delle nazioni e impediscono a queste ultime di trattarle liberamente. E' necessario, dunque, rimettere in discussione quei sistemi che conducono manifestamente a un punto morto, congelano il dialogo e l'intesa, sviluppano la diffidenza, accrescono la minaccia e il pericolo, senza risolvere i problemi reali, senza offrire una sicurezza vera, senza rendere i popoli veramente felici, pacifici e liberi. Questa trasformazione in profondità dello spirito e del cuore esige certamente un grande coraggio, il coraggio dell'umiltà e della lucidità; essa deve raggiungere la mentalità collettiva, partendo dalla coscienza delle persone. E' utopistico sperarlo? L'impotenza e il pericolo, in cui i nostri contemporanei si trovano, li spingono a non rimandare oltre questo ritorno alla verità, che sola li renderà liberi e capaci di creare sistemi migliori. E' questa, la prima condizione per un «cuore nuovo».

Gli altri elementi positivi sono ben conosciuti, e basterà richiamarli. La pace è autentica solo se è il frutto della giustizia: «opus iustitiae pax», come diceva già il profeta Isaia (cf. Is 32,17), ed è giustizia tra le parti sociali, giustizia tra i popoli. Una società poi è giusta, è umana solo se rispetta i diritti fondamentali della persona umana. Del resto, lo spirito di guerra sorge e matura là dove sono violati i diritti inalienabili dell'uomo. Anche se la dittatura e il totalitarismo soffocano per un certo tempo il gemito degli uomini sfruttati e oppressi, l'uomo giusto conserva in se stesso la convinzione che nulla può legittimare tale violazione dei diritti dell'uomo. Egli ha il coraggio di difendere gli altri che soffrono e rifiuta di capitolare davanti all'ingiustizia, di compromettersi con essa; e, per quanto ciò sembri paradossale, anche colui che vuole profondamente la pace rigetta ogni pacifismo che equivalga a debolezza o a semplice mantenimento della tranquillità. In effetti, quelli che sono tentati di imporre il loro dominio incontreranno sempre la resistenza di uomini e donne intelligenti e coraggiosi, pronti a difendere la libertà per promuovere la giustizia.

L'equità vuole anche che si rafforzino i rapporti di giustizia e di solidarietà con i paesi poveri e, in particolar modo, con quelli della miseria e della fame. L'espressione di Paolo VI è ormai diventata convinzione di molti: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». I paesi ricchi escono così dal loro egoismo collettivo per pensare in termini nuovi gli scambi e gli aiuti reciproci, aprendosi a un orizzonte planetario.

Più ancora, un cuore nuovo s'impegna a far sì che scompaiano la paura e la psicosi della guerra. All'assioma secondo cui la pace risulterebbe dall'equilibrio degli armamenti, esso sostituisce il principio che la vera pace non può edificarsi se non nella fiducia reciproca (cf. «Pacem in Terris», 113). Certamente, resta vigile e lucido per svelare le menzogne e le manipolazioni, e avanzare con prudenza. Ma osa intraprendere e riprendere instancabilmente quel dialogo, che fu già oggetto del mio messaggio l'anno scorso.

In definitiva, un cuore nuovo è quello che si lascia ispirare dall'amore. Già il pontefice Pio XI affermava che non può esserci «vera pace esterna tra gli uomini e tra i popoli ove non è pace interna, ove cioè lo spirito di pace non possiede le intelligenze e i cuori...; le intelligenze per riconoscere e rispettare le ragioni della giustizia, i cuori perché alla giustizia si associ, anzi prevalga, la carità; giacché se la pace deve essere opera e frutto della giustizia, essa... appartiene piuttosto alla carità che alla giustizia» (Discorso del 24 dicembre 1930, in AAS 22 (1930) 535). Si tratta di rinunciare alla violenza, alla menzogna, all'odio, di diventare - nelle intenzioni, nei sentimenti e in tutto il comportamento - un essere fraterno che riconosce la dignità e i bisogni dell'altro, e cerca di cooperare con esso per creare un mondo di pace.

4. Appello ai responsabili della politica e dell'opinione pubblica

Poiché è necessario acquisire un cuore nuovo, promuovere una mentalità nuova di pace, ogni uomo e ogni donna, qualunque sia il suo posto nella società, può e deve assumere effettivamente la propria parte di responsabilità nella costruzione di una vera pace nell'ambiente in cui vive: famiglia, scuola, impresa, città. Nelle sue preoccupazioni e conversazioni, nella sua azione deve sentirsi interessato a tutti i fratelli e sorelle che fanno parte della medesima famiglia umana, anche se vivono agli antipodi.

Ma evidentemente la responsabilità comporta dei gradi. Quella dei capi di stato, dei dirigenti politici è di primaria importanza per lo stabilimento e lo sviluppo di relazioni pacifiche tra le diverse componenti della nazione e tra i popoli. Più degli altri, essi devono esser convinti che la guerra è in sé irrazionale, e che il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell'uomo. Certamente, occorre prendere in considerazione la presenza massiccia della violenza nella storia umana. E' il senso della realtà al servizio della preoccupazione fondamentale della giustizia che impone il mantenimento del principio di legittima difesa in una tale storia. Ma i rischi spaventosi delle armi di distruzione massiccia devono condurre all'elaborazione di processi di cooperazione e di disarmo che rendano la guerra praticamente impensabile. Bisogna «guadagnare» la pace. A maggior ragione la coscienza dei responsabili politici deve loro interdire di lasciarsi coinvolgere in avventure pericolose, in cui la passione prevale sulla giustizia, di sacrificarvi inutilmente la vita dei propri concittadini, di attizzare i conflitti presso gli altri, di prender pretesto dalla precarietà della pace in una regione per estendere la propria egemonia in nuovi territori. Questi dirigenti devono pesare tutto ciò nella loro anima e coscienza e bandire il machiavellismo; ne renderanno conto ai loro popoli e a Dio.

Ma io ripeto che la pace è un dovere per tutti. Le organizzazioni internazionali hanno anch'esse un grande ruolo per far prevalere soluzioni universali, al di sopra dei punti di vista di parte. E il mio appello si rivolge in maniera speciale a tutti quelli che, tramite i mezzi di comunicazione, esercitano un'influenza sull'opinione pubblica, a tutti quelli che svolgono un'opera educativa tra i giovani e gli adulti: è ad essi che è affidata la formazione dello spirito di pace. Nella società non si può forse contare in maniera speciale sui giovani? Davanti all'avvenire minaccioso che intravedono, essi aspirano senza dubbio più degli altri alla pace, e molti sono pronti a consacrarvi la loro generosità e le loro energie. Diano essi prova di inventiva nel servirla, senza venir meno alla lucidità e, dunque, al coraggio di vagliare tutti gli aspetti delle soluzioni a lungo termine! In definitiva, tutti - uomini e donne - devono concorrere alla pace nella complementarità della loro sensibilità e del loro ruolo proprio. Così anche le donne, legate intimamente al mistero della vita, possono far molto per promuovere lo spirito di pace, con la loro cura di assicurare la preservazione della vita e con la loro convinzione che il vero amore è la sola forza che può rendere il mondo abitabile per tutti.

5. Appello ai cristiani

Cristiani, discepoli di Gesù, presi nelle tensioni della nostra epoca, noi dobbiamo ricordarci che non c'è beatitudine, se non per gli «operatori di pace» (cf. Mt 5,9).

La Chiesa vive l'Anno Santo della Redenzione: essa, tutta intera, è invitata a lasciarsi afferrare dal Salvatore che, al momento di compiere il supremo atto di amore, disse agli uomini: «Vi do la mia pace» (cf. Gv 14,27). In essa ognuno deve condividere con tutti i suoi fratelli l'annunzio della salvezza e il vigore della speranza.

Il Sinodo dei Vescovi sulla riconciliazione e la penitenza ha testé ricordato la prima parola del Cristo: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Il messaggio dei padri sinodali ci indica per quale via dobbiamo avanzare per essere realmente operatori di pace: «La Parola ci invita al pentimento. "Cambia il tuo cuore, essa dice, ricerca il perdono, e lasciati riconciliare con il Padre". Il disegno del Padre per la nostra società è che noi abbiamo a vivere formando una sola famiglia nella giustizia, nella verità, nella libertà e nell'amore» (cf. Regno-Documenti 21/1983, 654). Questa famiglia sarà riunita in una pace profonda, soltanto se noi ascolteremo l'appello a ritornare al Padre e a riconciliarci con Dio stesso.

Rispondere a questo appello, collaborare al disegno di Dio e lasciare che il Signore ci converta. Non contiamo solamente sulle nostre forze, né solamente sulla nostra volontà, la quale troppo spesso vien meno. Che la nostra vita si lasci trasformare, perché «tutto viene da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante il Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18).

Riscopriamo la forza della preghiera: pregare è accordarci con colui che invochiamo, che incontriamo e che ci fa vivere. Fare l'esperienza della preghiera è accogliere la grazia che ci cambia; lo Spirito, unito al nostro spirito, ci impegna a conformare la nostra vita alla parola di Dio. Pregare è entrare nell'azione di Dio sulla storia: protagonista sovrano della storia, egli ha voluto fare degli uomini i suoi collaboratori.

Paolo ci dice del Cristo: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14). Noi sappiamo quale potenza di misericordia ci trasformi nel sacramento della riconciliazione. Questo dono ci colma perfettamente. Per questo, in tutta lealtà, non possiamo rassegnarci alle divisioni e agli scontri, che ci oppongono gli uni agli altri, mentre condividiamo la stessa fede; non possiamo accettare senza reagire che si prolunghino i conflitti che infrangono l'unità del genere umano, chiamato a diventare un solo corpo. Se celebriamo il perdono, come possiamo combatterci senza fine? Possiamo restare avversari, mentre invochiamo lo stesso Dio vivente? Se la legge d'amore del Cristo è la nostra legge, resteremo muti e inoperosi nel momento in cui il mondo ferito attende che ci mettiamo in prima fila tra coloro che costruiscono la pace?

Umili e coscienti della nostra debolezza, andiamo alla mensa eucaristica, dove colui che consegna la sua vita per la moltitudine dei suoi fratelli ci dona un cuore nuovo, e dove egli mette in noi uno spirito nuovo (cf. Ez 36,26). Dal più profondo della nostra povertà e del nostro smarrimento rendiamo grazie per mezzo di lui, perché egli ci unisce con la sua presenza e col dono di se stesso, egli «che è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17). E se ci è dato di accoglierlo, è anche nostro dovere essere suoi testimoni mediante la nostra opera fraterna in tutti i cantieri della pace.

4. Conclusione

La pace è multiforme. C'è la pace tra le nazioni, la pace nella società, la pace tra i cittadini, la pace tra le comunità religiose, la pace all'interno delle imprese, dei quartieri, dei villaggi e, in particolare, la pace in seno alle famiglie. Rivolgendomi ai cattolici, e anche agli altri fratelli cristiani e agli uomini di buona volontà, ho denunciato un certo numero di ostacoli alla pace. Essi sono gravi e comportano serie minacce. Ma poiché dipendono dallo spirito, dalla volontà e dal «cuore» umano, con l'aiuto di Dio gli uomini possono superarli. Devono rifiutarsi di cedere al fatalismo e allo scoraggiamento. Alcuni segni positivi traspaiono già attraverso le ombre. L'umanità prende coscienza dell'indispensabile solidarietà che lega tra loro popoli e nazioni per la soluzione della maggior parte dei grandi problemi: occupazione, utilizzazione delle risorse terrestri e cosmiche, promozione dei paesi meno favoriti, sicurezza. La riduzione degli armamenti, controllata e generalizzata, è considerata da molti come una necessità vitale. Si moltiplicano le istanze perché si faccia tutto il possibile affinché la guerra scompaia dagli orizzonti dell'umanità. Si moltiplicano pure gli appelli al dialogo, alla collaborazione e alla riconciliazione, mentre sorgono numerose iniziative. Il papa ben volentieri le incoraggia.

«Beati gli operatori di pace!». E sia sempre unita, in quest'opera, la lucidità alla generosità! E sia più vera la pace, radicandosi nel cuore stesso dell'uomo! Sia ascoltato il grido degli uomini martoriati, che attendono la pace! Ciascuno impegni tutta l'energia di un cuore rinnovato e fraterno nel costruire la pace in tutto l'universo!

8 dicembre 1983.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE E I GIOVANI CAMMINANO INSIEME

1 gennaio 1985

 

A tutti voi, che credete nell'urgente necessità della pace;
a voi, genitori ed educatori, che volete essere i promotori della pace;
a voi, uomini politici, che avete diretta responsabilità nella causa della pace;
a voi, uomini e donne di cultura, che cercate di costruire la pace nella civiltà di oggi;
a tutti voi, che soffrite per la causa della pace e della giustizia;
e soprattutto a voi tutti, giovani del mondo, le cui decisioni circa le vostre persone e la vostra vocazione nella società determineranno le prospettive per la pace di oggi e di domani;
a tutti voi e a tutte le persone di buona volontà indirizzo questo mio messaggio per la celebrazione della XVIII Giornata mondiale della pace, perché la pace è una cosa di interesse primario, una sfida ineludibile, una speranza immensa.

1. I problemi e le speranze del mondo ci si pongono di fronte ogni giorno

E' vero: la sfida della pace è sempre attuale. Noi viviamo in un tempo difficile, in cui sono molte le minacce di violenza distruttiva e di guerra. Profondi contrasti mettono differenti gruppi sociali, popoli e nazioni gli uni contro gli altri. Ci sono numerose situazioni di ingiustizia, che non esplodono in aperti conflitti soltanto perché la violenza di quelli che detengono il potere è così grande da privare quelli che non l'hanno dell'energia e della possibilità di rivendicare i loro diritti. Sì, ci sono oggi persone a cui dai regimi totalitari e dai sistemi ideologici è negato di esercitare il loro diritto fondamentale di decidere da soli circa il proprio futuro. Uomini e donne oggi soffrono insopportabili offese alla propria dignità umana a causa di discriminazioni razziali, di esilii forzati e di torture. Sono vittime della fame e della malattia. Sono impediti di praticare le loro credenze religiose o di sviluppare la loro propria cultura.

E' importante discernere le cause ultime di questa situazione di conflitto, che rende la pace precaria ed instabile. L'effettiva promozione della pace esige, da parte nostra, che non ci si limiti a deplorare gli effetti negativi della presente situazione di crisi, di conflitto e di ingiustizia: ciò che effettivamente si richiede da noi è di distruggere le radici che causano questi effetti. E tali cause ultime sono da ricercare specialmente nelle ideologie che hanno dominato il nostro secolo e continuano a dominarlo, manifestandosi in sistemi politici, economici e sociali ed influenzando lo stesso modo di pensare della gente. Queste ideologie sono contrassegnate da un atteggiamento totalitario, che disattende ed opprime la dignità ed i valori trascendenti della persona umana e dei suoi diritti. Un tale atteggiamento cerca di arrivare al dominio politico, economico e sociale con tale rigidità di intento e di metodo, da chiudersi a qualsiasi autentico dialogo o reale partecipazione. Alcune di queste ideologie si sono addirittura trasformate in una sorta di falsa religione secolaristica, che pretende di portare salvezza all'umanità tutta intera, ma senza produrre una qualsiasi prova a sostegno della propria verità.

Ora la violenza e l'ingiustizia hanno profonde radici nel cuore di ciascun individuo, di ciascuno di noi, nel quotidiano modo di pensare e di comportarsi. Basterebbe solo pensare ai conflitti e divisioni all'interno delle famiglie, tra le coppie sposate, tra genitori e figli, nelle scuole, nella vita professionale, nelle relazioni tra i gruppi sociali e tra le generazioni. Basterebbe solo pensare ai casi nei quali viene violato il diritto fondamentale alla vita dei più deboli e più indifesi esseri umani.

Dinnanzi a questi e molti altri mali, tuttavia, non c'è ragione di perdere la speranza, tanto abbondanti sono le energie che continuamente erompono dai cuori delle persone che credono nella giustizia e nella pace. La presente crisi può e deve diventare occasione per una conversione e per un rinnovamento delle mentalità. Il tempo che stiamo vivendo non è solo un periodo di pericolo e di preoccupazione. Esso è anche un'ora di speranza.

2. La pace e i giovani camminano insieme

Le presenti difficoltà sono realmente un «test» della nostra umanità. Esse possono costituire una svolta decisiva sulla via di una pace durevole, perché accendono i sogni più audaci e sprigionano le migliori energie di mente e di cuore. Le difficoltà sono una sfida per tutti; la speranza è un imperativo per tutti. Ma oggi io voglio attirare la vostra attenzione sul ruolo che la gioventù è chiamata a svolgere nello sforzo di promuovere la pace. Mentre ci prepariamo ad entrare in un nuovo secolo e in un nuovo millennio, dobbiamo renderci conto del fatto che il futuro della pace e, quindi, il futuro dell'umanità sono affidati, in modo speciale, alle fondamentali scelte morali che una nuova generazione di uomini e di donne è chiamata a fare. Tra pochissimi anni i giovani di oggi avranno la responsabilità della vita delle famiglie e della vita delle nazioni, del bene comune di tutti e della pace. I giovani hanno già cominciato a chiedersi in tutto il mondo: Che cosa posso fare io? Che cosa possiamo fare noi? Dove ci conduce il nostro sentiero? Essi vogliono portare il loro contributo al risanamento di una società ferita e indebolita. Essi vogliono offrire nuove soluzioni a vecchi problemi. Essi vogliono costruire una nuova civiltà, imperniata sulla solidarietà fraterna. Prendendo ispirazione da questi giovani, desidero invitare ciascuno a riflettere su queste realtà. Ma intendo rivolgermi in modo speciale e diretto ai giovani di oggi e di domani.

3. Giovani, non abbiate paura della vostra giovinezza!

Il primo invito che voglio rivolgervi, giovani uomini e donne di oggi, è questo: Non abbiate paura! Non abbiate paura della vostra giovinezza e di quei profondi desideri che provate di felicità, di verità, di bellezza e di durevole amore! Si dice qualche volta che la società ha paura di questi potenti desideri dei giovani e che voi stessi ne avete paura. Non abbiate paura! Quando io guardo a voi, giovani, sento una grande gratitudine e speranza. Il futuro a lungo termine nel prossimo secolo sta nelle vostre mani. Il futuro di pace sta nei vostri cuori. Per costruire la storia, come voi potete e dovete, è necessario che la liberiate dai falsi sentieri che sta percorrendo. Per far questo dovete essere persone con una profonda fiducia nell'uomo ed una profonda fiducia nella grandezza della vocazione umana, una vocazione da perseguire nel rispetto per la verità, per la dignità e per gli inviolabili diritti della persona umana.

Quello che vedo sorgere in voi è una nuova consapevolezza della vostra responsabilità ed una schietta sensibilità per i bisogni della comunità umana. Voi siete presi dal vivo desiderio della pace, che tanti condividono con voi. Voi siete turbati dalle grandi ingiustizie, che ci circondano. Voi avvertite un opprimente pericolo nel gigantesco accumulo di armi e nelle minacce di una guerra nucleare. Voi soffrite, quando vedete largamente diffuse la fame e la denutrizione. Voi siete interessati allo stato dell'ambiente, oggi e per le generazioni future. Voi siete minacciati dalla disoccupazione, e molti di voi sono senza lavoro e senza la prospettiva di un impiego adeguato. Voi siete sconvolti dal grande numero di persone, che sono politicamente e spiritualmente oppresse e che non possono godere dell'esercizio dei loro diritti umani fondamentali sia come individui che come comunità. Tutto questo può farvi pensare che la vita sia povera di significato.

In questa situazione, alcuni di voi possono esser tentati di rifuggire dalle responsabilità: negli illusori mondi dell'alcool e della droga, nelle fugaci relazioni sessuali senza impegno per il matrimonio e la famiglia, nell'indifferenza, nel cinismo e perfino nella violenza. State in guardia contro l'inganno di un mondo che vuole sfruttare o far deviare la vostra energica e potente ricerca della felicità e del senso della vita. Ma non evitate la ricerca delle risposte vere alle domande che vi stanno di fronte. Non abbiate paura!

4. La domanda inevitabile: qual è la vostra idea dell'uomo?

Fra le domande inevitabili, che dovete porre a voi stessi, la prima e la principale è questa: qual è la vostra idea dell'uomo? Che cosa, secondo voi, costituisce la dignità e la grandezza di un essere umano? Questa è una domanda che voi giovani dovete porre a voi stessi, ma che ponete anche alla generazione che vi ha preceduto, ai vostri genitori ed a tutti coloro che, a vari livelli, hanno avuto la responsabilità di preoccuparsi dei beni e valori del mondo. Nel tentativo di rispondere onestamente e apertamente a questa domanda, giovani e vecchi possono esser condotti a riconsiderare le loro proprie azioni e le loro proprie vicende. Non è vero che molto spesso, specialmente nelle nazioni più ricche e sviluppate, la gente ha ceduto ad una concezione materialistica della vita? Non è vero che i genitori talvolta ritengono di aver assolto i loro obblighi verso i figli offrendo ad essi, oltre alla soddisfazione delle necessità basilari, più beni materiali che risposte per la loro vita? Non è vero che, così facendo, essi trasmettono alle generazioni più giovani un mondo che sarà povero di valori spirituali essenziali, povero di pace e povero di giustizia? Non è vero parimenti che in altre nazioni il fascino di certe ideologie ha lasciato alle generazioni più giovani un'eredità di nuove forme di asservimento, senza la libertà di perseguire i valori che veramente elevano la vita in tutti i suoi aspetti? Chiedete a voi stessi quale tipo di persone voi e gli esseri umani vostri simili volete essere, quale tipo di cultura volete forgiare. Ponete a voi stessi queste domande e non abbiate paura delle risposte, anche se esse richiederanno da voi un cambiamento di direzione nei vostri pensieri e nei vostri impegni.

5. La domanda fondamentale: chi è il vostro Dio?

La prima domanda conduce ad un'altra domanda ancor più basilare e fondomentale: chi è il vostro Dio? Noi non possiamo definire la nostra nozione di uomo senza definire un Assoluto, una pienezza di verità, di bellezza e di bontà, da cui riconosciamo che sono guidate le nostre vite. E vero, quindi, che un essere umano, «immagine visibile del Dio invisibile», non può rispondere alla domanda circa chi sia lui senza dichiarare al tempo stesso chi sia il suo Dio. E' impossibile restringere questa domanda alla sfera dell'esistenza privata della gente. E' impossibile separare questa domanda dalla storia delle nazioni. Oggi una persona è esposta alla tentazione di rifiutare Dio in nome della sua propria umanità. Dovunque esiste questo rifiuto, lì c'è un'ombra di paura che stende come una coltre che offusca lo sguardo. La paura nasce dovunque Dio muore nella coscienza degli essere umani. Ognuno sa, sebbene oscuramente e con timore, che dovunque Dio muore nella coscienza della persona umana, lì segue inevitabilmente la morte dell'uomo, ch'è immagine di Dio.

6. La vostra risposta. Scelte basate sui valori

Qualunque risposta voi diate a queste due domande tra loro connesse, segnerete l'orientamento per il resto della vostra vita. Ognuno di noi, durante gli anni della propria giovinezza, ha dovuto affrontare queste domande e, a un certo punto, è dovuto giungere ad una qualche conclusione, che ha modellato le sue future scelte, la futura strada e la futura sua vita. La risposta che voi, giovani, date a queste domande determinerà anche il modo in cui risponderete alle grandi sfide della pace e della giustizia. Se avete deciso che il vostro Dio siete voi stessi senza nessun riguardo per gli altri, voi diventerete strumenti di divisione e di inimicizia, addirittura strumenti di guerra e di violenza. Ciò dicendo, desidero farvi rilevare l'importanza di scelte che inglobano valori. I valori sono i supporti delle scelte che determinano non solo le vostre vite, ma anche le linee di condotta e le strategie che costruiscono la vita nella società. E ricordate che non è possibile creare una dicotomia tra valori personali e sociali. Non si può vivere nell'incertezza: essere esigenti con gli altri e con la società, e decidere poi di vivere personalmente una vita basata sulla permissività.

Voi dovete, dunque, decidere su quali valori costruire la società. Le vostre scelte di adesso decideranno se nel futuro subirete la tirannia dei sistemi ideologici, che riducono le dinamiche della società alla logica della lotta di classe. I valori, che scegliete oggi, decideranno se le relazioni fra nazioni continueranno ad essere oscurate dalle tragiche tensioni che sono il prodotto di disegni nascosti o apertamente propagandati, miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta ed in cui la dignità della persona umana è sacrificata alle pretese di un'ideologia che tenta di divinizzare la collettività. I valori, per i quali voi vi impegnate nella vostra giovinezza, determineranno se sarete soddisfatti dell'eredità di un passato, in cui l'odio e la violenza soffocano l'amore e la riconciliazione. Dalle scelte, che ciascuno di voi fa oggi, dipenderà il futuro dei vostri fratelli e sorelle.

7. Il valore della pace

La causa della pace, la costante ed ineludibile sfida dei nostri giorni, vi aiuta a scoprire voi stessi ed i vostri valori. Lo stato delle cose è duro e drammatico. Sono spesi milioni per le armi; risorse di ordine materiale e intellettuale sono dedicate solamente alla produzione delle armi; esistono posizioni politiche che a volte non riconciliano e non uniscono i popoli, ma piuttosto erigono barriere ed isolano una nazione dall'altra. In tali circostanze un giusto senso di patriottismo può cader vittima di un'eccessiva partigianeria, ed un onorevole servizio in difesa del proprio Paese può dar luogo a un'interpretazione errata e perfino ridicola (cfr. Gaudium et Spes, 79). In mezzo ai numerosi ed allettanti appelli dell'egoismo, l'uomo e la donna di pace devono imparare a tener ben presenti, innanzitutto, i valori della vita e, quindi, procedere con fiducia per metter quei valori in pratica. L'appello ad essere operatori di pace poggerà allora fermamente sull'appello alla conversione del cuore, come ho suggerito nel messaggio per la Giornata mondiale della pace dello scorso anno. Esso sarà poi corroborato dall'impegno per un dialogo onesto e per leali negoziati, basati sul reciproco rispetto e collegati ad una realistica valutazione delle giuste esigenze e dei legittimi interessi di tutti gli interlocutori. Esso cercherà di ridurre le armi, la cui esistenza in grandi quantità suscita paura nel cuore delle persone. Esso spingerà a gettare ponti - culturali, economici, sociali, politici - che permetteranno un maggiore scambio tra le nazioni. Esso promuoverà la causa della pace come la causa propria di ciascuno non già con frasi propagandistiche, che condividono, o con azioni, che accendono passioni inutili, ma con la calma fiducia, ch'è frutto di impegno per i valori veri e per il bene di tutta l'umanità.

8. Il valore della giustizia

Il bene di tutta l'umanità è, in definitiva, la ragione per la quale voi dovete far vostra la causa della pace. Dicendo questo, vi invito a distogliere la vostra attenzione da un concentrarsi esclusivo sulla minaccia alla pace abitualmente riferita al problema Est-Ovest, ed a pensare, invece, al mondo intero e, quindi, anche alle tensioni del cosiddetto Nord-Sud. Come nel passato, così anche oggi desidero affermare che questi due problemi - la pace e lo sviluppo - sono tra loro connessi e devono essere affrontati insieme, se i giovani di oggi vogliono ereditare un mondo migliore domani.

Un aspetto di questa correlazione è l'impiego delle risorse per uno scopo (gli armamenti) piuttosto che per un altro (lo sviluppo). Ma la connessione reale non è semplicemente l'uso delle risorse, per quanto possa essere importante: essa è tra i valori che impegnano per la pace ed i valori che impegnano per lo sviluppo, nel loro vero senso. Poiché, come è certo che la vera pace esige di più che la pura e semplice assenza di guerra o soltanto lo smantellamento dei sistemi degli armamenti, così pure lo sviluppo, nel suo senso vero ed integrale, non può mai essere ridotto solamente ad un piano economico o ad una serie di progetti tecnologici, per quanto buoni possano essere. Nell'intera area del progresso, che noi chiamiamo «pace» e «giustizia», gli stessi valori devono essere applicati così come scaturiscono dall'idea che abbiamo intorno a chi è l'uomo ed a chi è Dio in rapporto all'intera razza umana. Gli stessi valori, che impegnano uno ad essere costruttore di pace, saranno quelli che lo spingono a promuovere lo sviluppo integrale di ciascun essere umano e di tutti i popoli.

9. Il valore della partecipazione

Un mondo di giustizia e di pace non può essere creato solo con le parole, né può essere imposto da forze esterne: esso dev'essere desiderato e deve risultare mediante il contributo di tutti. E' essenziale per ciascun essere umano avere il senso della partecipazione, cioè di esser «parte» nelle decisioni e negli sforzi che modellano il destino del mondo. La violenza e l'ingiustizia in passato hanno spesso trovato le loro cause di fondo nella sensazione che la gente ha di essere privata del diritto di modellare la sua propria vita. La violenza e l'ingiustizia non potranno in futuro essere evitate, quando e dove viene negato il fondamentale diritto a partecipare alle scelte della società. Ma questo diritto deve essere esercitato con discernimento. La complessità della vita nella società moderna esige che il popolo deleghi il potere decisionale ai suoi dirigenti. Esso deve poter avere fiducia che i suoi dirigenti prenderanno decisioni per il suo proprio bene e per quello di tutti i popoli. La partecipazione è un diritto, ma essa comporta anche obblighi: bisogna esercitarla nel rispetto per la dignità della persona umana. La fiducia reciproca tra cittadini e dirigenti è il frutto della pratica della partecipazione, e la partecipazione è una pietra angolare per la costruzione di un mondo di pace.

10. La vita: un pellegrinaggio di scoperta

Vi invito tutti, giovani del mondo, ad assumere la vostra responsabilità in questa che è la più grande delle avventure spirituali, cui una persona può andare incontro: costruire la vita umana, come individui e nella società, nel rispetto per la vocazione dell'uomo. E' giusto, infatti, affermare che la vita è un pellegrinaggio di scoperta: la scoperta di chi siete voi, la scoperta dei valori che modellano le vostre vite, la scoperta dei popoli e delle nazioni, ai quali tutti sono legati in solidarietà. Se un tale viaggio di scoperta è più che evidente nel tempo della giovinezza, è pure un viaggio che non finisce mai. Per tutto il tempo della vostra vita, voi dovete affermare e riaffermare i valori che formano voi stessi e formano il mondo: sono i valori che favoriscono la vita, che riflettono la dignità e la vocazione della persona umana, che costruiscono il mondo nella pace e nella giustizia.

Esiste fra i giovani un notevole ed amplissimo consenso circa la necessità della pace, e ciò costituisce una formidabile forza potenziale per il bene di tutti. Ma i giovani non devono accontentarsi di un istintivo desiderio di pace: tale desiderio dev'essere trasformato in una ferma convinzione morale, che abbraccia tutto l'ambito dei problemi umani e costruisce valori profondamente apprezzati. Il mondo ha bisogno di giovani che abbiano attinto con abbondanza alle sorgenti della verità. Voi dovete ascoltare la verità, e per questo avete bisogno della purezza di cuore; voi dovete comprenderla, e per questo avete bisogno di una profonda umiltà; voi dovete sottomettervi ad essa e condividerla, e per questo avete bisogno della forza per resistere alle tentazioni dell'orgoglio, dell'egoismo e della manipolazione. Voi dovete formare in voi stessi un profondo senso di responsabilità.

11. La responsabilità della gioventù cristiana

Io desidero ardentemente raccomandare questo senso di responsabilità e questo impegno per i valori morali a voi, giovani cattolici, ed insieme con voi a tutti i nostri fratelli e sorelle che confessano il signore Gesù. Come cristiani, voi siete coscienti di essere figli di Dio, partecipi della pienezza di Dio in Cristo (cfr. 1Gv 3,2; 2Pt 1,4; Ef 3,19). Cristo risorto vi dà, come suo primo dono, la pace e la riconciliazione. Dio, che è l'eterna pace, ha fatto pace col mondo per mezzo di Cristo, il principe della pace. Quella pace è stata infusa nei vostri cuori e vi dimora più in profondità di tutte le inquietudini delle vostre menti e di tutti i tormenti dei vostri cuori. La pace di Dio si prende cura delle vostre menti e dei vostri cuori. Dio vi dà la sua pace non come un possesso che potete accaparrarvi, ma come un tesoro che possedete solo quando lo condividete con gli altri.

In Cristo voi potete credere nel futuro, anche se non potete distinguerne i contorni. Voi potete affidarvi al Signore del futuro, e superare così il vostro scoraggiamento di fronte alla grandezza del compito ed al prezzo da pagare. Ai discepoli sgomenti sulla via di Emmaus il Signore disse: «Mon era necessario che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26). Il Signore rivolge queste stesse parole a ciascuno di noi. Per questo, non abbiate paura di impegnare le vostre vite nella pace e nella giustizia, perché voi sapete che il Signore è con voi in tutte le vostre vie.

12. L'Anno internazionale della gioventù

In quest'anno, che l'Organizzazione delle nazioni unite ha dichiarato Anno internazionale della gioventù, è stato mio desiderio indirizzare l'annuale messaggio per la giornata mondiale della pace a tutti voi giovani, quanti siete nel mondo. Possa quest'anno essere per ciascuno un anno di più profondo impegno per la pace e per la giustizia. Le scelte, che voi fate, siano fatte con coraggio e vissute con fedeltà e responsabilità. Quali che siano i sentieri per i quali v'incamminate, fate ciò con speranza e fiducia: speranza nel futuro che, con l'aiuto di Dio, voi potete costruire; fiducia nel Dio che veglia su di voi in tutto ciò che dite e fate. Quelli di noi che vi hanno preceduto desiderano condividere con voi un profondo impegno per la pace. Quelli che sono vostri contemporanei, si uniranno a voi nei vostri sforzi. Quelli che verranno dopo di voi, si ispireranno a voi nella misura in cui cercherete la verità e vivrete secondo autentici valori morali. La sfida della pace è grande, ma più grande ne è la ricompensa; infatti, impegnando voi stessi per la pace, scoprirete il meglio per voi stessi, come cercate il meglio per ciascun altro. Voi state crescendo, e con voi sta crescendo la pace.

Possa anche quest'Anno internazionale della gioventù costituire per i genitori e gli educatori l'occasione per gettare uno sguardo nuovo alle responsabilità che hanno verso i giovani. Troppo spesso la loro guida è rifiutata, e le loro azioni sono contestate. Eppure, essi hanno tanto da offrire in saggezza, coraggio ed esperienza. Il loro compito di accompagnare la gioventù nella ricerca del senso della vita non può essere assunto da nessun altro. Tuttavia, i valori ed i modelli, che essi presentano ai giovani, devono essere chiaramente ravvisati nella loro propria vita; diversamente, le loro parole non sarebbero convincenti e la loro vita sarebbe una contraddizione che i giovani giustamente rifiuterebbero.

Al termine di questo messaggio, io assicuro le mie preghiere in ogni giomo di questo Anno internazionale della gioventù, affinché i giovani rispondano all'appello per la pace. Esorto tutti i miei fratelli e sorelle ad unirsi con me in questa preghiera al nostro Padre celeste, perché egli voglia illuminare tutti noi che portiamo la responsabilità della pace, ma specialmente i giovani, affinché gioventù e pace possano realmente procedere insieme!

Dal Vaticano, 8 dicembre 1984.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PACE E' UN VALORE CHE NON HA FRONTIERE

1 gennaio 1986

 

1. La pace come valore universale

All'inizio del Nuovo Anno, traendo ispirazione da Cristo, Principe della Pace, desidero riaffermare il mio impegno e quello di tutta la Chiesa cattolica per questa nobile causa. Al tempo stesso, rivolgo a ciascun individuo ed a tutti i popoli della terra il mio cordiale saluto ed i miei buoni auguri: Pace a voi tutti! Pace a tutti i cuori! La pace è un valore di tale importanza, che deve essere nuovamente proclamata e promossa da tutti. Non c'è essere umano che non tragga beneficio da essa. Non c'è cuore umano che non si senta sollevato, quando essa regna. Tutte le nazioni del mondo possono realizzare pienamente i loro connessi destini solo se, insieme, perseguono la pace come valore universale.

In occasione di questa 19· Giornata Mondiale della Pace, nell'Anno Internazionale della Pace, proclamato dall'organizzione delle Nazioni Unite, io propongo a ciascuno, quale messaggio di speranza, il mio profondo convincimento: «La pace è valore che non ha frontiere». Essa è valore che corrisponde alle speranze ed alle aspirazioni di tutte le persone e di tutte le nazioni, dei giovani e dei vecchi, di tutti gli uomini e donne di buona volontà. Questo è ciò che dichiaro apertamente a ciascuno e, in special modo, ai capi del mondo.

La questione della pace come valore universale richiede di essere affrontata con estrema onestà intellettuale, con lealtà di spirito ed un acuto senso di responsabilità verso se stessi e verso le nazioni della terra. Io vorrei chiedere ai responsabili di quelle decisioni politiche che toccano le relazioni tra nord e sud, tra est ed ovest, di essere convinti che può esserci una pace soltanto. Coloro da cui dipende il futuro di questo mondo, a prescindere dalla loro filosofia politica, dal loro sistema economico o impegno religioso, sono tutti chiamati a contribuire all'edificazione di una unica pace sulla base della giustizia sociale e della dignità e dei diritti di ciascuna persona umana.

Un tal compito esige un'apertura radicale a tutta l'umanità, nella convinzione che tutte le nazioni del mondo sono tra loro collegate. Questo collegamento si esprime in un'interdipendenza, la quale in concreto può rivelarsi profondamente vantaggiosa o profondamene distruttiva. Di qui la solidarietà e la cooperazione su scala mondiale costituiscono degli imperativi etici, che si impongono alle coscienze degli individui ed alla responsabilità di tutte le nazioni. Ed è in questo contesto di imperativi etici che mi rivolgo al mondo intero per il 1· gennaio 1985, proclamando il valore universale della pace.

2. Le minacce alla pace

Nel prospettare questa visione di pace all'alba di un nuovo anno, noi siamo profondamente consapevoli che la pace nella presente situazione è anche un valore che poggia su fondamenta assai fragili. A prima vista, il nostro intendimento di fare della pace un imperativo assoluto può apparire utopistico, dal momento che il nostro mondo offre una così ampia dimostrazione di eccessivo interesse egoistico nel contesto di gruppi politici, ideologici ed economici contrapposti. Presi nella morsa di questi sistemi, i capi e i diversi gruppi sono portati a perseguire i loro scopi particolari e le loro ambizioni di potere, di avanzamento e di ricchezza, senza prendere sufficientemente in considerazione la necessità e il dovere della solidarietà e cooperazione internazionale a vantaggio del bene comune di tutti i popoli che compongono la umana famiglia.

In questa situazione si sono formati e si mantengono blocchi che dividono ed oppongono fra loro popoli, gruppi e individui, rendendo precaria la pace ed innalzando gravi ostacoli allo sviluppo. Le posizioni si irrigidiscono, e il desiderio eccessivo di mantenere il proprio vantaggio o di aumentare la propria parte diventa spesso l'effettiva ragione prevalente per l'azione. Questo conduce allo sfruttamento degli altri, mentre si sviluppa la spirale verso una polarizzazione che si nutre dei frutti dell'interesse egoistico e della crescente sfiducia negli altri. In una situazione simile, è il piccolo e il debole, il povero e chi non ha voce a soffrire di più. Ciò può avvenire direttamente, quando un popolo povero e relativamente indifeso è tenuto in soggezione dalla forza del potere. Ciò può avvenire indirettamente, quando il potere economico viene usato per privare le persone della loro legittima parte e per tenerle in soggezione sociale ed economica, suscitando malcontento e violenza. Gli esempi sono oggi, purtroppo, più che numerosi.

A questo riguardo, l'esempio più drammatico e incontestabile rimane lo spettro delle armi nucleari, che ha la sua origine precisamente nel contrasto tra Est ed Ovest. Le armi nucleari sono così potenti nella loro capacità distruttiva e le strategie nucleari sono così ampie ed estese nei loro piani, che l'immaginazione popolare è spesso paralizzata dalla paura. Tale paura non è senza fondamento. L'unica via per far fronte a questa giustificata paura delle conseguenze di una distruzione nucleare consiste nel tenere aperti i negoziati per la riduzione delle armi nucleari e per un reciproco accordo circa le misure, che valgano a diminuire la probabilità di una guerra nucleare. Io vorrei chiedere ancora una volta alle potenze nucleari di riflettere sulla loro gravissima responsabilità morale e politica in questo campo. E' un obbligo che alcuni hanno accettato anche giuridicamente in accordi internazionali; per tutti è un obbligo in ragione di una fondamentale corresponsabilità per la pace e lo sviluppo.

Ma la minaccia delle armi nucleari non è l'unica maniera per cui il conflitto è reso permanente e si è fatto più grave. Il crescente mercato delle armi - convenzionali, ma altamente sofisticate - sta causando risultati disastrosi. Mentre le maggiori potenze hanno evitato il conflitto diretto, le loro rivalità sono state spesso esportate in altre parti del mondo. Problemi locali e differenze regionali sono aggravate e perpetuate mediante gli armamenti messi a disposizione da paesi più ricchi e dall'ideologizzazione di conflitti locali da parte di potenze che cercano vantaggi regionali, sfruttando la condizione dei poveri e degli indifesi.

Il conflitto armato non è l'unica maniera per cui i poveri sopportano un'ingiusta parte del peso del mondo di oggi. I paesi in via di sviluppo devono affrontare formidabili sfide, anche quando sono liberi da un simile flagello. Nelle sue molteplici dimensioni, il sottosviluppo resta una minaccia ognor crescente per la pace mondiale.

In effetti, tra i paesi che formano il «blocco Nord» e quelli del «blocco Sud» esiste un abisso sociale ed economico che separa i ricchi dai poveri. Le statistiche degli anni recenti mostrano i segni di un miglioramento in pochi paesi, ma anche la prova di un ampliamento del divario in troppi altri. Oltre a ciò c'è la situazione finanziaria imprevedibile e fluttuante col suo diretto impatto su paesi con forti debiti in lotta per raggiungere un qualche positivo sviluppo.

In questa situazione la pace, come valore universale, è in grande pericolo. Anche se non ci fosse in atto alcun conflitto armato come tale, dove esiste ingiustizia, c'è di fatto una causa ed un fattore potenziale di conflitto. In ogni caso, una situazione di pace, nel pieno senso del suo valore, non può coesistere con l'ingiustizia. La pace non può essere ridotta alla mera assenza di conflitto: essa è la tranquillità e la pienezza dell'ordine. Essa è perduta a causa dello sfruttamento sociale ed economico da parte di speciali gruppi di interesse, che operano a livello internazionale o agiscono come «élites» all'interno dei paesi in via di sviluppo. Essa è perduta a causa delle divisioni sociali, che aizzano i ricchi contro i poveri tra gli Stati o dentro gli Stati. Essa è perduta, quando l'uso della forza produce gli amari frutti dell'odio e della divisione. Essa è perduta, quando lo sfruttamento economico e le tensioni interne nel tessuto sociale lasciano il popolo indifeso e disilluso, preda già pronta per le forze distruttive della violenza. Come valore, la pace è messa continuamente in pericolo da interessi consolidati, da divergenti ed opposte interpretazioni e perfino da astute manipolazioni fatte a servizio di ideologie e di sistemi politici, che hanno come ultimo scopo il dominio.

3. Superare la presente situazione

Ci sono di quelli che sostengono che la presente situazione sia naturale ed inevitabile. Si afferma che le relazioni tra gli individui e tra gli Stati sono caratterizzate da un conflitto permanente. Questa visione dottrinale e politica viene tradotta in modello di società ed in un sistema di relazioni internazionali che sono dominati dalla competizione e dall'antagonismo, in cui prevale il più forte. La pace derivante da una simile visione può essere soltanto un «compromesso» suggerito dal principio di Realpolitik, ed in quanto «compromesso», essa non cerca tanto di risolvere le questioni attraverso la giustizia e l'equità, quanto di regolare differenze e conflitti, così da mantenere una specie di equilibrio destinato a salvare tutto quanto rientra negli interessi della parte dominante. E' chiaro che una «pace» costruita e mantenuta sulle ingiustizie sociali e sul conflitto ideologico non potrà mai diventare una vera pace per il mondo. Una tale «pace» non può affrontare le cause fondamentali delle tensioni nel mondo o dare a questo il tipo di visione e di valori che possano comporre le divisioni rappresentate dai poli Nord-Sud ed Est-Ovest.

A coloro che pensano che i blocchi siano inevitabili noi rispondiamo che è possibile, anzi necessario, progettare nuovi modelli di società e di relazioni internazionali, che assicurino la giustizia e la pace su fondamenta stabili ed universali. In effetti, un sano realismo suggerisce che simili modelli non possono essere semplicemente imposti dall'alto o dal di fuori, o messi in atto soltanto con metodi e tecniche. E ciò perché le radici più profonde del contrasto e delle tensioni, che mutilano la pace e lo sviluppo, vanno rintracciate nel cuore dell'uomo. Sono soprattutto il cuore e gli atteggiamenti delle persone che devono essere cambiati, e ciò esige un rinnovamento, una conversione degli individui.

Se studiamo l'evoluzione della società negli anni più recenti, possiamo vedere non soltanto delle ferite profonde, ma anche i segni di una determinazione da parte di molti dei nostri contemporanei e di popoli diretta a superare i presenti ostacoli, al fine di porre in essere un nuovo sistema internazionale. Questo è il cammino che l'umanità deve intraprendere, se vuole entrare in un'era di pace universale e di integrale sviluppo.

4. Il cammino della solidarietà e del dialogo

Ogni nuovo sistema internazionale, capace di superare la logica dei blocchi e delle forze in contrasto, deve esser basato sull'impegno personale di ciascuno a fare dei bisogni basilari e primari dell'umanità il primo imperativo della politica internazionale. Oggi innumerevoli esseri umani in tutte le parti del mondo hanno acquisito un vivo senso della loro fondamentale eguaglianza, della loro dignità umana e dei loro diritti inalienabili. Nello stesso tempo, c'è una crescente consapevolezza che l'umanità possiede una profonda unità di interessi, di vocazione e di destino, e che tutti i popoli, nella varietà e ricchezza delle loro differenti caratteristiche nazionali, sono chiamati a formare un'unica famiglia. A ciò si aggiunge la consapevolezza che le risorse non sono illimitate e che i bisogni sono immensi. Pertanto, piuttosto che sprecare le risorse o impiegarle per micidiali armi di distruzione, è necessario usarle innanzitutto per soddisfare i primordiali e basilari bisogni dell'umanità.

E' parimenti importante notare come stia guadagnando terreno la consapevolezza del fatto che la riconciliazione, la giustizia e la pace tra gli individui e tra le nazioni - considerato lo stadio a cui è giunta l'umanità e le gravissime minacce che pesano sul suo futuro - non sono soltanto un nobile appello destinato a pochi idealisti, ma una condizione per la sopravvivenza della vita stessa. Di conseguenza, la instaurazione di un ordine basato sulla giustizia e la pace è oggi vitalmente necessario come chiaro imperativo morale, valido per tutte le persone e i regimi, al di sopra delle ideologie e dei sistemi. Unitamente e al di sopra del particolare bene comune di una nazione, la necessità di considerare il bene comune dell'intera famiglia delle nazioni è in tutta chiarezza un dovere etico e giuridico.

Il retto cammino verso una comunità mondiale, nella quale la giustizia e la pace regneranno senza frontiere tra tutti i popoli ed in tutti i continenti, è il cammino della solidarietà, del dialogo e della fratellanza universale. E' questo l'unico cammino possibile. Le relazioni ed i sistemi politici, economici, sociali e culturali devono essere imbevuti dei valori della solidarietà e del dialogo, i quali, a loro volta, esigono una dimensione istituzionale nella forma di speciali organismi della comunità mondiale, dediti alla cura del bene comune di tutti i popoli.

E' chiaro che, al fine dell'effettiva formazione di una comunità mondiale di questo tipo, le mentalità e le vedute politiche, contaminate dalla brama del potere, dalle ideologie, dalla difesa del proprio privilegio e benessere, devono essere abbandonate e sostituite da una disponibilità alla condivisione ed alla collaborazìone con tutti in uno spirito di mutua fiducia.

Quell'appello a riconoscere l'unità della famiglia umana ha ripercussioni realissime nella nostra vita e nel nostro impegno in favore della pace. Esso significa, innanzitutto, che noi rifiutiamo quel modo di pensare che porta alla divisione ed allo sfruttamento. Esso significa che noi c'impegniamo per una nuova solidarietà: la solidarietà della famiglia umana. Esso significa guardare alle tensioni tra Nord e Sud e sostituirle con una nuova forma di relazione: la solidarietà sociale di tutti. Questa solidarietà sociale si pone onestamente di fronte all'abisso che esiste oggi, ma non si rassegna a nessun tipo di determinismo economico. Essa riconosce tutta la complessità di un problema che ci si è lasciati per troppo tempo sfuggire di mano, ma che può ancora essere rettamente inquadrato da uomini e donne che si vedono uniti in fraterna solidarietà con ciascun altro essere su questa terra. E' vero che i mutamenti nei modelli di sviluppo economico hanno interessato tutte le parti del mondo, e non soltanto le più povere. Ma la persona che considera la pace come valore universale, vorrà avvalersi di questa opportunità per ridurre le differenze tra Nord e Sud e favorire un tipo di relazioni che li renderà più vicini tra loro. Io penso ai prezzi delle materie prime, al bisogno di competenza tecnologica, alla preparazione della forza lavoro, alla potenziale produttività di milioni di disoccupati, ai debiti che gravano sulle nazioni povere e ad una migliore e più responsabile utilizzazione dei fondi all'interno dei paesi in via di sviluppo. Io penso al gran numero di fattori che individualmente hanno provocato delle tensioni e che, combinati insieme, hanno polarizzato le relazioni tra Nord e Sud. Tutto ciò può e deve essere cambiato.

Se la giustizia sociale è il mezzo per promuovere una pace per tutti i popoli, allora ciò significa che noi riguardiamo la pace come un frutto indivisibile di relazioni giuste ed oneste ad ogni livello - sociale, economico, culturale ed etico - della vita umana su questa terra. Questa conversione ad un atteggiamento di solidarietà sociale serve, altresì, a mettere in luce le carenze nella presente situazione Est-Ovest. Nel mio messaggio alla II Sessione Speciale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul disarmo, ho analizzato molti degli elementi che sono richiesti per migliorare la situazione tra i due maggiori blocchi di potere dell'Est e dell'Ovest. Tutte le misure allora raccomandate e riaffermate fin da quel tempo si basano sulla solidarietà della famiglia umana, che cammina insieme lungo il sentiero del dialogo. Il dialogo può aprire molte porte chiuse dalle tensioni, che hanno caratterizzato le relazioni tra Est e Ovest. Il dialogo è un mezzo con cui le persone si scoprono l'una l'altra e scoprono le speranze di bene e le aspirazioni di pace, che troppo spesso rimangono nascoste nei loro cuori. Il vero dialogo va oltre le ideologie, e le persone si incontrano nella concretezza del loro vivere umano. Il dialogo rompe le nozioni preconcette e le barriere artificiali. Il dialogo porta gli esseri umani ad entrare in contatto gli uni con gli altri, quali membri di una sola famiglia umana, in tutta la ricchezza delle loro diversità culturali e storiche. La conversione del cuore impegna le persone a promuovere una fratemità universale, ed il dialogo aiuta a raggiungere un tale traguardo.

Oggi questo dialogo è più necessario che mai. Lasciati a se stessi, armamenti e sistemi di armamenti, strategie ed alleanze militari diventano strumenti di intimidazione, di reciproca recriminazione col conseguente terrore che colpisce così gran parte degli uomini oggi. Il dialogo considera questi strumenti nel loro rapporto con la vita umana. lo penso, prima di tutto, ai diversi dialoghi di Ginevra, che cercano di negoziare riduzioni e limitazioni degli armamenti.

Ma ci sono anche i dialoghi che sono condotti nel contesto di quel processo multilaterale, iniziato con l'Atto Finale di Helsinki della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, processo questo che sarà riesaminato l'anno prossimo a Vienna e continuato. Riguardo al dialogo e alla cooperazione tra Nord e Sud, si può far riferimento all'importante ruolo affidato a certi organismi, quali l'UNCTAD, ed alle Convenzioni di Lomé, nelle quali è impegnata la Comunità Europea. Io penso, altresì, ai tipi di dialogo che hanno luogo, quando i confini sono aperti e le persone possono viaggiare liberamente. Io penso, ancora, al dialogo che si instaura, quando una cultura si arricchisce nel contatto con un'altra cultura, quando gli studiosi sono liberi di comunicare, quando i lavoratori sono liberi di riunirsi, quando i giovani congiungono le loro forze per il futuro, quando gli anziani sono riuniti con i loro cari. Il cammino del dialogo è un cammino di scoperte, e quanto più noi ci scopriamo l'un l'altro, tanto più possiamo sostituire le tensioni del passato con i vincoli della pace.

5. Nuove relazioni basate sulla solidarietà e sul dialogo

Nello spirito di solidarietà e con gli strumenti di dialogo noi impareremo a:

Le tensioni derivanti dai due blocchi saranno felicemente sostituite da più strette relazioni di solidarietà e di dialogo, quando ci abitueremo ad insistere sul primato della persona umana. La dignità della persona e la difesa dei diritti umani sia dell'uomo, sia della donna sono in bilico, perché spesso esse soffrono in un modo o nell'altro a motivo di quelle tensioni e distorsioni dei blocchi, che abbiamo esaminato. Questo può accadere nei paesi in cui molte libertà individuali sono garantite, ma dove l'individualismo ed il consumismo alterano e distorcono i valori della vita. Questo accade nelle società in cui la persona è come affogata nella collettività. Questo può accadere in paesi giovani, che, sono ansiosi di prendere in mano i loro propri destini, ma che spesso sono compressi entro certe politiche da parte dei potenti, o attratti dalla lusinga di un guadagno immediato a spese della popolazione stessa. In tutto questo noi dobbiamo insistere sul primato della persona.

6. Visione cristiana ed impegno

I miei fratelli e sorelle nella fede cristiana trovano in Gesù Cristo, nel messaggio del Vangelo e nella vita della Chiesa nobili ragioni e, ancor più, motivi ispiratori per fare ogni sforzo, onde portare un'unica pace nel mondo di oggi. La fede cristiana ha come suo punto focale Gesù Cristo, il quale stende le sue braccia sulla Croce per riunire i figli di Dio che erano dispersi (cf. Gv 11,52), per abbattere i muri di divisione (cf. Ef 2,14) e per riconciliare i popoli nella fraternità e nella pace. La Croce, alzata sul mondo, abbraccia simbolicamente ed ha il potere di riconciliare Nord e Sud, Est ed Ovest.

I cristiani, illuminati dalla fede, sanno che la ragione definitiva per cui il mondo è teatro di divisioni, tensioni, rivalità, blocchi ed ingiuste diseguaglianze, invece di essere un luogo di genuina fraternità, è il peccato, che vuol dire il disordine morale dell'uomo. Ma i cristiani sanno anche che la grazia di Cristo, che può trasformare questa condizione umana, viene continuamente offerta al mondo, poiché «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). La Chiesa, che continua l'opera di Cristo distribuendo la sua grazia redentrice, ha precisamente come suo scopo quello di riconciliare tutti gli individui ed i popoli nell'unità, nella fraternità e nella pace. «La promozione dell'unità» - dice il Concilio Vaticano II - «corrisponde infatti all'intima missione della Chiesa, la quale è appunto "in Cristo come un sacramento, cioè un segno e strumento di intima unione con Dio e di unità di tutto il genere umano"» (Cost. past. Gaudium et Spes, n. 42). La Chiesa, la quale è una ed universale nella varietà dei popoli che riunisce, «può costituire un legame strettissimo tra le diverse comunità umane e nazioni, purché queste abbiano fiducia in lei e riconoscano realmente la vera sua libertà in ordine al compimento di questa sua missione».

Questa visione e queste esigenze, che emergono dal cuore stesso della fede, debbono soprattutto indurre tutti i cristiani a divenire sempre più consapevoli delle situazioni che non sono in armonia col Vangelo, al fine di purificarle e correggerle. Nello stesso tempo, i cristiani debbono riconoscere e valutare i segni positivi, i quali indicano gli sforzi che sono compiuti per ovviare a tali situazioni, sforzi che essi devono fattivamente appoggiare, sostenere e consolidare.

Animati da viva speranza, capaci di sperare contro ogni speranza (cfr. Rm 4,18), i cristiani devono superare le barriere delle ideologie e dei sistemi, per poter entrare in dialogo con tutte le persone di buona volontà e creare nuove relazioni e nuove forme di solidarietà. A questo proposito, vorrei dire una parola di apprezzamento e di plauso a tutti coloro che sono impegnati nell'opera del volontariato internazionale e in altre forme di attività, miranti a creare legami di condivisione e di fraternità ad un livello più alto di quello dei vari blocchi.

7. Anno Internazionale della Pace e appello finale

Cari amici, fratelli e sorelle tutti: per l'inizio del Nuovo Anno rinnovo il mio appello a tutti voi, affinché mettiate da parte le rivalità, spezzando le catene delle tensioni esistenti nel mondo. Faccio appello a voi, affinché sappiate trasformare quelle tensioni tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest in nuove relazioni di solidarietà sociale e di dialogo. L'Organizzazione delle Nazioni Unite ha proclamato il 1986 come l'Anno Internazionale della Pace. Questo nobile sforzo merita il nostro incoraggiamento e il nostro sostegno. Quale migliore modo ci potrebbe essere per promuovere le finalità dell'Anno della Pace che quello di fare delle relazioni tra Nord e Sud, Est ed Ovest la base di una pace che sia universale!

A voi, politici e uomini di Stato, io dico: date indicazioni che sollecitino i popoli ad un rinnovato sforzo in questa direzione.

A voi, uomini d'affari, e a voi, che siete responsabili delle organizzazioni finanziarie e commerciali, io dico: esaminate di nuovo le vostre responsabilità nei confronti di tutti i vostri fratelli e sorelle.

A voi, strateghi militari, ufficiali, scienziati e tecnici, io dico: usate la vostra sperimentata abilità in modi che valgano a promuovere il dialogo e la comprensione.

A voi, sofferenti, portatori di handicap, a tutti voi che siete fisicamente menomati, io dico: offrite le vostre preghiere e le vostre vite, perché siano abbattute le barriere che dividono il mondo.

A voi tutti, che credete in Dio, io dico: vivete la vostra esistenza nella consapevolezza di essere una sola famiglia sotto la paternità di Dio.

A tutti voi e a ciascuno di voi, giovani e anziani, deboli e potenti, io, dico: abbracciate la pace come un grande valore che unifica le vostre vite. Dovunque voi viviate in questo pianeta, io vi esorto ardentemente a perseverare nella solidarietà e nel sincero dialogo.

La pace è valore che non ha frontiere: / da Nord a Sud, da Est a Ovest, / dappertutto c'è un solo popolo, / unito in una unica pace.

8 dicembre 1985.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

SVILUPPO E SOLIDARIETA': DUE CHIAVI PER LA PACE

1 gennaio 1987

 

1. Un appello a tutti...

Il mio predecessore Paolo VI di venerata memoria lanciò un appello a tutte le persone di buona volontà per la celebrazione di una Giornata mondiale della pace il primo giorno di ogni anno civile, come augurio e insieme promessa che fosse la pace «a dominare lo svolgimento della storia avvenire». A distanza di vent'anni riprendo questo appello, rivolgendomi a ognuno dei membri della famiglia umana. Vi invito, pertanto, a unirvi a me nel riflettere sulla pace e nel celebrare la pace. Far questo in mezzo alle difficoltà - come sono quelle di oggi - significa proclamare la nostra fiducia nell'umanità.

In base a questa fiducia io rivolgo il mio appello a ciascuno, confidando nel fatto che insieme noi possiamo imparare a celebrare la pace quale desiderio universale di tutti i popoli in ogni luogo. Tutti noi, che condividiamo tale desiderio, possiamo così divenire una sola cosa nei nostri pensieri e nei nostri sforzi per fare della pace una meta che può essere raggiunta da tutti in favore di tutti.

Il tema, che ho scelto per il messaggio di quest'anno, trae ispirazione da quella profonda verità sull'uomo, secondo la quale noi siamo una sola famiglia umana. Per il semplice fatto di esser nati in questo mondo, noi partecipiamo della stessa eredità e abbiamo la stessa origine con ogni altro essere umano. Questa unicità si esprime in tutte le ricchezze e diversità della famiglia umana: in differenti razze, culture, linguaggi e storie. E noi siamo chiamati a riconoscere la radicale solidarietà della famiglia umana come la condizione fondamentale del nostro vivere insieme su questa terra.

Il 1987 segna anche il 20· anniversario della pubblicazione della «Populorum Progressio». Questa celebre enciclica di Paolo VI fu un solenne appello per un'azione concreta in favore dello sviluppo integrale dei popoli. La frase di Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace», precisa una delle chiavi nella nostra ricerca della pace. Può esistere una vera pace, quando uomini, donne e bambini non possono vivere la loro piena dignità umana? Può esserci una pace duratura in un mondo regolato da relazioni sociali, economiche e politiche che favoriscono un gruppo o una nazione a spese di un'altra? Può stabilirsi una pace genuina senza il riconoscimento effettivo di quella stupenda verità, secondo cui noi siamo tutti eguali in dignità, eguali perché siamo stati formati a immagine di Dio, che è nostro Padre?

2. ...per riflettere sulla solidarietà...

Questa messaggio per la XX Giornata della pace si collega strettamente al messaggio che indirizzai al mondo l'anno scorso sul tema Nord-Sud, Est-Ovest: una sola pace. In tale messaggio dicevo (n. 4): «L'unità della famiglia umana ha ripercussioni realissime nella nostra vita e nel nostro impegno in favore della pace... questo significa che noi c'impegniamo per una nuova solidarietà: la solidarietà della famiglia umana... una nuova forma di relazione: la solidarietà sociale di tutti».

Riconoscere la solidarietà sociale della famiglia umana comporta la responsabilità di edificare su ciò che ci rende una sola cosa. Ciò significa promuovere effettivamente e senza eccezioni l'eguale dignità di tutti come esseri umani, dotati di certi fondamentali e inalienabili diritti. Ciò tocca tutti gli aspetti della nostra vita individuale, come pure della nostra vita nella famiglia, nella comunità in cui viviamo e nel mondo. Una volta che comprendiamo veramente di essere fratelli e sorelle in una comune umanità, allora possiamo modellare i nostri atteggiamenti nei confronti della vita alla luce della solidarietà che ci rende una cosa sola. Ciò è vero in modo speciale per tutto quanto è in relazione col progetto universale di base: la pace.

Nel corso della vita di tutti noi ci sono stati dei momenti ed eventi che ci hanno collegati nel riconoscimento consapevole dell'unicità dell'umanità. Dal tempo in cui siamo per la prima volta riusciti a vedere le immagini del mondo dallo spazio, si è verificato un sensibile mutamento nel nostro modo d'intendere il nostro pianeta e la sua immensa bellezza e fragilità. Aiutati dalle conquiste dell'esplorazione spaziale, abbiamo scoperto che l'espressione «la comune eredità di tutto il genere umano» ha assunto, da quella data, un nuovo significato. Quanto più noi condividiamo le ricchezze artistiche e culturali proprie di ciascuno, tanto più scopriamo la nostra comune umanità. I giovani soprattutto hanno approfondito il loro senso di unità nel corso di eventi sportivi di carattere regionale e mondiale e attività similari, sviluppando i loro legami di fraternità come uomini e donne.

3. ...nella sua attuazione...

Al tempo stesso, quante volte in anni recenti abbiamo avuto l'occasione di entrare in contatto come fratelli e sorelle, per aiutare coloro che erano colpiti da disastri naturali o afflitti dalla guerra e dalla fame. Siamo testimoni di un crescente desiderio collettivo - al di là delle nostre frontiere politiche, geografiche e ideologiche - di aiutare i membri meno fortunati della famiglia umana. La sofferenza, ancora così tragica e prolungata, dei nostri fratelli e sorelle dell'Africa subsahariana sta facendo sorgere in ogni luogo forme e progetti di questa solidarietà tra esseri umani. Due delle ragioni per le quali nel 1986 ebbi la gioia di conferire il «Premio internazionale della pace Giovanni XXIII» all'Ufficio cattolico per i soccorsi d'emergenza e per i profughi (COERR) della Thailandia, furono, la prima, quella di poter attirare l'attenzione del mondo sulle persistenti difficoltà di coloro che sono costretti a lasciare la loro patria, e, la seconda, di poter mettere in luce lo spirito di cooperazione e collaborazione che tanti gruppi - cattolici e altri - hanno dimostrato nel rispondere alle necessità di quelle persone dolorosamente provate e senza tetto. Sì, lo spirito umano può rispondere e risponde con grande generosità alle sofferenze degli altri. In queste risposte noi possiamo trovare una crescente attuazione di quella solidarietà sociale, la quale proclama con le parole e con i fatti che noi siamo una cosa sola, che dobbiamo riconoscere questa unicità, e che ciò è un elemento essenziale per il bene comune di tutti gli individui e di tutte le nazioni.

Questi esempi dimostrano che possiamo cooperare e cooperiamo in molti modi, e possiamo pure lavorare e lavoriamo insieme per promuovere il bene comune. Tuttavia dobbiamo fare di più. Occorre che assumiamo un atteggiamento di fondo nei confronti dell'umanità e delle relazioni che abbiamo con ciascuna persona e ciascun gruppo del mondo. E' così che possiamo cominciare a vedere come l'impegno per la solidarietà da parte dell'intera famiglia umana sia una chiave per la pace. I progetti che incrementano il bene dell'umanità o la buona volontà tra i popoli, sono un passo verso l'attuazione della solidarietà. Il legame di comprensione e di carità, che ci spinge ad aiutare coloro che soffrono, mette in luce il nostro essere uno in un'altra maniera. Ma la sfida soggiacente per tutti noi è di assumere un atteggiamento di solidarietà sociale con l'intera famiglia umana e di affrontare secondo tale atteggiamento tutte le situazioni politiche e civili. Così, per esempio, l'Organizzazione delle Nazioni Unite ha scelto il 1987 come Anno internazionale dell'alloggio per i senzatetto. Nel far così, essa richiama l'attenzione su di un ambito di grande interesse e promuove un atteggiamento di sollecitudine - umana, politica ed economica - nei confronti di milioni di famiglie private dell'ambiente essenziale per una conveniente vita familiare.

4. ...e negli ostacoli che incontra...

Non mancano, purtroppo, gli esempi di ostacoli alla solidarietà derivanti da posizioni politiche e ideologiche, che di fatto condizionano l'attuazione della solidarietà. Si tratta di posizioni o di indirizzi, che ignorano o negano la fondamentale eguaglianza e dignità della persona umana. A questo proposito penso in particolare: alla xenofobia che chiude le nazioni in se stesse, o porta i governi a emanare leggi discriminanti a danno di persone nei loro stessi paesi; alla chiusura dei confini in un modo arbitrario e ingiustificabile, cosicché le persone sono effettivamente private della capacità di spostarsi e di migliorare la loro sorte, di riunirsi con i loro cari, o semplicemente di visitare la loro famiglia, o di raggiungere gli altri per averne cura e comprensione; alle ideologie che predicano l'odio o la diffidenza, e ai sistemi che erigono barriere artificiali. L'odio razziale, l'intolleranza religiosa, le divisioni di classe sono fin troppo presenti in molte società sia in forma aperta che nascosta. Quando i dirigenti politici erigono tali divisioni all'interno dei sistemi o dei loro programmi che riguardano le relazioni con altre nazioni, allora questi pregiudizi colpiscono il centro stesso della dignità dell'uomo. Essi diventano una fonte potente di controreazioni che aumentano ancor più la divisione, l'inimicizia, la repressione e lo stato di guerra. Un altro male, che nel corso dell'anno passato ha causato tanta sofferenza alle persone e grave danno alla società, è il terrorismo.

L'antidoto a tutto questo è offerto da un'effettiva solidarietà. Invero, se il carattere della medesima è da ravvisare nell'eguaglianza radicale di tutti gli uomini e donne, allora ogni qualsiasi politica che contraddica alla dignità fondamentale e ai diritti umani di ciascuna persona o gruppo di persone, è una politica che dev'essere respinta. Al contrario, le politiche e i programmi che instaurano relazioni leali e oneste tra i popoli, che producono giuste alleanze, che uniscono gli uomini in un'onorevole cooperazione, devono essere incrementate. Tali iniziative non ignorano le reali differenze linguistiche, razziali, religiose, sociali o culturali esistenti tra i popoli; e neppure ignorano le grandi difficoltà nel superare divisioni e ingiustizie inveterate. Ma esse mettono al primo posto gli elementi che uniscono, per quanto esigui essi possano apparire.

Questo spirito di solidarietà è uno spirito che si apre al dialogo. Esso trova le sue radici nella verità e ha bisogno della verità per svilupparsi. Esso è uno spirito che cerca di costruire, piuttosto che di distruggere, di unire piuttosto che dividere. Dato che la solidarietà è universale come aspirazione, esso può assumere molte forme. Accordi regionali per promuovere il bene comune e incoraggiare negoziati bilaterali possono servire ad alleggerire le tensioni. Gli scambi di tecnologie o di informazioni per scongiurare disastri o per migliorare la qualità di vita della gente in un'area particolare, contribuiranno alla solidarietà e faciliteranno ulteriori misure a un livello più vasto.

5. ...e per riflettere sullo sviluppo...

In nessun altro settore dello sforzo umano vi è forse maggior bisogno di solidarietà sociale che nell'area dello sviluppo. Molto di ciò che Paolo VI disse vent'anni fa nell'enciclica che ora ricordiamo, si può applicare in modo speciale al giorno d'oggi. Egli vide con grande lucidità che la questione sociale era diventata di ampiezza mondiale («Populorum Progressio», 3). Egli fu tra i primi a richiamare l'attenzione sul fatto che il progresso economico è di per sé insufficiente e richiede anche il progresso sociale. Soprattutto insisteva sul fatto che lo sviluppo dev'essere integrale, cioè dev'essere sviluppo di ciascuna persona e dell'intera persona. Per lui l'umanesimo plenario era questo: uno sviluppo onnicomprensivo della persona - uomo e donna - in tutte le sue dimensioni, aperto all'Assoluto e in grado di offrire «l'idea della vita dell'uomo». Un tale umanesimo è la meta comune che dev'essere perseguita da tutti. «Lo sviluppo integrale dell'uomo - egli diceva - non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell'umanità» («Populorum Progressio», 42).

E ora, dopo vent'anni, desidero rendere omaggio a questo insegnamento di Paolo VI. Nelle mutate circostanze odierne, queste profonde intuizioni, specialmente quelle concernenti l'importanza di uno spirito di solidarietà ai fini dello sviluppo, sono ancora valide e gettano una grande luce sulle nuove sfide.

6. ...e sulle sue odierne applicazioni

Quando riflettiamo sull'impegno per la solidarietà nel campo dello sviluppo, la prima e veramente fondamentale verità è che lo sviluppo è una questione di uomini. Gli uomini sono i soggetti del vero sviluppo, e lo scopo del vero sviluppo sono gli uomini. Lo sviluppo integrale degli uomini è la meta e la misura di tutti i progetti di sviluppo. Il fatto che tutti gli uomini siano al centro dello sviluppo è una conseguenza dell'unicità della famiglia umana; e ciò è indipendente da qualunque scoperta tecnologica o scientifica che il futuro può riservare. Gli uomini devono essere il punto focale di tutto ciò che vien fatto per migliorare le condizioni di vita. Gli uomini devono essere operatori attivi, non ricettori passivi in ogni vero processo di sviluppo.

Un altro principio dello sviluppo, in quanto attiene alla solidarietà, è la necessità di promuovere i valori che rechino veramente beneficio agli individui e alla società. Non basta raggiungere e aiutare coloro che sono nel bisogno. Dobbiamo aiutarli a scoprire i valori che li mettano in grado di costruire una nuova vita e di prendere il loro legittimo posto nella società con dignità e giustizia. Tutti hanno il diritto di perseguire e di raggiungere ciò che è buono e vero. Tutti hanno il diritto di scegliere quelle cose che elevano la vita, e la vita di una società non è in alcun modo moralmente neutra. Le scelte sociali portano conseguenze che possono promuovere come avvilire il vero bene della persona nella società.

Nel campo dello sviluppo e, in special modo, dello sviluppo dell'assistenza sono stati offerti dei programmi che pretendono di essere «liberi da valori», ma che in realtà rappresentano controvalori per la vita. Quando si esaminano programmi di governo o sistemi di aiuti che virtualmente costringono comunità e paesi ad accettare programmi di contraccezione o progetti di aborto come prezzo per lo sviluppo economico, allora bisogna dire chiaramente e con forza che queste proposte violano la solidarietà della famiglia umana, perché negano i valori dell'umana dignità e dell'umana libertà.

Ciò che è vero per lo sviluppo della persona mediante la scelta dei valori, che elevano la vita, si applica anche allo sviluppo della società. Tutto ciò che impedisce la vera libertà milita contro lo sviluppo della società e delle istituzioni sociali. Lo sfruttamento, le minacce, la soggezione forzata, il rifiuto di possibilità da parte di un settore della società a un altro, sono inaccettabili e contraddicono alla nozione stessa di solidarietà umana. Simili attività, sia all'interno di una società sia tra le nazioni, possono purtroppo sembrare ben riuscite per un certo tempo. Tuttavia, quanto più a lungo permangono tali condizioni, tanto più è probabile che finiscano per essere la causa di ulteriore repressione e di crescente violenza. I semi di distruzione sono già seminati nell'ingiustizia istituzionalizzata. Il negare i mezzi di un compiuto sviluppo a un qualsiasi settore di una determinata società o a una qualsiasi nazione, può soltanto portare all'insicurezza e alla tensione sociale. Ciò fomenta l'odio e la divisione e distrugge la speranza di pace.

La solidarietà, che stimola lo sviluppo integrale, è quella che protegge e tutela la legittima libertà di ciascuna persona e la giusta sicurezza di ciascuna nazione. Senza questa libertà e sicurezza vengono a mancare le condizioni stesse per lo sviluppo. Non soltanto gli individui, ma anche le nazioni devono essere in grado di partecipare alle scelte che le riguardano. La libertà, che le nazioni devono avere per assicurare la loro crescita e il loro sviluppo come membri di pari diritto nella famiglia delle nazioni, dipende dal rispetto reciproco tra di loro. Il cercare una superiorità economica, militare o politica a spese dei diritti delle altre nazioni mette in pericolo qualsiasi prospettiva per un vero sviluppo o per una vera pace.

7. Solidarietà e sviluppo: due chiavi per la pace

Per queste ragioni, io ho proposto che quest'anno si rifletta sulla solidarietà e sullo sviluppo come chiavi per la pace. Ciascuna di queste realtà ha uno specifico significato. Entrambe sono necessarie per le mete a cui miriamo. La solidarietà è etica per sua natura, perché implica un'affermazione di valore circa l'umanità. Per questa ragione, le sue implicazioni per la vita umana sul nostro pianeta e per le relazioni internazionali sono anch'esse etiche: i nostri comuni vincoli di umanità esigono che si viva in armonia e che si promuova ciò che è bene l'uno per l'altro. Queste implicazioni etiche costituiscono la ragione per la quale la solidarietà è una chiave fondamentale per la pace.

In questa medesima luce lo sviluppo assume il suo pieno significato. Non è più questione semplicemente di migliorare certe situazioni o condizioni economiche. Lo sviluppo diventa in definitiva una questione di pace, perché esso aiuta a raggiungere ciò che è bene per gli altri e per la comunità umana nella sua interezza.

Nel contesto della vera solidarietà non c'è pericolo di sfruttamento o di cattivo uso dei programmi di sviluppo a beneficio di pochi. Lo sviluppo, piuttosto, diventa in tal modo un processo che coinvolge i diversi membri della medesima famiglia umana e li arricchisce tutti. Se la solidarietà ci dà la base etica per un'azione appropriata, allora lo sviluppo diventa l'offerta che il fratello fa al fratello, in modo che entrambi possano vivere più pienamente in tutta la diversità e complementarietà che sono come i marchi di garanzia della civiltà umana. E' da questa dinamica che proviene quell'armonica «tranquillità dell'ordine», che costituisce la vera pace. Sì, la solidarietà e lo sviluppo sono le due chiavi per la pace.

8. Alcuni problemi moderni...

Molti dei problemi, che sono di fronte al mondo in questo inizio del 1987, sono realmente complessi e sembrano quasi insolubili. Eppure, se crediamo nell'unicità della famiglia umana, se insistiamo sul fatto che la pace è possibile, la nostra comune riflessione sulla solidarietà e sullo sviluppo, come chiavi per la pace, può gettare tanta luce su queste situazioni critiche.

Certamente il persistente problema del debito con l'estero di molte nazioni in via di sviluppo potrebbe essere riguardato con nuovi occhi, se ciascuno degli interessati includesse consapevolmente queste considerazioni etiche nelle valutazioni fatte e nelle soluzioni proposte. Molti aspetti di queste problematiche - il protezionismo, i prezzi delle materie prime, le priorità negli investimenti, il rispetto degli obblighi contratti, come pure la considerazione delle condizioni interne delle nazioni indebitate - trarrebbero vantaggio dalla ricerca solidale di quelle soluzioni, che promuovono uno sviluppo stabile.

In riferimento alla scienza e alla tecnologia, stanno emergendo nuove e marcate divisioni tra coloro che sono forniti di supporti tecnologici e quelli che non lo sono. Tali diseguaglianze non promuovono la pace e lo sviluppo armonico, ma piuttosto aggravano le già esistenti situazioni di diseguaglianza. Se gli uomini sono il soggetto dello sviluppo e la meta a cui esso tende, una più ampia condivisione dei progressi delle applicazioni tecnologiche con i paesi meno avanzati tecnologicamente diventa un imperativo etico di solidarietà, come lo è il rifiuto di fare di tali nazioni il campo di prova per esperimenti assai dubbi o un luogo di scarico per prodotti discutibili. Organizzazioni internazionali e vari stati stanno facendo notevoli sforzi in questi settori. Tali sforzi rappresentano un importante contributo per la pace.

Recenti contributi sulle relazioni tra disarmo e sviluppo - due dei problemi più cruciali che sono di fronte al mondo di oggi - sottolineano il fatto che le presenti tensioni tra est e ovest e le diseguaglianze tra nord e sud rappresentano serie minacce per la pace del mondo. Si sta prendendo sempre più chiara coscienza che un mondo pacifico, in cui sia garantita la sicurezza dei popoli e degli stati, richiede un'attiva solidarietà negli sforzi volti sia allo sviluppo sia al disarmo. Tutti gli stati non possono non subire conseguenze dalla povertà di altri stati; tutti gli stati non possono non subire danno dalla mancanza di risultati nei negoziati per il disarmo. Né possiamo dimenticare le guerre cosiddette locali, che pagano un pesante pedaggio in termini di vite umane. Tutti gli stati sono responsabili della pace nel mondo, e questa non potrà essere garantita finché la sicurezza basata sulle armi non sia gradualmente sostituita da una sicurezza fondata sulla solidarietà della famiglia umana. Ancora una volta io faccio appello perché siano compiuti ulteriori sforzi per ridurre al minimo necessario le armi per la legittima difesa, e perché siano accresciute le misure per aiutare i paesi in via di sviluppo ad acquistare fiducia in se stessi. Soltanto così la comunità internazionale può vivere in vera solidarietà.

C'è ancora un'altra minaccia per la pace, quella che nel mondo scalza le stesse radici di ogni società: la grave crisi della famiglia. La famiglia è la cellula fondamentale della società. La famiglia è il primo luogo dove avviene o non avviene lo sviluppo. Se essa è sana e integra, allora sono grandi le possibilità per lo sviluppo plenario di tutta quanta la società. Troppo spesso, tuttavia, non è così. In tante società la famiglia è ormai diventata un elemento secondario. Essa viene relativizzata da diverse interferenze e sovente non trova nello stato quella tutela e sostegno, di cui ha bisogno. Essa non di rado è privata dei giusti mezzi, ai quali ha diritto per poter crescere e vivere in un'atmosfera, in cui i suoi membri possano prosperare. I fenomeni delle famiglie divise, dei membri di una famiglia costretti a separarsi per sopravvivere, o addirittura incapaci di trovare un riparo per dare inizio a una famiglia o mantenersi come gruppo familiare, sono altrettanti segni di sottosviluppo morale e di una società che ha smarrito il senso dei suoi valori. Una misura fondamentale della sanità di un popolo e di una nazione è l'importanza che si dà alle condizioni per lo sviluppo delle famiglie. Difatti, le condizioni vantaggiose per le famiglie promuovono l'armonia della società e della nazione, e questo, a sua volta, favorisce la pace all'interno e nel mondo.

Oggi vediamo lo spettro pauroso di bambini che sono abbandonati o costretti a cercar lavoro. Troviamo bambini e ragazzi nelle baraccopoli e nelle grandi città spersonalizzanti, nelle quali trovano un magro sostentamento e poca o addirittura nessuna speranza per il futuro. Il crollo della struttura familiare, la dispersione dei suoi membri, specialmente dei più giovani, e le conseguenti malattie riscontrate su di loro - abuso della droga, alcolismo, relazioni sessuali passeggere e banalizzate, sfruttamento da parte degli altri - sono altrettanti segni negativi per lo sviluppo di tutta la persona, che va promosso mediante la solidarietà sociale della famiglia umana. Guardare negli occhi di un'altra persona e cogliere le speranze e le inquietudini di un fratello o di una sorella equivale a scoprire il significato della solidarietà.

9. ...che impegnano tutti noi

E' in gioco la pace: la pace civile all'interno delle nazioni e la pace mondiale tra gli stati (cfr. «Populorum Progressio», 55). Tutto ciò Paolo VI intuì chiaramente venti anni or sono. Egli intuì l'intrinseca connessione tra le istanze di giustizia nel mondo e la possibilità di pace per il mondo. Non è una mera coincidenza che lo stesso anno della pubblicazione della «Populorum Progressio» segnò pure l'istituzione della Giornata mondiale per la pace, un'iniziativa che io ben volentieri ho continuato. Paolo VI espresse già il nucleo della riflessione di quest'anno sulla solidarietà e sullo sviluppo, come chiavi per la pace, quando dichiarò: «La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini» («Populorum Progressio», 76).

10. L'impegno dei credenti e specialmente dei cristiani

Tutti noi che crediamo in Dio siamo convinti che questo ordine armonico, a cui tutti i popoli ardentemente aspirano, non può realizzarsi solamente mediante gli sforzi umani, ancorché siano indispensabili. Questa pace - pace personale e pace per gli altri - deve essere cercata in pari tempo nella preghiera e nella meditazione. Ciò dicendo, ho davanti agli occhi e nel mio cuore l'esperienza profonda della recente Giornata di preghiera per la pace in Assisi. Capi religiosi, rappresentanti delle chiese cristiane, delle comunità ecclesiali e delle religioni del mondo hanno dato viva espressione alla solidarietà nella preghiera e nella meditazione per la pace. C'è stato un impegno evidente di ogni partecipante - e di molti altri che a noi erano uniti in spirito - nel cercare la pace, nel farsi pacificatori, nel fare tutto il possibile, in profonda solidarietà di spirito, al fine di operare per una società in cui fiorisca la giustizia e abbondi la pace (cfr. Sal 71,7).

Il giusto Signore, di cui il salmista ci offre la descrizione, è uno che amministra la giustizia ai poveri e ai sofferenti: «Egli ha pietà dei deboli e dei poveri, e salva la vita dei miseri. Riscatterà la loro vita dall'oppressione e dalla violenza» (Sal 71,13-14). Queste parole sono oggi davanti ai nostri occhi, mentre preghiamo perché l'ardente desiderio di pace, che ha segnato l'incontro di Assisi, possa essere un forte stimolo per tutti i credenti e, in special modo, per i cristiani.

I cristiani, infatti, possono ravvisare in queste parole ispirate del salmo la figura di nostro Signore Gesù Cristo, colui che ha portato la sua pace al mondo, colui che ha guarito i feriti e gli afflitti, «per annunziare la buona novella ai poveri..., per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). Gesù Cristo è colui che noi chiamiamo «la nostra pace» e che «ha abbattuto il muro di separazione, che era frammezzo, cioè l'inimicizia» (Ef 2,14), al fine di fare la pace. Sì! Precisamente questo desiderio di promuovere la pace, manifestato nell'incontro di Assisi, ci sollecita a riflettere circa la maniera di celebrare in futuro questa Giornata mondiale.

Noi pure siamo chiamati a essere simili a Cristo, a essere operatori di pace mediante la riconciliazione, a essere cooperatori con lui nell'arduo compito di portare la pace su questa terra, promuovendo la causa della giustizia per tutti i popoli e per tutte le nazioni. E non dobbiamo mai dimenticare quelle sue parole, che riassumono ogni perfetta espressione di umana solidarietà: «Fate agli uomini tutto quanto voi vorreste che essi facciano a voi» (Mt 7,12). Allorché questo comandamento viene infranto, i cristiani devono rendersi conto che sono causa di divisione e commettono peccato. Tale peccato ha gravi ripercussioni sulla comunità dei credenti e sull'intera società. Esso offende Dio stesso, che è il creatore della vita e colui che la mantiene in essere.

La grazia e la sapienza, che Gesù mostra fin dal tempo della sua vita nascosta a Nazaret con Maria e Giuseppe (cfr. Lc 2,51-52), sono un modello per le nostre relazioni vicendevoli in seno alla famiglia, nelle nostre nazioni, nel mondo. Il servizio degli altri mediante le parole e le opere, che contrassegna la vita pubblica di Gesù, è lì a ricordarci che la solidarietà della famiglia umana è stata radicalmente approfondita, e che a essa è stato assegnato un fine trascendente che nobilita tutti i nostri sforzi umani per la giustizia e la pace. Infine, il definitivo atto di solidarietà che il mondo ha conosciuto - la morte di Gesù Cristo sulla croce per tutti - apre a noi cristiani la via che dobbiamo seguire. Se la nostra opera per la pace vuole essere pienamente efficace, occorre che essa partecipi del potere trasformante di Cristo, la cui morte dà la vita a ogni persona nata in questo mondo, e il cui trionfo sulla morte è la garanzia definitiva che la giustizia, quale esigono la solidarietà e lo sviluppo, condurrà a una pace duratura.

Possa l'accoglienza che i cristiani fanno a Gesù Cristo, come a loro Salvatore e Signore, dirigere tutti i loro sforzi! Possano le loro preghiere sostenerli nell'impegno per la causa della pace mediante lo sviluppo dei popoli nello spirito di sociale solidarietà.

11. Appello finale

E così insieme diamo inizio a un altro anno: il 1987. Esprimo l'auspicio che esso sia un anno in cui l'umanità metta finalmente da parte le divisioni del passato, un anno in cui le persone cerchino la pace con tutto il cuore. Spero che questo messaggio possa offrire occasione a ciascuno - uomo o donna - di approfondire il suo impegno per l'unicità della famiglia umana nella solidarietà. Sia uno sprone che incoraggi tutti noi a cercare il vero bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, in un completo sviluppo che favorisca tutti i valori della persona umana nella società.

All'inizio di questo messaggio ho spiegato che il tema della solidarietà mi ha spinto a indirizzarlo a tutti, a ciascun uomo e donna in questo mondo. Ripeto ora tale invito a ciascuno di voi, ma desidero fare uno speciale appello nel modo che segue: a tutti voi, capi di governo e quanti siete responsabili di organizzazioni internazionali: al fine di assicurare la pace, io faccio appello perché raddoppiate i vostri sforzi per lo sviluppo completo degli individui e delle nazioni; a tutti voi, che avete partecipato alla Giornata di preghiera per la pace in Assisi o che vi siete uniti spiritualmente con noi in quella occasione: io faccio appello perché possiamo insieme testimoniare in favore della pace nel mondo; a tutti voi, che viaggiate e che siete interessati agli scambi culturali: io faccio appello perché siate strumenti consapevoli di una più grande reciproca comprensione, rispetto e stima; a voi, miei fratelli e sorelle più giovani, alla gioventù del mondo: io faccio appello perché usiate ogni mezzo per stabilire nuovi legami di pace, in fraterna solidarietà con i giovani di ogni dove.

E oserò io sperare di essere ascoltato da quelli che praticano la violenza e il terrorismo? Quanto a voi a cui giungerà almeno la mia voce, io vi prego di nuovo - come ho già fatto in passato - di desistere dal perseguire con la violenza i vostri scopi, anche quando questi siano di per sé giusti. Vi prego di desistere dall'uccidere e far del male all'innocente. Vi prego di smettere di minare la stessa struttura della società. La via della violenza non può raggiungere una vera giustizia per voi o per alcun altro. Se volete, voi potete ancora cambiare. Voi potete dimostrare la vostra umanità e riconoscere la solidarietà umana. Faccio appello a tutti voi, dovunque siate, qualunque cosa facciate, perché riconosciate il volto di un fratello o di una sorella in ogni essere umano. Ciò che ci unisce è tanto di più di ciò che ci separa e divide: è la nostra comune umanità.

La pace è sempre un dono di Dio; eppure, essa dipende anche da noi. E le chiavi della pace sono in nostro potere. Sta a noi usarle per aprire tutte le porte!

Dal Vaticano, l'8 dicembre dell'anno 1986.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA LIBERTA' RELIGIOSA CONDIZIONE PER LA PACIFICA CONVIVENZA

1 gennaio 1988

 

Nel primo giorno dell'Anno, sono lieto di tener fede a un appuntamento ormai ventennale con i responsabili delle Nazioni e degli Organismi internazionali e con tutti i fratelli e sorelle del mondo, che hanno a cuore la causa della pace. Sono infatti profondamente convinto che riflettere insieme sul valore inestimabile della pace significhi già, in qualche modo, cominciare a costruirla.

Il predetto tema, che questo anno vorrei sottoporre all'attenzione comune, nasce da una triplice considerazione.

Anzitutto, la libertà religiosa, esigenza insopprimibile della dignità di ogni uomo, è una pietra angolare dell'edificio dei diritti umani e, pertanto, è un fattore insostituibile del bene delle persone e di tutta la società, così come della propria realizzazione di ciascuno. Ne consegue che la libertà dei singoli e delle comunità di professare e di praticare la propria religione è un elemento essenziale della pacifica convivenza degli uomini. La pace, che si costruisce e si consolida a tutti i livelli dell'umana convivenza, affonda le proprie radici nella libertà e nell'apertura delle coscienze alla verità.

Nuocciono, inoltre, e in modo gravissimo, alla causa della pace tutte le forme - palesi o nascoste - di violazione della libertà religiosa, al pari delle violazioni che toccano gli altri diritti fondamentali della persona. A quarant'anni dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, che sarà commemorata nel dicembre dell'anno prossimo, dobbiamo constatare che milioni di persone, in varie parti del mondo, soffrono ancora a motivo delle loro convinzioni religiose, vittime di legislazioni repressive e oppressive, talora di aperte persecuzioni, più spesso di una sottile prassi di discriminazione come credenti e come comunità. Questo stato di cose, di per sé intollerabile, costituisce anche un'ipoteca negativa per la pace.

Infine, vorrei ricordare e far tesoro dell'esperienza dell'incontro di preghiera, svoltosi ad Assisi il 27 ottobre 1986. Quel grande incontro di fratelli, accomunati nell'invocazione della pace, è stato un segno per il mondo. Senza confusioni né sincretismi, i rappresentanti delle principali comunità religiose sparse sulla terra hanno voluto esprimere insieme il convincimento che la pace è un dono dall'alto e dimostrare un operoso impegno ad implorarlo, accoglierlo e farlo fruttificare mediante scelte concrete di rispetto, di solidarietà e di fraternità.

1. Dignità e libertà della persona umana

La pace non è soltanto assenza di contrasti e di guerre, ma è «frutto dell'ordine impresso nell'umana società dal suo fondatore» («Gaudium et Spes», 75). Essa è opera della giustizia, e perciò richiede il rispetto dei diritti e il compimento dei doveri propri di ogni uomo. C'è un legame intrinseco tra le esigenze della giustizia, della verità e della pace («Pacem in Terris», p. I e III).

Secondo quest'ordine, voluto dal Creatore, la società è chiamata a organizzarsi e a svolgere il suo compito al servizio dell'uomo e del bene comune. Le linee portanti di tale ordine sono individuabili dalla ragione e riconoscibili nell'esperienza storica, e l'odierno sviluppo delle scienze sociali ha arricchito la consapevolezza che ne ha l'umanità, a dispetto di tutte le distorsioni ideologiche e dei conflitti che sembrano talora offuscarla. Per questo la Chiesa cattolica, mentre vuol compiere con fedeltà la sua missione di annunciare la salvezza che viene soltanto da Cristo (cfr. At 4,12), si rivolge indistintamente ad ogni uomo e lo invita a riconoscere le leggi dell'ordine naturale, che governano la convivenza umana e determinano le condizioni della pace.

Fondamento e fine dell'ordine sociale è la persona umana, come soggetto di diritti inalienabili, che non riceve dall'esterno ma che scaturiscono dalla sua stessa natura: nulla e nessuno può distruggerli, nessuna costrizione esterna può annientarli, poiché essi hanno radice in ciò che vi è di più profondamente umano. Analogamente, la persona non si esaurisce nei condizionamenti sociali, culturali, storici, perché è proprio dell'uomo, che ha un'anima spirituale, il tendere a un fine che trascende le condizioni mutevoli della sua esistenza. Nessuna potestà umana può opporsi alla realizzazione dell'uomo come persona.

Dal primo e fondamentale principio dell'ordine sociale, che è la finalizzazione della società alla persona, deriva l'esigenza che ogni società sia organizzata in modo tale da permettere all'uomo, anzi da aiutarlo a realizzare la sua vocazione in piena libertà.

La libertà è la prerogativa più nobile dell'uomo. Sin dalle scelte più intime, ogni persona deve poter esprimere se stessa in un atto di consapevole determinazione, ispirato dalla propria coscienza. Senza libertà gli atti umani sono svuotati, sprovvisti di valore.

La libertà, di cui l'uomo è dotato dal Creatore, è la capacità che gli è permanentemente data di cercare il vero con l'intelligenza e di aderire col cuore al bene a cui naturalmente egli aspira, senza esser sottomesso a pressioni, costrizioni e violenze di sorta. Appartiene alla dignità della persona poter corrispondere all'imperativo morale della propria coscienza nella ricerca della verità. E la verità - come ha sottolineato il Concilio Ecumenico Vaticano II - «proprio perché va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale», «non si impone che in virtù della stessa verità» («Dignitatis Humanae», 3.1).

La libertà dell'uomo nella ricerca della verità e nella professione, che vi è collegata, delle proprie convinzioni religiose, per essere mantenuta immune da qualsiasi coercizione di individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, deve trovare una precisa garanzia nell'ordinamento giuridico della società, cioè essere riconosciuta e sancita dalla legge civile quale diritto soggettivo e inalienabile («Dignitatis Humanae», 2).

E' ben chiaro che la libertà di coscienza e di religione non significa una relativizzazione della verità oggettiva che ogni essere umano è tenuto, per dovere morale, a ricercare. Nella società organizzata, essa è soltanto la traduzione istituzionale di quell'ordine, nel quale Dio ha disposto che le sue creature possano conoscere, accogliere e corrispondere, come persone libere e responsabili, alla sua proposta eterna di alleanza.

La libertà religiosa, in quanto attinge la sfera più intima dello spirito, si rivela punto di riferimento e, in certo modo, diviene misura degli altri diritti fondamentali. Si tratta, infatti di rispettare lo spazio più geloso dell'autonomia della persona, consentendole di agire secondo il dettame della sua coscienza, sia nelle scelte private che nella vita sociale. Lo Stato non può rivendicare una competenza, diretta o indiretta, sulle convinzioni religiose delle persone. Esso non può arrogarsi il diritto di imporre o di impedire la professione e la pratica pubblica della religione di una persona o di una comunità. In tale materia è dovere delle autorità civili assicurare che i diritti dei singoli e delle comunità siano ugualmente rispettati, e salvaguardare, in pari tempo, il giusto ordine pubblico.

Anche nel caso in cui uno Stato attribuisca una speciale posizione giuridica a una determinata religione, è doveroso che sia legalmente riconosciuto ed effettivamente rispettato il diritto di libertà di coscienza di tutti i cittadini, come pure degli stranieri che vi risiedono anche temporaneamente, per motivi di lavoro o altri. In nessun caso l'organizzazione statale può sostituirsi alla coscienza dei cittadini nel sottrarre spazi vitali o prendere il posto delle loro associazioni religiose. Il retto ordine sociale esige che tutti - singolarmente e comunitariamente - possano professare la propria convinzione religiosa nel rispetto degli altri.

Il 1· settembre 1980, rivolgendomi ai capi di Stato firmatari dell'Atto finale di Helsinki, volli sottolineare - tra l'altro - come l'autentica libertà religiosa richieda che siano garantiti anche i diritti derivanti dalla dimensione sociale e pubblica della professione di fede e dell'appartenenza a una comunità religiosa organizzata. A questo proposito, parlando all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, esprimevo la convinzione che «lo stesso rispetto della dignità della persona sembra richiedere che, quando sia discusso o stabilito, in vista di leggi nazionali o di convenzioni internazionali, il giusto modo dell'esercizio della libertà religiosa, siano coinvolte anche le istituzioni che per loro natura servono la vita religiosa».

2. Un patrimonio comune

Si deve riconoscere che i principi, di cui si è detto, sono oggi patrimonio comune della maggior parte degli ordinamenti civili, così come dell'organizzazione della società internazionale, la quale ha formulato appropriati documenti normativi. Essi fanno ormai parte della cultura del nostro tempo, come dimostra il dibattito sempre più accurato e approfondito che, specialmente in questi anni, è maturato in riunioni e congressi di studiosi e di esperti su ogni aspetto concreto della libertà religiosa. Nondimeno, si verifica frequentemente che il diritto alla libertà religiosa non sia correttamente inteso e sufficientemente rispettato.

Ci sono, innanzitutto, forme di intolleranza spontanee, più o meno occasionali, frutto talora di ignoranza e di presunzione, che offendono persone e comunità, provocando polemiche, attriti e contrapposizioni, con pregiudizio della pace e di un solidale impegno per il bene comune. In vari Paesi norme legali e prassi amministrative limitano o annullano di fatto i diritti che formalmente le Costituzioni riconoscono ai singoli credenti e ai gruppi religiosi. Infine, si hanno ancora oggi legislazioni e regolamenti che non recepiscono il fondamentale diritto alla libertà religiosa o ne prevedono limitazioni del tutto immotivate, per non parlare dei casi di veri provvedimenti di carattere discriminatorio e, talora, apertamente persecutorio.

Varie Organizzazioni pubbliche e private, nazionali e internazionali, sono sorte soprattutto negli anni più recenti, per la difesa di coloro che, in molte parti del mondo, sono vittime - per le loro convinzioni religiose - di situazioni illegittime e mortificanti per l'intera umanità. Di fronte all'opinione pubblica, esse si fanno meritoriamente eco del lamento e della protesta di fratelli e sorelle lasciati spesso senza voce.

Per parte sua, la Chiesa cattolica non cessa di dimostrare la propria solidarietà a quanti soffrono discriminazioni e persecuzioni a motivo della fede operando con costante impegno e paziente tenacia perché tali situazioni siano superate. A questo scopo la Santa Sede cerca di portare il suo specifico contributo nei consessi internazionali, nei quali si discute della salvaguardia dei diritti umani e della pace. Nello stesso senso si pone l'azione, necessariamente più discreta, ma non meno sollecita, svolta dalla Sede apostolica e dai suoi rappresentanti nei contatti con le autorità politiche di tutto il mondo.

3. La libertà religiosa e la pace

A nessuno può sfuggire che la dimensione religiosa, radicata nella coscienza dell'uomo, ha un'incidenza specifica sul tema della pace e che ogni tentativo di impedirne o di contrastarne l'espressione libera si ritorce inevitabilmente, con gravi compromissioni, sulla possibilità dell'uomo di vivere serenamente con i suoi simili.

Una prima considerazione si impone. Come scrivevo nella ricordata lettera ai capi di Stato firmatari dell'Atto finale di Helsinki, la libertà religiosa, in quanto attinge la sfera più intima dello spirito, sorregge ed è come la ragion d'essere delle altre libertà. E la professione di una religione, benché consista prima di tutto in atti interiori dello spirito, coinvolge l'intera esperienza della vita umana, e quindi tutte le sue manifestazioni.

La libertà religiosa, inoltre, contribuisce in maniera determinante alla formazione di cittadini autenticamente liberi in quanto - consentendo la ricerca e l'adesione alla verità sull'uomo e sul mondo - favorisce in ciascun uomo una piena consapevolezza della propria dignità e una più motivata assunzione delle proprie responsabilità. Un rapporto onesto con la verità è condizione essenziale di un'autentica libertà («Redemptor Hominis», 12). In questo senso si può ben dire che la libertà religiosa è un fattore di grande rilievo per rafforzare la coesione morale di un popolo. La società civile può contare sui credenti che, per le loro profonde convinzioni, non solo non si lasceranno facilmente catturare da ideologie o correnti totalizzanti, ma si sforzeranno di agire in coerenza con le loro aspirazioni verso tutto ciò che è vero e giusto, condizione ineludibile per il raggiungimento della pace (cfr. «Dignitatis Humanae», 8).

Ma c'è di più. La fede religiosa, facendo sì che l'uomo comprenda in modo nuovo la propria umanità, lo porta a ritrovarsi pienamente, mediante il dono sincero di sé, a fianco degli altri uomini («Dominum et Vivificantem», 59). Essa avvicina e unisce gli uomini, li affratella, li rende più attenti, più responsabili, più generosi nella dedizione al bene comune. Non si tratta soltanto di sentirsi meglio disposti a collaborare con gli altri, perché rassicurati e protetti nei propri diritti, ma piuttosto di attingere dalle sorgenti inesauribili della retta coscienza motivazioni superiori per l'impegno a costruire una società più giusta e più umana.

In seno a ciascuno Stato - ma, a dir meglio, a ciascun popolo - questa esigenza di solidale corresponsabilità è oggi particolarmente sentita. Ma, come già si chiedeva il mio venerato predecessore, Papa Paolo VI, «può forse uno Stato sollecitare con frutto una piena fiducia e collaborazione, quando - per una sorta di confessionalismo negativo - si proclama ateo e, mentre dichiara di rispettare, in un certo quadro, le credenze individuali, prende posizione contro la fede di una parte dei suoi cittadini»? Si dovrebbe, invece, procurare che «lo stesso confronto tra la concezione religiosa del mondo e quella agnostica o anche ateistica, che è uno dei «segni dei tempi» della nostra epoca», conservi «leali e rispettose dimensioni umane senza violare gli essenziali diritti della coscienza di nessun uomo o donna che vivono sulla terra» (Al Corpo Diplomatico, 14 gennaio 1978).

Al di là delle persistenti situazioni di guerra e di ingiustizia, assistiamo oggi a un movimento verso una progressiva unione dei popoli e delle Nazioni ai diversi livelli politici, economici, culturali ecc. A tale spinta, che appare inarrestabile, ma che pure incontra continui e gravi intoppi, la convinzione religiosa dà un impulso profondo, di portata non indifferente. Essa infatti, escludendo il ricorso ai metodi della violenza nella composizione dei conflitti ed educando alla fraternità e all'amore, contribuisce a favorire l'intesa e la riconciliazione e può fornire nuove risorse morali per la soluzione di questioni di fronte alle quali l'umanità sembra oggi debole e impotente.

4. La responsabilità dell'uomo religioso

Ai doveri dello Stato in ordine all'esercizio del diritto alla libertà religiosa corrispondono precise e gravi responsabilità degli uomini e delle donne, sia nella professione religiosa individuale, sia nell'organizzazione e nella vita delle rispettive comunità.

In primo luogo, i responsabili delle Confessioni religiose sono tenuti a presentare il loro insegnamento senza lasciarsi condizionare da interessi personali, politici e sociali, e in modi consoni alle esigenze della convivenza e rispettosi della libertà di ciascuno.

Parallelamente, gli aderenti alle varie religioni dovrebbero - individualmente e comunitariamente - esprimere la loro convinzione e organizzare il culto di ogni altra attività loro propria rispettando, però, i diritti degli altri, che non appartengono a quella religione o non professano un credo. Ed è proprio sul terreno della pace, somma aspirazione dell'umanità, che ogni comunità religiosa e ogni singolo credente possono misurare l'autenticità del proprio impegno di solidarietà verso i fratelli. Oggi, come forse mai in passato, il mondo guarda alle religioni con un'attesa specifica proprio in ordine alla pace.

E' del resto motivo di compiacimento il fatto che nei responsabili delle Confessioni religiose, come nei semplici fedeli, si riscontra un'attenzione sempre più acuta, un desiderio sempre più vivo di operare in favore della pace. Questi propositi meritano di essere incoraggiati e opportunamente coordinati, per renderli sempre più efficaci. Per far questo, è necessario andare alla radice.

E' quello che è avvenuto ad Assisi lo scorso anno: rispondendo al mio appello fraterno, i responsabili delle principali religioni del mondo convennero per affermare insieme - pur nella fedeltà alla rispettiva convinzione religiosa - il loro comune impegno nella costruzione della pace. Secondo la «logica» di Assisi si tratta, infatti, di un dono vincolante e impegnativo, di un dono da coltivare e da portare a maturazione: nell'accoglienza reciproca, nel mutuo rispetto, nella rinuncia all'intimidazione ideologica e alla violenza, nella promozione di istituzioni e di forme di concertazione e di cooperazione fra i popoli e le Nazioni, ma soprattutto nell'educazione alla pace, considerata a un livello ben più alto della pur necessaria e auspicata riforma delle strutture: della pace, cioè, che suppone la conversione dei cuori.

5. L'impegno dei seguaci di Cristo

Riconosciamo con gioia che, tra le Chiese e comunità ecclesiali cristiane, questo processo è già felicemente avviato. Vorrei formulare l'auspicio che esso possa ricevere nuovo impulso e si allarghi fino a coinvolgere in maniera crescente tutti gli uomini religiosi del mondo nella grande sfida della pace.

Come pastore della Chiesa universale, verrei meno al mio mandato, se non elevassi la mia voce in favore del rispetto del diritto inalienabile del Vangelo di essere proclamato «ad ogni creatura» (Mc 16,15) e se non ricordassi che Dio ha ordinato la società civile al servizio della persona umana, alla quale spetta la libertà di cercare e di aderire alla verità. L'impegno per la verità, la libertà, la giustizia e la pace distingue i seguaci di Cristo Signore. Noi portiamo, infatti, nel cuore la certezza rivelata che Dio Padre, per opera del Figlio crocifisso, che «è la nostra pace» (Ef 2,14), ha fatto di noi un popolo nuovo, il quale ha come condizione la libertà dei figli e come statuto il precetto dell'amore fraterno.

Popolo della nuova alleanza, noi sappiamo che la nostra libertà trova la più alta espressione nell'adesione totale alla chiamata divina alla salvezza, e con l'apostolo Giovanni confessiamo: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16), amore manifestato nel Figlio incarnato. Da questo libero e liberante atto di fede scaturiscono una nuova visione del mondo, un approccio nuovo ai fratelli, un modo nuovo di essere nella società come un lievito. E' il «comandamento nuovo» (Gv 13,34), che ci ha dato il Signore; è la sua pace (cfr. Gv 14,27), non quella sempre imperfetta del mondo, che egli ci ha lasciato.

Dobbiamo vivere pienamente e responsabilmente la libertà che ci viene dall'essere figli e schiude al nostro sguardo prospettive trascendenti. Dobbiamo impegnarci con tutte le forze a vivere il comandamento nuovo, lasciandoci illuminare dalla pace che ci è donata e irradiandola attorno a noi: «Da questo - ci ammonisce il Signore - riconosceranno che siete miei discepoli» (Gv 13,35).

So bene che questo formidabile impegno supera le nostre povere forze. In quante divisioni e incomprensioni noi cristiani portiamo la nostra parte di responsabilità, e quanto ancora ci resta da costruire nel nostro animo, in seno alle famiglie e alle comunità, nel segno della riconciliazione e della carità fraterna! Né, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni dei mondo ci facilitano il compito. La tentazione della violenza è sempre in agguato. L'egoismo, il materialismo, la superbia rendono l'uomo sempre meno libero e la società sempre meno aperta alle esigenze della fratellanza. Non dobbiamo tuttavia scoraggiarci: Gesù, il nostro Maestro e Signore, è con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20).

Il mio pensiero si rivolge in modo particolarmente affettuoso ai fratelli e alle sorelle che sono privi di libertà nel professare la loro fede cristiana, a quanti soffrono persecuzioni per il nome di Cristo, a coloro che per causa sua debbono subire emarginazioni e umiliazioni. Desidero che questi nostri fratelli e sorelle sentano la nostra spirituale vicinanza, la nostra solidarietà, il conforto della nostra preghiera. Noi sappiamo che il loro sacrificio, in quanto è unito a quello di Cristo, porta frutti di vera pace.

Fratelli e sorelle nella fede, l'impegno per la pace costituisce una testimonianza che oggi ci rende credibili agli occhi del mondo e, soprattutto, agli occhi delle generazioni che crescono.

La grande sfida dell'uomo contemporaneo, la posta in gioco della sua autentica libertà, risiede nella beatitudine evangelica: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).

Il mondo ha bisogno della pace, il mondo desidera ardentemente la pace. Preghiamo affinché tutti, uomini e donne, godendo della libertà religiosa, possano vivere in pace.

8 dicembre 1987.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PER COSTRUIRE LA PACE RISPETTARE LE MINORANZE

1 gennaio 1989

 

Introduzione

1. «Fin dal secolo XIX si è sviluppata e affermata dappertutto nel mondo una tendenza in campo politico, per cui avviene che gli uomini della medesima stirpe vogliono essere indipendenti e costituirsi in una sola nazione. E poiché questo, per un insieme di cause, non sempre può essere realizzato, ne consegue che le minoranze etniche si trovano frequentemente incluse entro i confini nazionali di un'altra stirpe, e da ciò insorgono problemi assai gravi» (Ioannes XXIII «Pacem in Terris», III, 35).

Con queste parole, venticinque anni or sono, il mio predecessore Giovanni XXIII di v.m. indicava una delle questioni più delicate della società contemporanea, che col passare degli anni è diventata sempre più urgente, perché essa riguarda tanto l'organizzazione della vita sociale e civile all'interno di ciascun Paese, quanto la vita della comunità internazionale.

E' per questo che, volendo scegliere un tema specifico per la prossima Giornata Mondiale della Pace, ritengo opportuno proporre alla comune riflessione l'argomento delle minoranze, essendo tutti noi ben consapevoli che - come ha affermato il Concilio Vaticano II - «la pace non è la semplice assenza di guerra, nè può ridursi unicamente a rendere stabile l'equilibrio delle forze contrastanti» («Gaudium et Spes», 78), ma è un processo dinamico che deve tener conto di tutti gli elementi, come delle cause che la favoriscono o la turbano.

E' indubbio che, in questo momento di distensione internazionale, dovuto ad intese e mediazioni che fanno intravvedere possibili soluzioni in favore dei popoli vittime di conflitti sanguinosi, la questione delle minoranze stia assumendo rilevante importanza e costituisca, quindi, per ogni dirigente politico o responsabile di gruppi religiosi e per ogni uomo di buona volontà, oggetto di attenta riflessione.

2. In quasi tutte le società oggi esistono le minoranze, quali comunità che traggono origine da diverse tradizioni culturali, da appartenenza razziale ed etnica, da credenze religiose, o anche da vicissitudini storiche; alcune sono di antica data, altre di più recente costituzione. Le situazioni, in cui vivono, sono tanto differenti, che è quasi impossibile tracciarne un quadro completo. Da un lato, vi sono gruppi assai piccoli, capaci di preservare e affermare la propria identità, e che sono ben integrati nelle società alle quali appartengono. In alcuni casi questi gruppi minoritari riescono addirittura ad imporre il loro predominio sulla maggioranza numerica nella vita pubblica. D'altro lato, si osservano minoranze che non esercitano influenza e non godono pienamente dei loro diritti, ma si trovano anzi in situazione di sofferenza e di disagio. Ciò può condurre tali gruppi o ad una rassegnazione apatica, o ad uno stato di agitazione e, perfino, alla ribellione. Tuttavia, nè la passività, nè la violenza sono vie adeguate a creare le condizioni di una pace autentica.

Alcune minoranze sono accomunate da un'altra esperienza: la separazione o l'emarginazione. E' pur vero che, a volte, un gruppo può liberamente scegliere di vivere a parte per proteggere la propria cultura, ma è più spesso vero che le minoranze si trovano davanti a barriere che le isolano dal resto della società. In tale contesto, mentre la minoranza tende a chiudersi in se stessa, la popolazione maggioritaria può nutrire un atteggiamento di rigetto nei confronti del gruppo minoritario nel suo insieme o nei suoi singoli componenti. Quando ciò si verifica, essi non sono in grado di contribuire attivamente e creativamente a una pace costruita sulla accettazione delle legittime differenze.

Principi fondamentali

3. In una società nazionale, composta da differenti gruppi umani, sono due i principi comuni, ai quali non è possibile derogare, che anzi devono essere posti alla base di ogni organizzazione sociale.

Il primo principio è l'inalienabile dignità di ciascuna persona umana, senza distinzioni relative alla sua origine razziale, etnica, culturale, nazionale o alla sua credenza religiosa. Nessuna persona esiste per sè sola, ma trova la sua più compiuta identità in rapporto con gli altri: altrettanto si può affermare dei gruppi umani. Questi, infatti, hanno un diritto all'identità collettiva che va tutelato conformemente alla dignità di ogni loro componente. Tale diritto rimane inalterato anche nei casi in cui il gruppo, o uno dei suoi membri, agisce contro il bene comune. In tali casi la presunta azione illecita deve essere presa in esame dalle autorità competenti, senza per questo che tutto il gruppo sia condannato, perché ciò contrasta con la giustizia. A loro volta, i membri delle minoranze hanno l'obbligo di trattare gli altri con lo stesso rispetto e senso della dignità.

Il secondo principio riguarda l'unità fondamentale del genere umano, il quale trae la sua origine da un unico Dio creatore che, secondo il linguaggio della Sacra Scrittura, «da un solo ceppo ha fatto discendere tutte le stirpi degli uomini e le ha fatte abitare su tutta la faccia della terra» (At 17,26). L'unità del genere umano comporta che l'umanità tutta, al di sopra delle sue divisioni etniche, nazionali, culturali, religiose, formi una comunità senza discriminazioni fra i popoli, e che tenda alla solidarietà reciproca. L'unità esige pure che le diversità dei membri della famiglia umana siano messe al servizio di un rafforzamento della stessa unità, anziché costituire un motivo di divisione.

L'obbligo di accettare e di tutelare la diversità non appartiene solo allo Stato o ai gruppi. Ogni persona, come membro dell'unica famiglia umana, deve comprendere e rispettare il valore della diversità tra gli uomini e ordinarlo al bene comune. Un'intelligenza aperta, desiderosa di conoscere meglio il patrimonio culturale delle minoranze con cui viene a contatto, contribuirà ad eliminare gli atteggiamenti ispirati da pregiudizi che ostacolano le sane relazioni sociali. Si tratta di un processo che va perseguito continuamente, poiché simili atteggiamenti rinascono troppo spesso sotto nuove forme.

La pace all'interno dell'unica famiglia umana esige un costruttivo sviluppo di ciò che ci distingue come individui e come popoli, di ciò che rappresenta la nostra identità. D'altro lato, essa richiede da parte di tutti i gruppi sociali, che siano o meno costituiti in Stato, una disponibilità a contribuire all'edificazione di un mondo pacifico. La micro-comunità e la macro-comunità sono legate da diritti e doveri reciproci, la cui osservanza serve a consolidare la pace.

Diritti e doveri delle minoranze

4. Una delle finalità dello Stato di diritto è che tutti i cittadini possano godere della pari dignità e della eguaglianza davanti alla legge. Nondimeno, l'esistenza di minoranze, come gruppi riconoscibili all'interno di uno Stato, pone la questione dei loro specifici diritti e doveri. Molti di tali diritti e doveri riguardano proprio la relazione che si instaura tra i gruppi minoritari e lo Stato. In alcuni casi, i diritti sono stati codificati e le minoranze godono di una specifica tutela giuridica. Ma non di rado, anche dove lo Stato assicura simile tutela, le minoranze si trovano a soffrire discriminazioni ed esclusioni di fatto: in tali casi, lo Stato stesso ha l'obbligo di promuovere e favorire i diritti dei gruppi minoritari, giacché la pace e la sicurezza interna potranno essere garantite solo mediante il rispetto dei diritti di tutti coloro che si trovano sotto la sua responsabilità.

5. Il primo diritto delle minoranze è il diritto a esistere. Tale diritto può essere disatteso in diverse maniere, fino ai casi estremi in cui è negato mediante forme manifeste o indirette di genocidio. Il diritto alla vita, in quanto tale, è inalienabile, ed uno Stato che persegua o tolleri atti tendenti a mettere in pericolo la vita dei suoi cittadini appartenenti a gruppi minoritari viola la legge fondamentale che regola l'ordine sociale.

6. Il diritto a esistere può essere insidiato anche con forme più sottili. Alcuni popoli, in particolare quelli qualificati come autoctoni e aborigeni, hanno sempre avuto con la loro terra uno speciale rapporto, che si collega con la loro stessa identità, con le proprie tradizioni tribali, culturali e religiose. Quando le popolazioni indigene sono private della loro terra, perdono un elemento vitale della propria esistenza e corrono il rischio di scomparire in quanto popolo.

7. Un altro diritto da salvaguardare è il diritto delle minoranze a preservare e a sviluppare la propria cultura. Non è raro il caso in cui gruppi minoritari sono minacciati di estinzione culturale. In alcuni luoghi, infatti, è stata adottata una legislazione che non riconosce loro il diritto a usare la propria lingua. Talora sono imposti anche cambiamenti di nomi patronimici e topografici. Talora le minoranze vedono ignorate le loro espressioni artistiche e letterarie e non trovano spazio nella vita pubblica per le loro festività e celebrazioni, e ciò può condurre alla perdita di una cospicua eredità culturale. Strettamente connesso con questo diritto è quello ad avere relazioni con i gruppi che hanno un'eredità culturale e storica comune e vivono su territori di altri Stati.

8. A questo punto farò solo una breve menzione del diritto alla libertà religiosa, essendo già stato oggetto del Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace dello scorso anno. Tale diritto appartiene a tutte le comunità religiose, oltre che alle persone, ed include la libera manifestazione sia individuale che collettiva della convinzione religiosa. Ne consegue che queste minoranze devono poter celebrare comunitariamente il loro culto secondo i propri riti. Esse devono anche essere in grado di provvedere all'educazione religiosa mediante un insegnamento appropriato e di disporre dei mezzi necessari.

E', inoltre, assai importante che lo Stato assicuri e promuova efficacemente la tutela della libertà religiosa in particolar modo quando, accanto ad una forte maggioranza di credenti di una determinata religione, ci sono uno o più gruppi minoritari aderenti ad un'altra confessione.

Infine, alle minoranze religiose deve essere garantita una giusta libertà di scambi e di relazioni con altre comunità, sia all'interno che all'esterno del proprio ambito nazionale.

9. I diritti fondamentali dell'uomo sono oggi sanciti in vari documenti internazionali e nazionali. Per quanto essenziali possano essere tali strumenti giuridici, essi non bastano ancora a far superare atteggiamenti di pregiudizio e di diffidenza profondamente radicati, nè ad eliminare quei modi di pensare che ispirano azioni dirette contro membri di gruppi minoritari. La traduzione della legge nel comportamento costituisce un processo lungo e lento, soprattutto in vista della rimozione di simili atteggiamenti, ma non per questo tale processo diventa impresa meno urgente. Non solo lo Stato, ma anche ogni persona ha l'obbligo di fare il possibile per raggiungere questo traguardo. Lo Stato, tuttavia, può svolgere un ruolo importante col favorire la promozione di iniziative culturali e di scambi che facilitino la mutua comprensione, come pure di programmi educativi che aiutino a formare i giovani al rispetto degli altri ed a respingere tutti i pregiudizi, molti dei quali derivano da ignoranza. I genitori poi hanno una grande responsabilità, poiché i bambini apprendono molto osservando e sono portati ad adottare gli atteggiamenti dei genitori nei confronti di altri popoli e gruppi.

Non c'è dubbio che lo sviluppo di una cultura basata sul rispetto per gli altri è essenziale alla costruzione di una società pacifica, ma è purtroppo evidente che la pratica effettiva di tale rispetto incontra oggi non lievi difficoltà.

In concreto lo Stato deve vigilare, affinché non sorgano nuove forme di discriminazione, come per esempio nella ricerca di un alloggio o di un posto di lavoro. I provvedimenti dei pubblici poteri in tal campo sono spesso lodevolmente integrati da generose iniziative di associazioni di volontari, di organizzazioni religiose, di persone di buona volontà, le quali cercano di ridurre le tensioni e di promuovere una maggiore giustizia sociale, aiutando tanti fratelli e sorelle a trovare un'occupazione e una dimora degna.

10. Problemi delicati sorgono quando un gruppo minoritario presenta rivendicazioni che hanno particolari implicazioni politiche. Talvolta il gruppo cerca l'indipendenza o, almeno, una maggiore autonomia politica.

Desidero ribadire che, in tali delicate circostanze, dialogo e negoziato sono il cammino obbligato per raggiungere la pace. La disponibilità delle parti ad accettarsi ed a dialogare è un requisito indispensabile per arrivare a un'equa soluzione di problemi complessi che possono attentare seriamente alla pace. Al contrario, il rifiuto del dialogo può aprire la porta alla violenza.

In talune situazioni di conflitto gruppi terroristici si arrogano indebitamente il diritto esclusivo di parlare in nome delle comunità minoritarie, privandole così della possibilità di scegliere liberamente e apertamente i propri rappresentanti e di cercare, senza intimidazioni, soluzioni adeguate. Inoltre, i membri di tali comunità troppo spesso soffrono per gli atti di violenza commessi abusivamente in loro nome.

Mi ascoltino coloro che si sono messi sulla via inumana del terrorismo: colpire ciecamente, uccidere innocenti o compiere sanguinose rappresaglie non favorisce un'equa valutazione delle rivendicazioni avanzate dalle minoranze, per le quali essi pretendono di agire (cfr. «Sollicitudo Rei Socialis», 24)!

11. Ogni diritto comporta corrispondenti doveri. Anche i membri dei gruppi minoritari hanno i loro propri doveri nei confronti della società e dello Stato in cui vivono: in primo luogo, quello di cooperare, come tutti gli altri cittadini, al bene comune. Le minoranze devono, infatti, offrire il loro specifico contributo alla costruzione di un mondo pacifico che rifletta la ricca diversità di tutti i suoi abitanti.

In secondo luogo, un gruppo minoritario ha il dovere di promuovere la libertà e la dignità di ciascuno dei suoi membri e di rispettare le scelte di ogni suo individuo, anche quando uno decidesse di passare alla cultura maggioritaria.

In situazioni poi di reale ingiustizia può toccare ai gruppi delle minoranze emigrati all'estero di reclamare il rispetto dei legittimi diritti per i membri del loro gruppo rimasti oppressi nel luogo di origine ed impediti di far sentire la loro voce. In tali casi, però, si deve usare una grande prudenza e un lucido discernimento, specialmente quando non si è in grado di avere informazioni oggettive circa le condizioni di vita delle popolazioni coinvolte.

Tutti i membri di gruppi minoritari, ovunque siano, vorranno valutare consapevolmente la fondatezza delle loro rivendicazioni alla luce dell'evoluzione storica e della realtà attuale. Non farlo comporterebbe il rischio di rimanere prigionieri del passato e senza prospettive per l'avvenire.

Per costruire la pace

12. Dalle riflessioni precedenti si delinea il profilo di una società più giusta e pacifica, al cui avvento tutti abbiamo la responsabilità di contribuire con ogni possibile sforzo. La sua costruzione richiede un forte impegno per eliminare non solo le discriminazioni manifeste, ma anche tutte quelle barriere che dividono i gruppi. La riconciliazione secondo giustizia, rispettosa delle legittime aspirazioni di tutte le componenti della comunità, deve essere la regola. Al di sopra di tutto e in tutto, la paziente trama per tessere una convivenza pacifica trova vigore e compimento nell'amore che abbraccia tutti i popoli. Tale amore può esprimersi in innumerevoli, concrete forme di servizio alla ricca diversità del genere umano, uno per origine e per destino.

La crescente consapevolezza, che si avverte oggi ad ogni livello nei riguardi della condizione delle minoranze, costituisce nel nostro tempo un segno di sicura speranza per le nuove generazioni e per le aspirazioni di tali gruppi minoritari. Infatti, il rispetto verso di essi va considerato, in qualche modo, come la pietra di paragone per un'armoniosa convivenza sociale e come l'indice della maturità civile raggiunta da un Paese e dalle sue istituzioni. In una società realmente democratica garantire la partecipazione alla vita pubblica delle minoranze è segno di elevato progresso civile, e ciò torna ad onore di quelle nazioni, nelle quali a tutti i cittadini è garantita una tale partecipazione in un clima di vera libertà.

13. Desidero, infine, rivolgere uno speciale appello alle mie sorelle e ai miei fratelli in Cristo. Noi tutti sappiamo per fede, qualunque sia la nostra origine etnica e ovunque viviamo, che in Cristo «possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito», perché siamo diventati «familiari di Dio» (Ef 2,18.19). Come membri dell'unica famiglia di Dio, non possiamo tollerare divisioni o discriminazioni tra noi.

Quando il Padre ha inviato suo Figlio sulla terra, gli ha affidato una missione di salvezza universale. Gesù è venuto, affinché tutti «abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Nessuna persona, nessun gruppo è escluso da questa missione di amore unificante, che ora è stata affidata a noi. Dobbiamo anche noi pregare, come fece Gesù proprio alla vigilia della sua morte, con le semplici e sublimi parole: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21).

Tale preghiera deve costituire il nostro programma di vita, la nostra testimonianza, poiché come cristiani riconosciamo di avere un Padre comune, il quale non fa preferenza tra persone, «ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18).

14. Quando la Chiesa parla di discriminazione in generale o - come in questo messaggio - di quella particolare che colpisce i gruppi minoritari, essa si rivolge anzitutto ai propri membri, qualunque sia la loro posizione o responsabilità all'interno della società. Come non può esistere spazio di discriminazione nella Chiesa, così nessun cristiano può coscientemente incoraggiare o appoggiare strutture e atteggiamenti che dividono le persone dalle persone, i gruppi dai gruppi. Lo stesso insegnamento deve applicarsi a quanti fanno ricorso alla violenza e la sostengono.

15. Concludendo, desidero esprimere la mia spirituale vicinanza a quei membri di gruppi minoritari che sono nella sofferenza. Conosco i loro momenti di dolore ed i motivi di legittima fierezza. Elevo la mia preghiera, affinché le prove, in cui si trovano, abbiano presto a cessare e tutti possano godere in sicurezza dei propri diritti. Da parte mia, chiedo il conforto della preghiera, affinché la pace che cerchiamo sia sempre più la vera pace, edificata sulla «pietra angolare» (Ef 2,20) che è Cristo stesso.

Che Dio benedica tutti con i doni della sua pace e del suo amore.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1988.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PACE CON DIO CREATORE. PACE CON TUTTO IL CREATO

1 gennaio 1990

 

1. Si avverte ai nostri giorni la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, dai conflitti regionali e dalle ingiustizie tuttora esistenti nei popoli e tra le nazioni, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle sue risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Tale situazione genera un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo, di accaparramento e di prevaricazione.

Di fronte al diffuso degrado ambientale l'umanità si rende ormai conto che non si può continuare ad usare i beni della terra come nel passato. L'opinione pubblica ed i responsabili politici ne sono preoccupati, mentre studiosi delle più diverse discipline ne esaminano le cause. Sta così formandosi una coscienza ecologica, che non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete.

2. Non pochi valori etici, di fondamentale importanza per lo sviluppo di una società pacifica, hanno una diretta relazione con la questione ambientale. L'interdipendenza delle molte sfide, che il mondo odierno deve affrontare, conferma l'esigenza di soluzioni coordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.

Per il cristiano una tale visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla Rivelazione. Ecco perché, all'inizio di questo messaggio, desidero richiamare il racconto biblico della creazione, e mi auguro che coloro i quali non condividono le nostre convinzioni di fede possano egualmente trovarvi utili spunti per una comune linea di riflessione e di impegno.

I - «E Dio vide che era cosa buona»

3. Nelle pagine della Genesi, nelle quali è consegnata la prima autorivelazione di Dio alla umanità (1-3), ricorrono come un ritornello le parole: «E Dio vide che era cosa buona». Ma quando, dopo aver creato il cielo e il mare, la terra e tutto ciò che essa contiene, Iddio crea l'uomo e la donna, l'espressione cambia notevolmente: «E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona» (Gen 1,31). All'uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, ed allora come leggiamo - potè riposare «da ogni suo lavoro» (Gen 2,3).

La chiamata di Adamo ed Eva a partecipare all'attuazione del piano di Dio sulla creazione stimolava quelle capacità e quei doni che distinguono la persona umana da ogni altra creatura e, nello stesso tempo, stabiliva un ordinato rapporto tra gli uomini e l'intero creato. Fatti ad immagine e somiglianza di Dio, Adamo ed Eva avrebbero dovuto esercitare il loro dominio sulla terra (cfr. Gen 1,28) con saggezza e con amore. Essi, invece, con il loro peccato distrussero l'armonia esistente ponendosi deliberatamente contro il disegno del Creatore. Ciò portò non solo all'alienazione dell'uomo da se stesso, alla morte e al fratricidio, ma anche ad una certa ribellione della terra nei suoi confronti (cfr. Gen 3,17-19; 4,12). Tutto il creato divenne soggetto alla caducità, e da allora attende, in modo misterioso, di esser liberato per entrare nella libertà gloriosa insieme con tutti i figli di Dio (cfr. Rm 8,20-21).

4. I cristiani professano che nella morte e nella Risurrezione di Cristo si è compiuta l'opera di riconciliazione dell'umanità col Padre, a cui «piacque... riconciliare a sè tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20). La creazione è stata così rinnovata (cfr. Ap 21,5), e su di essa, prima sottoposta alla «schiavitù» della morte e della corruzione (cfr. Rm 8,21), si è effusa una nuova vita, mentre noi «aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13). Così il Padre «ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: cioè il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,9-10).

5. Queste considerazioni bibliche illuminano meglio il rapporto tra l'agire umano e l'integrità del creato. Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l'uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l'uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace: «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Os 4,3).

L'esperienza di questa «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la nostra fede in Dio. Stanno, infatti, sotto gli occhi di tutti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento di uomini indifferenti alle esigenze recondite, eppure chiaramente avvertibili, dell'ordine e dell'armonia che lo reggono.

Ci si chiede, pertanto, con ansia se si possa ancora porre rimedio ai danni provocati. E' evidente che un'idonea soluzione non può consistere semplicemente in una migliore gestione, o in un uso meno irrazionale delle risorse della terra. Pur riconoscendo l'utilità pratica di simili misure, sembra necessario risalire alle origini e affrontare nel suo insieme la profonda crisi morale, di cui il degrado ambientale è uno degli aspetti preoccupanti.

II - La crisi ecologica: un problema morale

6. Alcuni elementi della presente crisi ecologica ne rivelano in modo evidente il carattere morale. Tra essi, in primo luogo, è da annoverare l'applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Molte recenti scoperte hanno arrecato innegabili benefici all'umanità; esse, anzi, manifestano quanto sia nobile la vocazione dell'uomo a partecipare responsabilmente all'azione creatrice di Dio nel mondo. Si è, però, constatato che la applicazione di talune scoperte nell'ambito industriale ed agricolo produce, a lungo termine, effetti negativi. Ciò ha messo crudamente in rilievo come ogni intervento in un'area dell'ecosistema non possa prescindere dal considerare le sue conseguenze in altre aree e, in generale, sul benessere delle future generazioni.

Il graduale esaurimento dello strato di ozono e l'«effetto serra» hanno ormai raggiunto dimensioni critiche a causa della crescente diffusione delle industrie, delle grandi concentrazioni urbane e dei consumi energetici. Scarichi industriali, gas prodotti dalla combustione di carburanti fossili, incontrollata deforestazione, uso di alcuni tipi di diserbanti, refrigeranti e propellenti: tutto ciò - com'è noto - nuoce all'atmosfera ed all'ambiente. Ne sono derivati molteplici cambiamenti meteorologici ed atmosferici, i cui effetti vanno dai danni alla salute alla possibile futura sommersione delle terre basse.

Mentre in alcuni casi il danno forse è ormai irreversibile, in molti altri esso può ancora essere arrestato. E' doveroso, pertanto, che l'intera comunità umana - individui, Stati ed organismi internazionali - assuma seriamente le proprie responsabilità.

7. Ma il segno più profondo e più grave delle implicazioni morali, insite nella questione ecologica, è costituito dalla mancanza di rispetto per la vita, quale si avverte in molti comportamenti inquinanti. Spesso le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici vengono prima del bene delle singole persone, se non addirittura di quello di intere popolazioni. In questi casi, l'inquinamento o la distruzione riduttiva e innaturale, che talora configura un vero e proprio disprezzo dell'uomo.

Parimenti, delicati equilibri ecologici vengono sconvolti per un'incontrollata distruzione delle specie animali e vegetali o per un incauto sfruttamento delle risorse; e tutto ciò - giova ricordare - anche se compiuto nel nome del progresso e del benessere, non torna, in effetti, a vantaggio dell'umanità.

Infine, non si può non guardare con profonda inquietudine alle formidabili possibilità della ricerca biologica. Forse non è ancora in grado di misurare i turbamenti indotti in natura da una indiscriminata manipolazione genetica e dallo sviluppo sconsiderato di nuove specie di piante e forme di vita animale, per non parlare di inaccettabili interventi sulle origini della stessa vita umana. A nessuno sfugge come, in un settore così delicato, l'indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portino l'uomo alla soglia stessa dell'autodistruzione.

E' il rispetto per la vita e, in primo luogo, per la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.

E' a tutti evidente la complessità del problema ecologico. Esistono, tuttavia, alcuni principi basilari che, nel rispetto della legittima autonomia e della specifica competenza di quanti sono in esso impegnati, possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Si tratta di principi essenziali per la costruzione di una società pacifica, la quale non può ignorare nè il rispetto per la vita, nè il senso dell'integrità del creato.

III - Alla ricerca di una soluzione

8. Teologia, filosofia e scienza concordano nella visione di un universo armonioso, cioè di un vero «cosmo», dotato di una sua integrità e di un suo interno e dinamico equilibrio. Questo ordine deve essere rispettato: l'umanità è chiamata ad esplorarlo, a scoprirlo con prudente cautela e a fame poi uso salvaguardando la sua integrità.

D'altra parte, la terra è essenzialmente un'eredità comune, i cui frutti devono essere a beneficio di tutti. «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e popoli», ha riaffermato il Concilio Vaticano II («Gaudium et Spes», 69). Ciò ha dirette implicazioni per il nostro problema. E' ingiusto che pochi privilegiati continuino ad accumulare beni superflui dilapidando le risorse disponibili, quando moltitudini di persone vivono in condizioni di miseria, al livello minimo di sostentamento. Ed è ora la stessa drammatica dimensione del dissesto ecologico ad insegnarci quanto la cupidigia e l'egoismo, individuali o collettivi, siano contrari all'ordine del creato, nel quale è inscritta anche la mutua interdipendenza.

9. I concetti di ordine nell'universo e di eredità comune mettono entrambi in rilievo che è necessario un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale. Le dimensioni dei problemi ambientali superano, in molti casi, i confini dei singoli Stati: la loro soluzione, dunque, non può essere trovata unicamente a livello nazionale. Recentemente sono stati registrati alcuni promettenti passi verso questa auspicata azione internazionale, ma gli strumenti e gli organismi esistenti sono ancora inadeguati allo sviluppo di un piano coordinato di intervento. Ostacoli politici, forme di nazionalismo esagerato ed interessi economici, per non ricordare che alcuni fattori, rallentano, o addirittura impediscono la cooperazione internazionale e l'adozione di efficaci iniziative a lungo termine.

L'asserita necessità di un'azione concertata a livello internazionale non comporta certo una diminuzione della responsabilità dei singoli Stati. Questi, infatti, debbono non solo dare applicazione alle norme approvate insieme con le autorità di altri Stati, ma anche favorire, al loro interno, un adeguato assetto socio-economico, con particolare attenzione ai settori più vulnerabili della società. Spetta ad ogni Stato, nell'ambito del proprio territorio, il compito di prevenire il degrado dell'atmosfera e della biosfera, controllando attentamente, tra l'altro, gli effetti delle nuove scoperte tecnologiche o scientifiche, ed offrendo ai propri cittadini la garanzia di non essere esposti ad agenti inquinanti o a rifiuti tossici. Oggi si parla sempre più insistentemente del diritto ad un ambiente sicuro, come di un diritto che dovrà rientrare in un'aggiornata carta dei diritti dell'uomo.

IV - L'urgenza di una nuova solidarietà

10. La crisi ecologica pone in evidenza l'urgente necessità morale di una nuova solidarietà, specialmente nei rapporti tra i paesi in via di sviluppo e i paesi altamente industrializzati. Gli Stati debbono mostrarsi sempre più solidali e fra loro complementari nel promuovere lo sviluppo di un ambiente naturale e sociale pacifico e salubre. Ai paesi da poco industrializzati, per esempio, non si può chiedere di applicare alle proprie industrie nascenti certe norme ambientali restrittive, se gli Stati industrializzati non le applicano per primi al loro interno. Da parte loro, i paesi in via di industrializzazione non possono moralmente ripetere gli errori compiuti da altri nel passato, continuando a danneggiare l'ambiente con prodotti inquinanti, deforestazioni eccessive o sfruttamento illimitato di risorse inesauribili. In questo stesso contesto è urgente trovare una soluzione al problema del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti tossici.

Nessun piano, nessuna organizzazione, tuttavia, sarà in grado di operare i cambiamenti intravisti, se i responsabili delle nazioni di tutto il mondo non saranno veramente convinti della assoluta necessità di questa nuova solidarietà, che la crisi ecologica richiede e che è essenziale per la pace. Tale esigenza offrirà opportune occasioni per consolidare le pacifiche relazioni tra gli Stati.

11. Occorre anche aggiungere che non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo. Ad esempio, la povertà rurale e la distribuzione della terra in molti paesi hanno portato ad un'agricoltura di mera sussistenza e all'impoverimento dei terreni. Quando la terra non produce più, molti contadini si trasferiscono in altre zone, incrementando spesso il processo di deforestazione incontrollata, o si stabiliscono in centri urbani già carenti di strutture e servizi. Inoltre, alcuni paesi fortemente indebitati stanno distruggendo il loro patrimonio naturale con la conseguenza di irrimediabile squilibri ecologici, pur di ottenere nuovi prodotti di esportazione. Di fronte a tali situazioni, tuttavia, mettere sotto accusa soltanto i poveri per gli effetti ambientali negativi da essi provocati, sarebbe un modo inaccettabile di valutare le responsabilità. Occorre, piuttosto, aiutare i poveri, a cui la terra e affidata come a tutti gli altri, a superare la loro povertà, e ciò richiede una coraggiosa riforma delle strutture e nuovi schemi nei rapporti tra gli Stati e i popoli.

12. Ma c'è un'altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra. La scienza moderna dispone già, purtroppo, della capacità di modificare l'ambiente con intenti ostili, e tale manomissione potrebbe avere a lunga scadenza effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica, batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri naturali.

Oggi qualsiasi forma di guerra su scala mondiale causerebbe incalcolabili danni ecologici. Ma anche le guerre locali o regionali, per limitate che siano, non solo distruggono le vite umane e le strutture della società, ma danneggiano la terra, rovinando i raccolti e la vegetazione e avvelenando i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.

13. La società odierna non troverà soluzione al problema ecologico, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita. In molte parti del mondo essa è incline all'edonismo e al consumismo e resta indifferente ai danni che ne derivano. Come ho già osservato, la gravità della situazione ecologica rivela quanto sia profonda la crisi morale dell'uomo. Se manca il senso del valore della persona e della vita umana, ci si disinteressa degli altri e della terra. L'austerità, la temperanza, la autodisciplina e lo spirito di sacrificio devono informare la vita di ogni giorno affinché non si sia costretti da parte di tutti a subire le conseguenze negative della noncuranza dei pochi.

C'è dunque l'urgente bisogno di educare alla responsabilità ecologica: responsabilità verso gli altri; responsabilità verso l'ambiente. E un'educazione che non può essere basata semplicemente sul sentimento o su un indefinito velleitarismo. Il suo fine non può essere nè ideologico nè politico, e la sua impostazione non può poggiare sul rifiuto del mondo moderno o sul vago desiderio di un ritorno al «paradiso perduto». La vera educazione alla responsabilità comporta un'autentica conversione nel modo di pensare e nel comportamento. Al riguardo, le Chiese e le altre istituzioni religiose, gli organismi governativi, anzi tutti i componenti della società hanno un preciso ruolo da svolgere. Prima educatrice, comunque, rimane la famiglia, nella quale il fanciullo impara a rispettare il prossimo e ad amare la natura.

14. Non si può trascurare, infine, il valore estetico del creato. Il contatto con la natura è di per sè profondamente rigeneratore come la contemplazione del suo splendore dona pace e serenità. La Bibbia parla spesso della bontà e della bellezza della creazione, chiamata a dar gloria a Dio (cfr. ex gr., Gen 1,4 ss; Sal 8,2; 104[103],1ss; Sap 13,3-5; Sir 39,16.33; 43,1.9).

Forse più difficile, ma non meno intensa, può essere la contemplazione delle opere dell'ingegno umano. Anche le città possono avere una loro particolare bellezza, che deve spingere le persone a tutelare l'ambiente circostante. Una buona pianificazione urbana è un aspetto importante della protezione ambientale, e il rispetto per le caratteristiche morfologiche della terra e un indispensabile requisito per ogni insediamento ecologicamente corretto. Non va trascurata, insomma, la relazione che c'è tra un'adeguata educazione estetica e il mantenimento di un ambiente sano.

V - La questione ecologica: una responsabilità di tutti

15. Oggi la questione ecologica ha assunto tali dimensioni da coinvolgere la responsabilità di tutti. I vari aspetti di essa, che ho illustrato, indicano la necessità di sforzi concordati, al fine di stabilire i rispettivi doveri ed impegni dei singoli, dei popoli, degli Stati e della comunità internazionale. Ciò non solo va di pari passo con i tentativi di costruire la vera pace, ma oggettivamente li conferma e li rafforza. Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della causa della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l'atmosfera ci rivelano: nell'universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica - ripeto ancora - è un problema morale.

Anche gli uomini e le donne che non hanno particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il loro dovere di contribuire al risanamento dell'ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore e, quindi, sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato devono sentirsi chiamati ad occuparsi del problema. I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all'interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede. Essi, pertanto, sono consapevoli del vasto campo di cooperazione ecumenica ed interreligiosa che si apre dinanzi a loro.

16. A conclusione di questo messaggio, desidero rivolgermi direttamente ai miei fratelli e alle mie sorelle della Chiesa cattolica per ricordar loro l'importante obbligo di prendersi cura di tutto il creato. L'impegno del credente per un ambiente sano nasce direttamente dalla sua fede in Dio creatore, dalla valutazione degli effetti del peccato originale e dei peccati personali e dalla certezza di essere stato redento da Cristo. Il rispetto per la vita e per la dignità della persona umana include anche il rispetto e la cura del creato, che è chiamato ad unirsi all'uomo per glorificare Dio (cfr. Sal 148[147] et Sal 96[95]).

San Francesco d'Assisi, che nel 1979 ho proclamato celeste patrono dei cultori dell'ecologia (cfr. «Inter Sanctos»: AAS 71 [1979], 1509s), offre ai cristiani l'esempio dell'autentico e pieno rispetto per l'integrità del creato. Amico dei poveri, amato dalle creature di Dio, egli invitò tutti - animali, piante, forze naturali, anche fratello sole e sorella luna - ad onorare e lodare il Signore. Dal Poverello di Assisi ci viene la testimonianza che, essendo in pace con Dio, possiamo meglio dedicarci a costruire la pace con tutto il creato, la quale è inseparabile dalla pace tra i popoli.

Auspico che la sua ispirazione ci aiuti a conservare sempre vivo il senso della «fraternità» con tutte le cose create buone e belle da Dio onnipotente, e ci ricordi il grave dovere di rispettarle e custodirle con cura, nel quadro della più vasta e più alta fraternità umana.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1989.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

SE VUOI LA PACE RISPETTA LA COSCIENZA DI OGNI UOMO

1 gennaio 1991

 

I molti popoli che formano l'unica famiglia umana cercano oggi, sempre più frequentemente, l'effettivo riconoscimento e la tutela giuridica della libertà di coscienza, la quale è essenziale per la libertà di ogni essere umano. A diversi aspetti di questa libertà, fondamentale per la pace nel mondo, ho già dedicato due Messaggi per la Giornata mondiale della pace.

Per il 1988 invitai a riflettere con me sulla libertà religiosa. La garanzia del diritto a esprimere pubblicamente e in tutti gli ambiti della vita civile le proprie convinzioni religiose costituisce un elemento indispensabile della pacifica convivenza tra gli uomini. «La pace» - scrissi in quell'occasione - «affonda le proprie radici nella libertà e nell'apertura delle coscienze alla verità» (8 dicembre 1987). L'anno seguente continuai tale riflessione proponendo alcuni pensieri sulla necessità di rispettare i diritti delle minoranze civili e religiose, «una delle questioni più delicate della società contemporanea..., perché essa riguarda tanto l'organizzazione della vita sociale e civile all'interno di ciascun Paese, quanto la vita della Comunità internazionale» (8 dicembre 1988). Quest'anno desidero considerare specificamente l'importanza del rispetto della coscienza di ogni persona, quale necessario fondamento per la pace nel mondo.

I - Libertà di coscienza e pace

Gli avvenimenti dell'anno scorso, in effetti, hanno conferito una nuova urgenza al bisogno di intraprendere passi concreti al fine di assicurare il pieno rispetto della libertà di coscienza, tanto sul piano legale quanto su quello delle relazioni umane. Tali rapidi cambiamenti attestano in maniera assai chiara che la persona non può essere trattata come una specie di oggetto, governato esclusivamente da forze al di fuori del suo controllo. Al contrario, essa, nonostante la sua fragilità, non è priva della capacità di cercare e di conoscere liberamente il bene, di riconoscere e di respingere il male, di scegliere la verità e di opporsi all'errore. Dio, infatti, creando la persona umana, ha inscritto nel suo cuore una legge che ognuno può scoprire (cfr. Rm 2,15), e la coscienza è proprio la capacità di discernere e di agire secondo questa legge: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo (cfr. «Gaudium et Spes», 16).

Nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire nella coscienza di alcun uomo. Questa è il testimone della trascendenza della persona anche nei confronti della società e, come tale, è inviolabile. Essa, però, non è un assoluto, posto al di sopra della verità e dell'errore; anzi, la sua intima natura implica il rapporto con la verità obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e devono cercare. In questo rapporto con la verità obiettiva la libertà di coscienza trova la sua giustificazione, in quanto condizione necessaria per la ricerca della verità degna dell'uomo e per l'adesione ad essa, quando è stata adeguatamente conosciuta. Ciò implica, a sua volta, che tutti devono rispettare la coscienza di ognuno e non cercare di imporre ad alcuno la propria «verità», restando integro il diritto di professarla, senza per questo disprezzare chi la pensa diversamente. La verità non si impone che in virtù di se stessa.

Negare a una persona la piena libertà di coscienza e in particolare la libertà di cercare la verità, o tentare di imporle un particolare modo di comprendere la verità, va contro il suo diritto più intimo. Ciò provoca, altresì, un aggravamento delle animosità e delle tensioni, che rischiano di sfociare o in relazioni difficili e ostili all'interno della società o persino in un conflitto aperto. E' insomma a livello di coscienza che si pone e può essere più efficacemente affrontato il problema di assicurare una pace solida e duratura.

II - La verità assoluta si trova solo in Dio

La garanzia dell'esistenza della verità obiettiva risiede in Dio, Verità assoluta, e la ricerca della verità si identifica, sul piano obiettivo, con la ricerca di Dio. Basterebbe questo per dimostrare l'intimo rapporto esistente tra libertà di coscienza e libertà religiosa. D'altra parte, si spiega così perché la negazione sistematica di Dio e l'istituzione di un regime, del quale questa negazione sia un elemento costitutivo, sono diametralmente contrarie alla libertà di coscienza, come anche alla libertà di religione. Chi, invece, riconosce il rapporto tra la verità ultima e Dio stesso, riconoscerà anche ai non credenti il diritto, oltre che il dovere, della ricerca della verità, che potrà condurli alla scoperta del mistero divino e alla sua umile accettazione.

III - Formazione della coscienza

Ogni individuo ha il grave dovere di formare la propria coscienza alla luce della verità obiettiva, la cui conoscenza non è negata ad alcuno né può essere impedita da alcuno. Rivendicare per se stessi il diritto di agire secondo la propria coscienza, senza riconoscere, al tempo stesso, il dovere di cercare di conformarla alla verità e alla legge inscritta nei nostri cuori da Dio stesso, vuol dire in realtà far prevalere la propria limitata opinione. Ciò è ben lungi dal costituire un valido contributo alla causa della pace nel mondo. Al contrario, la verità va perseguita appassionatamente e vissuta al meglio delle proprie capacità. Questa sincera ricerca della verità porta non solo a rispettare la ricerca degli altri, ma anche al desiderio di ricercare insieme.

Nell'importante compito di formazione della coscienza, la famiglia riveste un ruolo primario. E' grave dovere dei genitori aiutare i propri figli, fin dalla più tenera età, a cercare la verità e a vivere in conformità ad essa, a cercare il bene e a promuoverlo.

Fondamentale, inoltre, per la formazione della coscienza è la scuola, in cui il bambino e il giovane entrano in contatto con un mondo più vasto e spesso diverso dall'ambiente familiare. L'educazione di fatto non è mai moralmente indifferente, anche quando tenta di proclamare la sua «neutralità» etica e religiosa. Il modo in cui i bambini e i giovani vengono formati ed educati riflette necessariamente taluni valori, che influiscono sul modo con cui essi sono portati a comprendere gli altri e la società intera. In accordo, quindi, con la natura e la dignità della persona umana e con la legge di Dio, i giovani, nel loro itinerario scolastico, devono essere aiutati a discernere e a ricercare la verità, ad accettare le esigenze e i limiti della vera libertà, a rispettare l'analogo diritto degli altri.

La formazione della coscienza resta compromessa, se manca una profonda educazione religiosa. Come può un giovane capire appieno le esigenze della dignità umana senza fare riferimento alla fonte di questa dignità, a Dio creatore? A questo riguardo, il ruolo della famiglia, della Chiesa cattolica, delle Comunità cristiane e delle altre istituzioni religiose resta primordiale, e lo Stato, conformemente alle norme e alle dichiarazioni internazionali, deve assicurare e facilitare i loro diritti in questo campo. A loro volta, la famiglia e le comunità religiose devono avvalorare e approfondire sempre di più il loro impegno per la persona umana e i suoi valori obiettivi.

Tra le molte altre istituzioni e organismi che svolgono un ruolo specifico nella formazione della coscienza, sono da ricordare anche i mezzi di comunicazione sociale. Nell'attuale mondo di rapida comunicazione i mass-media possono svolgere un ruolo estremamente importante, anzi essenziale, nel promuovere la ricerca della verità evitando di presentare soltanto gli interessi limitati di questa o quella persona, di questo o quel gruppo o ideologia. Tali mezzi costituiscono spesso l'unica fonte di informazione per un numero sempre maggiore di persone. Come, dunque, devono essere usati responsabilmente a servizio della verità!

IV - L'intolleranza: una seria minaccia per la pace

Una seria minaccia per la pace è costituita dall'intolleranza, che si manifesta nel rifiuto della libertà di coscienza degli altri. Dalle vicende della storia abbiamo appreso dolorosamente a quali eccessi può essa condurre.

L'intolleranza può insinuarsi in ogni aspetto della vita sociale, manifestandosi nell'emarginazione o oppressione delle persone e minoranze, che cercano di seguire la propria coscienza per quanto riguarda i loro legittimi modi di vivere. Nella vita pubblica l'intolleranza non lascia spazio alla pluralità delle scelte politiche o sociali, imponendo così su tutti una visione uniforme dell'organizzazione civile e culturale.

Per quanto riguarda l'intolleranza religiosa, non si può negare che, malgrado il costante insegnamento della Chiesa cattolica, secondo il quale nessuno deve essere costretto a credere (cfr. «Dignitatis Humanae», 12), nel corso dei secoli non poche difficoltà e persino conflitti sono sorti tra i cristiani e i membri di altre religioni (cfr. «Nostra Aetate», 3). Il Concilio Vaticano II lo ha riconosciuto formalmente, affermando che «nella vita del popolo di Dio, pellegrinante attraverso le vicissitudini della storia umana, di quando in quando si è avuto un modo di agire meno conforme allo spirito evangelico» («Dignitatis Humanae», 12).

Ancor oggi resta molto da fare per superare l'intolleranza religiosa, la quale è strettamente legata, in diverse parti del mondo, all'oppressione delle minoranze. Siamo, purtroppo, testimoni di tentativi per imporre ad altri una particolare idea religiosa sia direttamente, grazie a un proselitismo che fa ricorso a mezzi di vera e propria coercizione, sia indirettamente, mediante la negazione di certi diritti civili o politici. Assai delicate sono le situazioni in cui una norma specificamente religiosa diventa, o tende a diventare, legge dello Stato, senza che si tenga in debito conto la distinzione tra le competenze della religione e quelle della società politica. Identificare la legge religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e, persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani. A questo riguardo, vorrei ripetere ciò che affermai nel Messaggio per la Giornata della pace del 1988: «Anche nel caso in cui uno Stato attribuisca una speciale posizione giuridica a una determinata religione, è doveroso che sia legalmente riconosciuto ed effettivamente rispettato il diritto di libertà di coscienza di tutti i cittadini, come pure degli stranieri che vi risiedono, anche temporaneamente, per motivi di lavoro o altri» (8 dicembre 1987). Ciò vale anche per i diritti civili e politici delle minoranze e per quelle situazioni in cui un esasperato laicismo, in nome del rispetto della coscienza, impedisce di fatto ai credenti il diritto di esprimere pubblicamente la propria fede.

L'intolleranza può essere anche il frutto di un certo fondamentalismo, che costituisce una tentazione ricorrente. Esso può facilmente condurre a gravi abusi, quali la soppressione radicale di ogni pubblica manifestazione di differenza o, addirittura, il rifiuto della libertà di espressione in quanto tale. Anche il fondamentalismo può portare all'esclusione dell'altro dalla vita civile o, in campo religioso, a misure coercitive di «conversione». Per quanto si possa avere a cuore la verità della propria religione, ciò non dà a nessuna persona o gruppo il diritto di tentare di reprimere la libertà di coscienza di quanti hanno altre convinzioni religiose, o di indurli a falsare la loro coscienza offrendo o negando determinati privilegi e diritti sociali, se essi cambiano la propria religione. In altri casi, si arriva a impedire alle persone, persino con l'applicazione di severe misure penali, di scegliere liberamente una religione diversa da quella a cui al momento appartengono. Simili manifestazioni di intolleranza evidentemente non promuovono la pace nel mondo.

Per eliminare gli effetti dell'intolleranza, non basta «proteggere» le minoranze etniche o religiose, riducendole così alla categoria di minori civili o di individui sotto tutela dello Stato. Ciò potrebbe risolversi in una forma di discriminazione che ostacola, anzi impedisce lo sviluppo di una società armonica e pacifica. Piuttosto, va riconosciuto e garantito l'insopprimibile diritto di seguire la propria coscienza e di professare, e di praticare, da soli o comunitariamente, la propria fede, sempre che non siano violate le esigenze dell'ordine pubblico.

Paradossalmente coloro che in precedenza sono stati vittime di varie forme di intolleranza possono correre il rischio di creare, a loro volta, nuove situazioni di intolleranza. La fine di lunghi periodi di repressione in alcune parti del mondo, durante i quali non è stata rispettata la coscienza di ciascuno ed è stato soffocato quanto vi era di più prezioso per la persona, non deve diventare occasione per nuove forme di intolleranza, per quanto difficile possa essere la riconciliazione con l'antico oppressore.

La libertà di coscienza, rettamente concepita, per sua stessa natura è sempre ordinata alla verità. Pertanto essa conduce non all'intolleranza, ma alla tolleranza e alla riconciliazione. Questa tolleranza non è una virtù passiva, poiché ha le sue radici in un amore operoso e tende a trasformarsi e a divenire un positivo impegno per assicurare la libertà e la pace a tutti.

V - La libertà religiosa: una forza per la pace

L'importanza della libertà religiosa mi induce a ribadire che il diritto alla libertà religiosa non è semplicemente uno fra gli altri diritti umani; «anzi questo è il più fondamentale, perché la dignità di ogni persona ha la sua prima fonte nel suo rapporto essenziale con Dio creatore e padre, alla cui immagine e somiglianza è stata creata, perché dotata di intelligenza e di libertà» (10 marzo 1984). «La libertà religiosa, esigenza insopprimibile della dignità di ogni uomo, è una pietra angolare dell'edificio dei diritti umani» (8 dicembre 1987) e, perciò, è l'espressione più profonda della libertà di coscienza.

Non si può ignorare che il diritto alla libertà religiosa tocca l'identità stessa della persona. Uno degli aspetti più significativi, che caratterizzano il mondo di oggi, è il ruolo della religione nel risveglio dei popoli e nella ricerca della libertà. In molti casi è stata la fede religiosa a mantenere intatta e persino a rafforzare l'identità di interi popoli. Nelle Nazioni in cui la religione è stata ostacolata o, addirittura, perseguitata nel tentativo di relegarla tra i fenomeni superati del passato, essa si è di nuovo rivelata come potente forza liberatrice.

La fede religiosa è così importante per i popoli e i singoli individui, che in molti casi si è pronti a qualsiasi sacrificio per salvaguardarla. In effetti, ogni tentativo di reprimere o sopprimere ciò che una persona ha di più caro rischia di sfociare in aperta o latente ribellione.

VI - La necessità di un giusto ordine legale

Nonostante le varie dichiarazioni in campo nazionale e internazionale, le quali proclamano il diritto alla libertà di coscienza e di religione, si hanno tuttora troppi tentativi di repressione religiosa. Senza una concomitante garanzia giuridica mediante appropriati strumenti, tali dichiarazioni sono destinate troppo spesso a rimanere lettera morta. Sono da apprezzare, pertanto, i rinnovati sforzi che si stanno facendo per dare maggior vigore al regime legale esistente mediante la creazione di nuovi ed efficaci strumenti, idonei a consolidare la libertà religiosa. Questa piena protezione legale deve effettivamente escludere ogni coercizione religiosa, come un serio ostacolo alla pace. Al contrario, «il contenuto di una tale libertà è che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire secondo la sua coscienza privatamente e pubblicamente, sia in forma individuale che associata» («Dignitatis Humanae», 2).

Il presente momento storico rende urgente il rafforzamento degli strumenti giuridici atti a promuovere la libertà di coscienza anche in campo politico e sociale. A questo riguardo, il graduale e continuo sviluppo di un regime legale internazionalmente riconosciuto potrà costituire una delle basi più sicure per la pace e per l'ordinato progresso della famiglia umana. Nello stesso tempo, è essenziale che siano intrapresi sforzi paralleli a livello nazionale e anche regionale, per assicurare che tutte le persone, ovunque dimorino, siano protette da norme legali riconosciute sul piano internazionale.

Lo Stato ha l'obbligo non solo di riconoscere la fondamentale libertà di coscienza, ma di promuoverla, sempre però alla luce della legge morale naturale e delle esigenze del bene comune, oltre che nel rispetto della dignità di ogni uomo. In proposito, giova ricordare che la libertà di coscienza non dà diritto a una indiscriminata pratica dell'obiezione di coscienza. Quando una pretesa libertà si trasforma in licenza o in pretesto per limitare i diritti altrui, lo Stato ha l'obbligo di proteggere, anche legalmente, i diritti inalienabili dei suoi cittadini contro tali abusi.

Vorrei rivolgere uno speciale e pressante appello a quanti hanno pubbliche responsabilità - siano essi capi di Stato o di governo, legislatori, magistrati e altri - perché assicurino con tutti i mezzi necessari l'autentica libertà di coscienza di tutti coloro che risiedono nell'ambito della loro giurisdizione, con particolare attenzione ai diritti delle minoranze. Ciò, oltre che essere una questione di giustizia, serve a promuovere lo sviluppo di una società pacifica e armonica. Infine, sembra quasi superfluo riaffermare che gli Stati hanno il rigoroso obbligo morale e legale di osservare gli accordi internazionali, da loro sottoscritti.

VII - Una società e un mondo pluralistico

L'esistenza di norme internazionali riconosciute non esclude che possano esserci certi regimi o sistemi di governo rispondenti ad una specifica realtà socio-culturale. Questi regimi, tuttavia, devono assicurare piena libertà di coscienza ad ogni cittadino e non possono in nessun modo costituire un pretesto per negare o restringere i diritti universalmente riconosciuti.

Ciò è tanto più vero se si considera che nel mondo di oggi raramente l'intera popolazione di un Paese appartiene ad una stessa convinzione religiosa o a una stessa etnia o cultura. Le migrazioni di massa e i movimenti di popolazione stanno portando a una società multi-culturale e multi-religiosa in varie parti del mondo. In tale contesto il rispetto della coscienza di tutti assume una nuova urgenza e presenta nuove sfide alla società nei suoi settori e strutture, nonché ai legislatori e ai governanti.

Come si devono rispettare in un Paese le differenti tradizioni, costumi e modi di vita, doveri religiosi, mantenendo l'integrità della propria cultura? Come deve una cultura socialmente dominante accettare e integrare i nuovi elementi senza perdere la propria identità e senza creare frizioni? La risposta a queste difficili domande si può trovare in un'attenta educazione al rispetto della coscienza dell'altro, con mezzi quali la conoscenza di altre culture e religioni e l'equilibrata comprensione delle diversità esistenti. Quale miglior mezzo di unità nella diversità, se non l'impegno di tutti nella comune ricerca della pace e nella comune affermazione della libertà, che illumina e valorizza la coscienza di ognuno? E' anche auspicabile, per un'ordinata convivenza civile, che le varie culture presenti si rispettino e si arricchiscano mutuamente. Un vero impegno di inculturazione giova anche alla reciproca comprensione tra le religioni.

Nell'ambito di questa comprensione tra le religioni, molto è stato compiuto in anni recenti per promuovere un'attiva collaborazione nei compiti che l'umanità deve affrontare insieme sulla base dei tanti valori che le grandi religioni hanno in comune. Desidero incoraggiare questa collaborazione ovunque sia possibile, nonché i dialoghi ufficiali che sono in corso tra i rappresentanti dei maggiori gruppi religiosi. Al riguardo, la Santa Sede ha un organismo - il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso - che ha la specifica finalità di promuovere il dialogo e la collaborazione con le altre religioni, sempre però nell'assoluta fedeltà all'identità cattolica e nel pieno rispetto di quella altrui.

Sia la collaborazione che il dialogo interreligioso, quando avvengono con fiducia, deferenza e sincerità, rappresentano un contributo alla pace. «L'uomo ha bisogno di sviluppare il suo spirito e la sua coscienza. E' quello che spesso manca all'uomo di oggi. La dimenticanza dei valori e la crisi d'identità, che il nostro mondo attraversa, ci obbligano a un superamento e a un rinnovato sforzo di ricerca e di domanda. La luce interiore, che nascerà così nella nostra coscienza, permetterà di dare senso allo sviluppo, di orientarlo verso il bene dell'uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini, secondo il piano di Dio» (19 agosto 1985). Questa comune ricerca, alla luce della legge della coscienza dei precetti della propria religione, confrontandosi anche con le cause delle presenti ingiustizie sociali e delle guerre, getterà una solida base per la collaborazione nella ricerca delle soluzioni necessarie.

La Chiesa cattolica si è adoperata volentieri per incoraggiare ogni forma di leale collaborazione, in vista della promozione della pace. Essa continuerà soprattutto a dare il suo specifico contributo a tale collaborazione, educando le coscienze dei propri membri all'apertura verso gli altri, al rispetto per gli altri, alla tolleranza, che va di pari passo con la ricerca della verità, e alla solidarietà.

VIII - La coscienza e il cristiano

Essendo tenuti a seguire la propria coscienza nella ricerca della verità, i discepoli di Gesù Cristo sanno che non ci si deve affidare soltanto alla propria capacità di discernimento morale. La rivelazione illumina la loro coscienza e fa loro conoscere il grande dono di Dio all'uomo: la libertà (cfr. Sir 17,6). Dio non ha soltanto inscritto la legge naturale nel cuore di ciascuno, in quel «nucleo e sacrario più segreto dell'uomo, in cui egli si trova solo con Dio» («Gaudium et Spes», 16), ma ha rivelato la sua propria legge nella Scrittura. In questa si trova l'invito o, meglio, l'imperativo di amare Dio e di osservare tale sua legge.

Egli ci ha fatto conoscere la sua volontà. Egli ci ha rivelato i suoi comandamenti, ponendoci davanti «la vita e il bene, la morte e il male», e ci chiama a «scegliere la vita... amando il Signore nostro Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoci uniti a lui; poiché è lui la nostra vita e la nostra longevità...» (cfr. Dt 30,15-20). Egli nella pienezza del suo amore rispetta la libera scelta della persona circa i valori supremi di cui è alla ricerca, e in tal modo rivela il suo pieno rispetto per il dono prezioso della libertà della coscienza. Ne sono testimoni le stesse sue leggi, che sono compiuta espressione della sua volontà e della sua assoluta inconciliabilità nei confronti del male morale, e con le quali vuole appunto orientare la ricerca dell'ultimo fine, perché tendono a giovare all'esercizio della libertà, e non già a impedirlo.

Ma non è bastato a Dio manifestare il suo grande amore per il creato e per l'uomo. Egli «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna... Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,16.21). Il Figlio non ha esitato a proclamare di essere la Verità, e ad assicurarci che questa Verità ci avrebbe fatti liberi.

Nella ricerca della verità il cristiano si rivolge alla rivelazione divina, che in Cristo è presente in tutta la sua pienezza. Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare questa verità, e la Chiesa ha il dovere di esserle fedele. Il mio più grave impegno, come successore di Pietro, è precisamente quello di assicurare questa costante fedeltà, confermando nella fede i miei fratelli e sorelle (cfr. Lc 22,32).

Il cristiano più di ogni altro deve sentirsi obbligato a conformare la propria coscienza alla verità. Di fronte allo splendore del dono gratuito della rivelazione di Dio in Cristo, quanto umile e attento, da parte sua, deve essere l'ascolto della voce della coscienza! Quanto deve egli diffidare della sua limitata luce, quanto dev'essere pronto ad apprendere, quanto lento a condannare! Una delle tentazioni ricorrenti in ogni tempo, anche tra i cristiani, è quella di erigersi a norma della verità. In un'epoca permeata di individualismo questa tentazione può trovare svariate espressioni. Il contrassegno di chi è nella verità, tuttavia, è di amare umilmente. Così insegna la parola divina: La verità si fa nella carità (cfr. Ef 4,15).

Pertanto, per la stessa verità che professiamo siamo chiamati a promuovere l'unità e non la divisione, la riconciliazione e non l'odio o l'intolleranza. La gratuità del nostro accesso alla verità ci conferisce la preziosa responsabilità di proclamare soltanto quella verità che porta alla libertà e alla pace per tutti: la Verità incarnata in Gesù Cristo.

Al termine di questo Messaggio, invito tutti a ben riflettere sulla necessità di rispettare la coscienza di ciascuno nel proprio ambiente e alla luce delle proprie specifiche responsabilità. In ogni campo della vita sociale, culturale e politica il rispetto della libertà di coscienza, ordinata alla verità, trova varie, importanti e immediate applicazioni. Cercando insieme la verità, nel rispetto della coscienza degli altri, potremo progredire sulle vie della libertà che sboccano nella pace, secondo il disegno di Dio.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1990.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

I CREDENTI UNITI NELLA COSTRUZIONE DELLA PACE

1 gennaio 1992

 

1. Il primo gennaio prossimo si celebrerà, come di consueto, l'annuale Giornata Mondiale della Pace. Si compiranno venticinque anni dalla sua istituzione, ed è del tutto naturale che in questa ricorrenza il mio pensiero si volga con immutata ammirazione e gratitudine all'amabile figura del venerato predecessore Paolo VI, che con una felice intuizione pastorale e pedagogica volle invitare tutti «i veri amici della pace» ad unirsi per riflettere su questo «bene primario» dell'umanità. Ma è altrettanto naturale, a distanza di un quarto di secolo, riguardare il passato nel suo insieme per verificare se davvero la causa della pace nel mondo abbia progredito o meno, e se i dolorosi avvenimenti degli ultimi mesi - alcuni dei quali tuttora in corso, purtroppo - ne abbiano segnato un sostanziale arretramento, mostrando quanto sia reale il pericolo che la ragione umana si lasci dominare da distruttivi egoismi o da odi inveterati. Al tempo stesso, il progressivo affermarsi di nuove democrazie ha ridato speranza ad interi popoli, risvegliando la fiducia in un più fecondo dialogo internazionale ed aprendo la prospettiva di un'auspicata pacificazione. In tale contesto di luci e di ombre questo annuale Messaggio non vuol essere né un bilancio né un processo, ma solo un nuovo, fraterno invito a riflettere sulle vicende umane del momento, per elevarle ad una visione etico-religiosa, alla quale i credenti per primi devono ispirarsi. Proprio in ragione della loro fede, essi sono chiamati - individualmente e tutti insieme - ad essere messaggeri e costruttori di pace: come gli altri e più degli altri, essi sono chiamati a ricercare con umiltà e perseveranza le adeguate risposte alle attese di sicurezza e di libertà, di solidarietà e di condivisione, che in questo mondo, fattosi per così dire più piccolo, accomunano gli uomini. Certo, l'impegno in favore della pace riguarda ogni persona di buona volontà, ed è, questo, il motivo per cui i diversi Messaggi sono stati indirizzati a tutti i membri della famiglia umana. Tuttavia, il dovere si impone con urgenza a quanti professano la fede in Dio ed ancor più ai cristiani, che hanno come loro guida e maestro il «Principe della pace» (Is 9,5).

Natura morale e religiosa della pace

2. L'aspirazione alla pace è insita nella natura umana e si ritrova nelle diverse religioni. Essa si esprime nel desiderio di ordine e tranquillità, nell'atteggiamento di disponibilità verso l'altro, nella collaborazione e compartecipazione basate sul reciproco rispetto. Tali valori, suggeriti dalla legge naturale e riproposti dalle religioni, esigono per svilupparsi il solidale apporto di tutti: degli uomini politici, dei dirigenti di Organismi internazionali, degli imprenditori e dei lavoratori, dei gruppi associati e dei privati cittadini. Si tratta di un preciso dovere per tutti, che ancor più li obbliga se sono credenti: testimoniare la pace, operare e pregare per essa è proprio di un coerente comportamento religioso. Ciò spiega perché anche nei libri sacri delle diverse religioni il riferimento alla pace occupa un posto rilevante nel quadro della vita dell'uomo e degli stessi suoi rapporti con Dio. Così, ad esempio, se per noi cristiani Gesù Cristo, Figlio di Colui che ha «progetti di pace e non di sventura» (Ger 29,11), è «la nostra pace» (Ef 2,14), per i fratelli Ebrei la parola «shalom» esprime augurio e benedizione in uno stato di armonia dell'uomo con se stesso, con la natura e con Dio, mentre per i fedeli Mussulmani il termine «salam» è tanto importante da costituire uno degli splendidi nomi divini. Si può dire che una vita religiosa, se è autenticamente vissuta, non può non produrre frutti di pace e di fraternità, perché è nella natura della religione promuovere un vincolo sempre più stretto con la divinità e favorire un rapporto sempre più solidale tra gli uomini.

Ravvivare lo «spirito di Assisi»

3. Convinto di questa convergenza intorno a tale valore, cinque anni fa mi rivolsi ai responsabili delle Chiese cristiane e delle grandi religioni del mondo per invitarli ad uno speciale incontro di preghiera per la pace, che fu celebrato ad Assisi. Il ricordo di quell'evento significativo mi ha suggerito di riprendere e riproporre il tema della solidarietà dei credenti per la stessa causa. Ad Assisi si trovarono insieme, provenendo dai vari Continenti, i capi spirituali delle principali religioni: fu, quella, una concreta testimonianza circa la dimensione universale della pace, a conferma che essa non è soltanto il risultato di abili negoziati politico-diplomatici o di interessati compromessi economici, ma dipende fondamentalmente da Colui che conosce il cuore degli uomini ed orienta e dirige i loro passi. Come persone preoccupate per le sorti dell'umanità, insieme digiunammo, intendendo così esprimere la nostra comprensione e solidarietà ai milioni e milioni di persone, che son vittime della fame in tutto il mondo. Come credenti che hanno a cuore le vicende della storia umana, insieme pellegrinammo, meditando in silenzio sulla nostra comune origine e sul nostro comune destino, sui nostri limiti e responsabilità, sulle invocazioni ed attese di tanti fratelli e sorelle che aspettano il nostro aiuto nei loro bisogni. Ciò che facemmo allora pregando e dimostrando il nostro forte impegno per la pace sulla terra, dobbiamo continuare a farlo tuttora. Dobbiamo mantenere vivo il genuino «spirito di Assisi» non solo per un dovere di coerenza e di fedeltà, ma anche per offrire un motivo di speranza alle future generazioni. Nella Città del Poverello abbiamo iniziato un cammino comune che deve proseguire, senza escludere ovviamente la ricerca di altre vie e di nuovi mezzi per una solida pace, edificata su fondamenti spirituali.

La forza della preghiera

4. Prima però di ricorrere alle risorse umane, voglio riaffermare la necessità di una preghiera intensa ed umile, fiduciosa e perseverante, se si vuole che il mondo diventi finalmente una dimora di pace: la preghiera è per eccellenza la forza per implorarla ed ottenerla. Essa infonde coraggio e dà sostegno a chiunque ama e vuol promuovere tale bene secondo le proprie possibilità e nei vari ambienti in cui si trova a vivere. Essa, mentre apre all'incontro con l'Altissimo, dispone anche all'incontro col nostro prossimo, aiutando a stabilire con tutti, senza alcuna discriminazione, rapporti di rispetto, di comprensione, di stima e di amore. Il sentimento religioso e lo spirito di orazione non solo ci fanno crescere nella nostra interiorità, ma ci illuminano anche circa il vero significato della nostra presenza nel mondo. Si può dire anche che la dimensione religiosa ci spinge a dare con maggiore impegno il nostro contributo alla costruzione di una società ordinata, in cui regna la pace. La preghiera è il vincolo che più efficacemente ci unisce: grazie ad essa i credenti si incontrano laddove diseguaglianze, incomprensioni, rancori e ostilità sono superati, cioè davanti a Dio, Signore e Padre di tutti. Essa, in quanto espressione autentica del retto rapporto con Dio e con gli altri, è già un apporto positivo alla pace.

Dialogo ecumenico e rapporti inter-religiosi

5. La preghiera non può rimanere sola ed esige di essere accompagnata da altri gesti concreti. Ogni religione ha una sua visione circa gli atti da compiere e le vie da percorrere per raggiungere la pace. La Chiesa cattolica, mentre afferma chiaramente la sua identità, la sua dottrina e la sua missione salvifica per tutti gli uomini, «non rigetta nulla di quanto è vero e santo» nelle altre religioni; «essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Dichiar. Nostra Aetate, 2). Senza ignorare né sminuire le differenze, la Chiesa è convinta che, in ordine alla promozione della pace, ci siano alcuni elementi o aspetti che possono essere utilmente sviluppati e realizzati insieme con i seguaci di altre fedi e confessioni. A questo tendono i contatti inter-religiosi e, in modo del tutto speciale, il dialogo ecumenico. Grazie a tali forme di confronto e di scambio le religioni hanno potuto prender più chiara coscienza delle loro non certo lievi responsabilità rispetto al vero bene dell'intera umanità. Oggi esse appaiono più fermamente determinate a non farsi strumentalizzare da interessi particolaristici o da fini politici, e tendono ad assumere un atteggiamento più consapevole ed incisivo nell'animazione delle realtà sociali e culturali nella comunità dei popoli. Ciò consente loro di essere una forza attiva nel processo di sviluppo e di offrire così una sicura speranza all'umanità. In non poche circostanze è apparso evidente che la loro azione sarebbe risultata più efficace, se fosse stata compiuta congiuntamente ed in maniera coordinata. Un tale procedere dei credenti può esser determinante per la pacificazione dei popoli ed il superamento delle divisioni tuttora esistenti tra «zone» e «mondi».

La strada da percorrere

6. Per raggiungere questa meta di attiva cooperazione per la causa della pace rimane ancora molta strada: è la strada della mutua conoscenza, oggi favorita dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale e facilitata dall'avvìo di un leale ed allargato dialogo; è la strada del perdono generoso, della riconciliazione fraterna, della collaborazione anche in settori ristretti o secondari, ma sempre afferenti alla medesima causa; è la strada, infine, della convivenza quotidiana nella condivisione di sforzi e sacrifici per raggiungere il medesimo scopo. Su questa strada tocca forse ai singoli credenti, cioè alle persone che professano una religione, prima ancora che alle loro guide, affrontare la fatica e, al tempo stesso, avere la soddisfazione di costruire insieme la pace. I contatti inter-religiosi, accanto al dialogo ecumenico, sembrano ormai strade obbligate, perché tante dolorose lacerazioni, avvenute lungo il corso dei secoli, più non accadano e quelle residue siano presto risanate. Chi crede deve essere artefice di pace, innanzitutto, con l'esempio personale del proprio retto atteggiamento interiore, che si proietta anche all'esterno in coerenti azioni e comportamenti: la serenità, l'equilibrio, il superamento degli istinti, il compimento di gesti di comprensione, di perdono, di generosa donazione esercitano un influsso pacificatore tra le persone del proprio ambiente e della propria comunità religiosa e civile. Proprio per questo, nella prossima Giornata, io invito tutti i credenti a compiere un serio esame di coscienza, per esser meglio disposti ad ascoltare la voce del «Dio della pace» (cfr. 1Cor 14,33) e a dedicarsi con rinnovata fiducia alla grande impresa. Sono infatti convinto che essi - ed auspico anche gli uomini di buona volontà - raccoglieranno questo rinnovato mio appello, la cui insistenza è commisurata alla gravità del momento.

Costruire insieme la pace nella giustizia

7. La preghiera e l'azione concorde dei credenti in favore della pace devono confrontarsi con i problemi e le legittime aspirazioni delle persone e dei popoli. La pace è un bene fondamentale che comporta il rispetto e la promozione dei valori essenziali dell'uomo: il diritto alla vita in tutte le fasi del suo sviluppo; il diritto alla considerazione indipendentemente dalla razza, dal sesso e dalle convinzioni religiose; il diritto ai beni materiali necessari alla vita; il diritto al lavoro e all'equa ripartizione dei suoi frutti per una convivenza ordinata e solidale. Come uomini, come credenti e ancor più come cristiani dobbiamo sentirci impegnati a vivere questi valori di giustizia, che trovano il loro coronamento nel precetto supremo della carità: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,39). Ancora una volta ricordo che il rigoroso rispetto della libertà religiosa e del corrispondente diritto è principio e fondamento della pacifica convivenza. Auspico che esso sia un impegno non solo affermato, ma realmente attuato dai Capi politici e religiosi, e dagli stessi credenti: è in base al suo riconoscimento che assume rilievo la dimensione trascendente della persona umana. Sarebbe aberrante se le religioni o gruppi di loro seguaci, nell'interpretazione e pratica delle rispettive fedi, si lasciassero andare a forme di fondamentalismo e di fanatismo, giustificando con motivazioni religiose le lotte e i conflitti con gli altri. Se c'è una lotta degna dell'uomo, è quella contro le proprie passioni disordinate, contro ogni specie di egoismo, contro i tentativi di prevaricazione sull'altro, contro ogni tipo di odio e di violenza: in una parola, contro tutto ciò che è l'esatto contrario della pace e della riconciliazione.

Necessario sostegno da parte dei responsabili delle Nazioni

8. Esorto, infine, i responsabili delle Nazioni e della Comunità internazionale a dimostrare sempre il più grande rispetto per la coscienza religiosa di ogni uomo e per il qualificato contributo della religione al progresso della civiltà e allo sviluppo dei popoli. Essi non dovranno cedere alla tentazione di servirsi delle religioni, strumentalizzandole quale mezzo del loro potere, specialmente quando si tratta di opporsi militarmente all'avversario. Le stesse Autorità civili e politiche dovranno assicurare alle religioni rispetto e garanzie giuridiche - a livello nazionale e internazionale - evitando che il contributo di esse alla costruzione della pace sia emarginato, o relegato nella sfera privata, o addirittura ignorato. Esorto nuovamente le pubbliche Autorità ad adoperarsi con vigile senso di responsabilità per prevenire guerre e conflitti, per far trionfare il diritto e la giustizia, e favorire al tempo stesso uno sviluppo che ridondi a beneficio di tutti e, in primo luogo, di coloro che sono stretti dalle catene della miseria, della fame e della sofferenza. Meritano apprezzamento i progressi già fatti nella riduzione degli armamenti: le risorse economiche e finanziarie, finora impiegate per la produzione e il commercio di tanti strumenti di morte, potranno essere utilizzate in favore dell'uomo e non più contro l'uomo! Sono certo che a questo positivo giudizio si associano milioni di uomini e donne di tutto il mondo, che non hanno modo di far udire la loro voce.

Una speciale parola per i cristiani

9. A questo punto non posso omettere un invito particolare destinato a tutti i cristiani. La comune fede in Cristo Signore ci impegna a rendere una concorde testimonianza al «Vangelo della pace» (Ef 6,15). Tocca a noi, in primo luogo, di aprirci agli altri credenti per intraprendere unitamente a loro, con coraggio e perseveranza, l'opera grandiosa di costruire quella pace che il mondo desidera, ma che in definitiva non sa darsi. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace», ci ha detto Gesù (Gv 14,27). Tale promessa divina ci infonde la speranza, anzi la certezza della speranza divina che la pace è possibile, perché nulla è impossibile a Dio (cfr. Lc 1,37). La vera pace, infatti, è sempre un dono di Dio, e per noi cristiani è dono prezioso del Signore Risorto (cfr. Gv 20,19.26). Alle grandi sfide del mondo contemporaneo, carissimi Fratelli e Sorelle della Chiesa cattolica, occorre rispondere unendo le forze con quelle di quanti con noi condividono alcuni valori di fondo, a cominciare da quelli di ordine religioso e morale.

E tra queste sfide c'è da affrontare ancora quella della pace. Costruirla insieme con gli altri credenti è già vivere nello spirito della beatitudine evangelica: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1991.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

"SE CERCHI LA PACE, VA' INCONTRO AI POVERI"

1 gennaio 1993

 

«Se cerchi la pace...»

1. Quale persona di buona volontà non aspira alla pace? Essa è oggi universalmente riconosciuta come uno dei valori più alti da ricercare e difendere. Eppure, mentre si dilegua lo spettro di una guerra micidiale tra blocchi ideologici contrapposti, gravi conflitti locali continuano ad infiammare varie regioni della terra. In particolare, è sotto gli occhi di tutti la situazione drammatica in cui versa la Bosnia Erzegovina, dove gli eventi bellici continuano a mietere ogni giorno nuove vittime, specialmente tra l'inerme popolazione civile, e a causare danni ingenti alle cose e al territorio. Nulla sembra potersi opporre alla violenza dissennata delle armi: né gli sforzi congiunti a favore di una tregua effettiva, né l'azione umanitaria delle Organizzazioni Internazionali, né l'implorazione di pace che si eleva coralmente dalle terre insanguinate dai combattimenti. La logica aberrante della guerra prevale, purtroppo, sui ripetuti ed autorevoli inviti alla pace.

S'afferma, inoltre, e diventa sempre più grave nel mondo un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale. Questa realtà emerge in tutta la sua gravità in numerosi Paesi del mondo: nell'Europa come in Africa, Asia ed America. In varie regioni non poche sono le sfide sociali ed economiche con cui devono misurarsi credenti e uomini di buona volontà. Povertà e miseria, differenze sociali ed ingiustizie talora legalizzate, conflitti fratricidi e regimi oppressivi interpellano la coscienza di intere popolazioni in ogni parte del mondo.

La recente Conferenza dell'Episcopato latinoamericano, svoltasi a Santo Domingo nello scorso mese di ottobre, ha guardato con attenzione alla situazione esistente in America Latina e, riproponendo con grande urgenza ai cristiani il compito della nuova evangelizzazione, con toni accorati ha invitato fedeli e quanti amano la giustizia e il bene a servire la causa dell'uomo senza trascurare alcuna delle sue più intime esigenze. I Vescovi hanno ricordato la grande missione che deve accomunare gli sforzi di tutti: difendere la dignità della persona, impegnarsi per un'equa distribuzione dei beni, promuovere in modo armonico e solidale una società dove ognuno si senta accolto ed amato. Sono questi, come ben si vede, i presupposti imprescindibili per costruire la vera pace. Dire «pace», infatti, è dire molto di più della semplice assenza di guerre; è postulare una condizione di autentico rispetto della dignità e dei diritti di ogni essere umano così da consentirgli di realizzarsi in pienezza. Lo sfruttamento dei deboli, le preoccupanti sacche di miseria, le sperequazioni sociali costituiscono altrettanti ostacoli e remore alla realizzazione delle stabili condizioni di un'autentica pace. Povertà e pace: all'inizio del nuovo anno, vorrei invitare tutti ad una comune riflessione sui molteplici collegamenti esistenti tra queste due realtà.

In particolare, vorrei richiamare l'attenzione sulla minaccia alla pace derivante dalla povertà, soprattutto quando questa diventa miseria. Sono milioni i bambini, le donne e gli uomini che soffrono quotidianamente per la fame, per l'insicurezza, per l'emarginazione. Tali situazioni costituiscono un grave affronto alla dignità umana e contribuiscono all'instabilità sociale.

La scelta disumana della guerra

2. Al presente, esiste un'altra situazione, che è fonte di povertà e di miseria: quella derivante dalla guerra tra Nazioni e da conflitti all'interno del medesimo Paese. Di fronte ai tragici fatti che hanno insanguinato, e tuttora insanguinano, soprattutto per motivi etnici, varie regioni del mondo, è doveroso ricordare quanto già dissi nel messaggio per la Giornata della Pace del 1981, che aveva come tema: «Per servire la pace, rispetta la libertà». Sottolineavo allora che il presupposto indispensabile per l'edificazione di una pace vera è il rispetto per le libertà ed i diritti degli altri individui e collettività. La pace si ottiene promovendo popoli liberi in un mondo di libertà. Conserva, pertanto, tutta la sua attualità l'appello che allora lanciavo: «Il rispetto della libertà dei popoli e delle nazioni è una parte integrante della pace. Le guerre non hanno cessato di scoppiare e la distruzione ha colpito popoli e culture intere, perché non era stata rispettata la sovranità di un popolo o di una nazione. Tutti i Continenti sono stati testimoni ed insieme vittime di guerre e di lotte fratricide, causate dal tentativo di una nazione di limitare l'autonomia di un'altra» (n. 8).

Ed aggiungevo ancora: «Senza la volontà di rispettare la libertà di ogni popolo, di ogni nazione o cultura, e senza un consenso globale a questo riguardo, sarà difficile creare le condizioni della pace... Ciò suppone, da parte di ciascuna nazione e dei suoi governanti, un impegno cosciente e pubblico a rinunziare alle rivendicazioni ed ai disegni che siano pregiudizievoli per altre nazioni; in altre parole, ciò comporta il rifiuto di sottoscrivere qualunque dottrina di predominio nazionale o culturale» (ibid., n. 9). Sono facilmente immaginabili le conseguenze che derivano anche per i rapporti economici tra gli Stati da un simile impegno. Rifiutare ogni tentazione di predominio economico sulle altre nazioni significa rinunciare ad una politica ispirata al criterio prevalente del tornaconto, per impostarne una guidata invece da quello della solidarietà verso tutti e specialmente verso i più poveri.

Povertà come fonte di conflitto

3. Il numero delle persone che oggi vivono in condizioni di povertà estrema è vastissimo. Penso, tra l'altro, alle situazioni drammatiche esistenti in alcuni Paesi africani, asiatici e latino-americani. Sono vasti gruppi, spesso intere fasce di popolazione che, nei loro stessi Paesi, si trovano ai margini del vivere civile: fra loro c'è un numero crescente di bambini che per sopravvivere non possono far conto su altri che su se stessi. Una simile situazione non costituisce soltanto un affronto alla dignità umana, ma rappresenta anche una indubbia minaccia per la pace. Uno Stato, qualunque sia la sua organizzazione politica e il suo sistema economico, resta in se stesso fragile ed instabile, se non dimostra continua attenzione per i suoi membri più deboli e non fa tutto il possibile per assicurare il soddisfacimento almeno delle loro esigenze primarie. Il diritto allo sviluppo dei Paesi più poveri pone ai Paesi sviluppati un preciso dovere di intervento in loro soccorso.

Il Concilio Vaticano II così, al riguardo, si esprime: «A tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alle proprie famiglie... Gli uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo» (Cost. past. Gaudium et Spes, n. 69). E' chiaro il monito della Chiesa, eco fedele della voce di Cristo: i beni della terra sono destinati all'intera famiglia umana e non possono essere riservati ad esclusivo beneficio di pochi (cfr. Enc. Centesimus Annus, nn. 31 e 37). Nell'interesse della persona, e quindi della pace, è urgente pertanto apportare ai meccanismi economici quei necessari correttivi che consentano loro di garantire una distribuzione dei beni più giusta e più equa. Per far questo, non basta il solo funzionamento del mercato; occorre che la società si assuma le sue responsabilità (cfr. Centesimus Annus, n. 48), moltiplicando gli sforzi, spesso già considerevoli, per eliminare le cause della povertà con le loro tragiche conseguenze.

Nessun Paese può riuscire, da solo, in una simile impresa. Proprio per questo è necessario lavorare insieme, con la solidarietà richiesta da un mondo diventato sempre più interdipendente. Consentendo che perdurino situazioni di estrema povertà si pongono le premesse di convivenze sociali sempre più esposte alla minaccia di violenze e conflitti. Ogni individuo ed ogni gruppo sociale ha il diritto d'essere posto in condizione di sopperire ai bisogni personali e familiari e di partecipare alla vita e al progresso della propria comunità d'appartenenza. Quando tale diritto non è riconosciuto, accade facilmente che gli interessati, sentendosi vittime di una struttura che non li accoglie, reagiscano duramente. Ciò vale in particolare per i giovani che, privi di una adeguata istruzione e dell'accesso al lavoro, sono maggiormente esposti al rischio dell'emarginazione e dello sfruttamento.

E' ben noto a tutti il problema della disoccupazione, specialmente dei giovani, nel mondo intero, con il conseguente impoverimento di un numero sempre più grande di singoli individui e di intere famiglie. La disoccupazione, peraltro, è spesso il tragico risultato della distruzione delle infrastrutture economiche in un Paese travagliato dalla guerra o da conflitti interni. Vorrei qui evocare brevemente alcuni problemi particolarmente inquietanti, che affliggono i poveri e, di conseguenza, minacciano la pace. Innanzitutto, il problema del debito estero, che per alcuni Paesi, e in essi per le fasce sociali meno abbienti, continua ad essere un fardello insopportabile, malgrado gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale, dai governi e dalle istituzioni finanziarie per alleggerirlo. Non sono forse i settori più poveri di detti Paesi a dover sostenere non di rado l'onere maggiore del rimborso? Una tale situazione di ingiustizia può aprire la strada a risentimento crescente, a sensi di frustrazione e persino di disperazione. In molti casi gli stessi governi condividono il diffuso disagio del loro popolo e ciò si ripercuote sui rapporti con gli altri Stati.

Forse è giunto il momento di riesaminare nuovamente, dandogli la dovuta priorità, il problema del debito estero. Le condizioni di rimborso totale o parziale vanno riviste, cercando soluzioni definitive in grado di assorbire pienamente le pesanti conseguenze sociali dei programmi di aggiustamento. Occorrerà, inoltre, agire sulle cause di indebitamento, legando la concessione degli aiuti all'assunzione da parte dei Governi del concreto impegno di ridurre spese eccessive o inutili - il pensiero va in particolare alle spese per gli armamenti - e di garantire che le sovvenzioni giungano effettivamente alle popolazioni bisognose. Un secondo problema scottante è quello della droga: il suo rapporto con la violenza ed il crimine è tristemente e tragicamente noto a tutti. Come noto è pure che, in alcune regioni del mondo, sotto la pressione dei trafficanti di droghe, sono proprio le popolazioni più povere a coltivare piante per la produzione di stupefacenti. I lauti guadagni promessi - che per altro rappresentano solo una minima parte dei profitti derivanti da tali colture - costituiscono una tentazione a cui difficilmente riescono a resistere quanti dalle coltivazioni tradizionali traggono un reddito decisamente insufficiente.

La prima cosa da fare per aiutare i coltivatori a superare tale situazione è, perciò, di offrire loro mezzi adeguati per uscire dalla loro povertà. Un ulteriore problema nasce dalle situazioni di grave difficoltà economica esistenti in alcuni Paesi. Esse favoriscono massicce spinte migratorie verso Paesi più fortunati, nei quali, per contrapposto, insorgono poi tensioni che sconvolgono il tessuto sociale. Per fronteggiare simili reazioni di violenza xenofoba non giova tanto ricorrere a provvisorie misure di emergenza, quanto piuttosto incidere sulle cause, promuovendo, mediante nuove forme di solidarietà tra le Nazioni, il progresso e lo sviluppo nei Paesi d'origine dei flussi migratori. Minaccia subdola ma reale per la pace è quindi la miseria: essa, corrodendo la dignità dell'uomo, costituisce un serio attentato al valore della vita e colpisce al cuore lo sviluppo pacifico della società.

Povertà come risultato del conflitto

4. Negli anni recenti abbiamo assistito in quasi tutti i Continenti a guerre locali e a conflitti interni di feroce intensità. La violenza etnica, tribale e razziale ha distrutto vite umane, ha diviso comunità che in passato convivevano serenamente, ha seminato lutti e sentimenti di odio. Il ricorso alla violenza, infatti, esaspera le tensioni esistenti e ne crea di nuove. Nulla si risolve con la guerra; tutto è, anzi, dalla guerra seriamente compromesso. Frutti di questo flagello sono la sofferenza e la morte di innumerevoli persone, lo sgretolamento dei rapporti umani e la irreparabile perdita di ingenti patrimoni artistici e ambientali. La guerra peggiora le sofferenze dei poveri; anzi crea nuovi poveri, distruggendo mezzi di sostentamento, case, proprietà, e intaccando il tessuto stesso dell'ambiente di vita. I giovani vedono infrangersi le loro speranze per il futuro e troppo spesso, da vittime, si trasformano in protagonisti irresponsabili di conflitti. Le donne, i bambini, gli anziani, gli ammalati, i feriti sono costretti a fuggire e si ritrovano nella condizione di rifugiati che null'altro possiedono se non quanto portano con sé. Inermi, indifesi, cercano riparo in altri Paesi o regioni, spesso poveri e turbolenti come i loro.

Pur riconoscendo che le organizzazioni internazionali ed umanitarie stanno facendo molto per venire incontro al tragico destino delle vittime della violenza, sento il dovere di esortare tutte le persone di buona volontà ad intensificare gli sforzi. In alcuni casi, infatti, la sorte dei rifugiati dipende unicamente dalla generosità delle popolazioni che li accolgono, popolazioni altrettanto povere, se non persino più povere di loro. E' solo mediante l'interessamento e la collaborazione della comunità internazionale che potranno essere trovate soluzioni soddisfacenti. Dopo le tante ed inutili stragi, è comunque di fondamentale importanza riconoscere, una volta per tutte, che la guerra mai serve al bene della comunità umana, che la violenza distrugge e mai costruisce, che le ferite da essa provocate restano a lungo sanguinanti, che, infine, con i confitti peggiorano le già tristi condizioni dei poveri e si alimentano nuove forme di povertà.

E' dinanzi agli occhi dell'opinione pubblica mondiale lo spettacolo desolante delle miserie causate dalle guerre. Le sconvolgenti immagini, diffuse anche di recente dai mezzi di comunicazione sociale, siano almeno di efficace ammonimento a tutti - individui, società, stati - e ricordino a ciascuno che il denaro non va utilizzato per la guerra, né impiegato per distruggere ed uccidere, ma per difendere la dignità dell'uomo, per migliorarne la vita e per costruire una società autenticamente aperta, libera e solidale.

Spirito di povertà come fonte di pace

5. Nei Paesi industrializzati la gente è oggi dominata dalla corsa frenetica verso il possesso di beni materiali. La società dei consumi fa risaltare ancor più il divario che separa i ricchi dai poveri, e la spasmodica ricerca del benessere rischia di rendere ciechi di fronte agli altrui bisogni. Per promuovere il benessere sociale, culturale, spirituale ed anche economico di ogni membro della società, è dunque indispensabile arginare l'immoderato consumo di beni terreni e contenere la spinta dei bisogni artificiali. La moderazione e la semplicità devono diventare i criteri del nostro vivere quotidiano. La quantità di beni, consumati da una modestissima frazione della popolazione mondiale, produce una domanda eccessiva rispetto alle risorse disponibili. La riduzione della domanda costituisce un primo passo per alleviare la povertà, se ad essa si accompagnano efficaci sforzi per assicurare una giusta distribuzione della ricchezza mondiale.

Il Vangelo invita, in proposito, i credenti a non ammassare beni di questo mondo perituro: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo» (Mt 6,19-20). E', questo, un dovere insito nella vocazione cristiana non diversamente da quello di lavorare per sconfiggere la povertà; ed è anche un mezzo molto efficace per riuscire in tale impresa. La povertà evangelica è ben diversa da quella economica e sociale. Mentre questa ha caratteristiche impietose e spesso drammatiche, essendo subita come una violenza, la povertà evangelica è liberamente scelta dalla persona che intende così corrispondere al monito di Cristo: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Tale povertà evangelica si pone come fonte di pace, perché grazie ad essa la persona può instaurare un giusto rapporto con Dio, con gli altri e con il creato. La vita di chi si pone in quest'ottica diventa, così, testimonianza dell'assoluta dipendenza dell'umanità da Dio che ama tutte le creature, ed i beni materiali vengono riconosciuti per quello che sono: un dono di Dio per il bene di tutti.

La povertà evangelica è una realtà che trasforma coloro che l'accolgono. Essi non possono restare indifferenti di fronte alla sofferenza dei miseri; si sentono, anzi, spinti a condividere attivamente con Dio l'amore preferenziale per loro (cfr. Enc. Sollicitudo rei socialis, n. 42). Tali poveri secondo il Vangelo sono pronti a sacrificare i loro beni e se stessi perché altri possano vivere. Unico loro desiderio è di vivere in pace con tutti, offrendo agli altri il dono della pace di Gesù (cfr. Gv 14,27). Il Maestro divino ci ha insegnato con la sua vita e le sue parole le esigenti caratteristiche di questa povertà che dispone alla libertà vera. Egli «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7). Nacque nella povertà; da bambino fu costretto ad andare in esilio con la sua famiglia per sfuggire alla ferocia di Erode; visse come uno che «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Fu denigrato quale «mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19) e subì la morte riservata ai criminali. Chiamò beati i poveri ed assicurò che è per loro il Regno di Dio (cfr. Lc 6,20).

Ricordò ai ricchi che l'inganno della ricchezza soffoca la Parola (cfr. Mt 13,22), e che per loro è difficile entrare nel Regno di Dio (cfr. Mc 10,25). L'esempio di Cristo, non meno della sua parola, è norma per i cristiani. Noi sappiamo che tutti, senza distinzioni, nel giorno del giudizio universale, saremo giudicati sul nostro amore concreto verso i fratelli. Sarà anzi nell'amore concretamente esercitato che molti, in quel giorno, scopriranno di aver di fatto incontrato Cristo, pur non avendolo prima conosciuto in modo esplicito (cfr. Mt 25,35-37). «Se cerchi la pace, va' incontro ai poveri!». Possano i ricchi e i poveri riconoscersi fratelli e sorelle, condividendo tra loro quanto posseggono, come figli di un solo Dio che ama tutti, che vuole il bene di tutti, che offre a tutti il dono della pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1992.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXVII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

DALLA FAMIGLIA NASCE LA PACE DELLA FAMIGLIA UMANA

1 gennaio 1994

 

1. Il mondo anela alla pace, ha estremo bisogno di pace. Eppure guerre, conflitti, violenza dilagante, situazioni di instabilità sociale e di endemica povertà continuano a mietere vittime innocenti e a generare divisioni tra gli individui ed i popoli. La pace sembra a volte una meta davvero irraggiungibile! In un clima raggelato dall'indifferenza e talora avvelenato dall'odio, come sperare nell'avvento di un'era di pace, quale solo sentimenti di solidarietà e di amore possono propiziare?

Non dobbiamo tuttavia rassegnarci. Sappiamo che la pace, nonostante tutto, è possibile, perché iscritta nell'originario progetto divino.

Dio volle per l'umanità una condizione di armonia e di pace, ponendone il fondamento nella natura stessa dell'essere umano, creato «a sua immagine». Tale immagine divina si realizza non soltanto nell'individuo, ma anche in quella singolare comunione di persone che è formata da un uomo e da una donna, uniti a tal punto nell'amore da divenire «una sola carne» (Gn 2,24). E' scritto infatti: «A immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). A questa specifica comunità di persone il Signore ha affidato la missione di dare la vita e di prendersene cura formando una famiglia, e contribuendo così in modo decisivo al compito di amministrare la creazione e di provvedere al futuro stesso dell'umanità.

L'iniziale armonia fu spezzata dal peccato, ma l'originario piano di Dio permane. La famiglia resta, pertanto, il vero fondamento della società (Gaudium et Spes, 52), costituendone, come è detto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, «il nucleo naturale e fondamentale» (art. 16,3).

Il contributo che essa può offrire anche per la salvaguardia e la promozione della pace è talmente determinante che vorrei cogliere l'occasione offertami dall'Anno Internazionale della Famiglia per dedicare questo messaggio, nella Giornata Mondiale della Pace, alla riflessione sullo stretto rapporto esistente tra la famiglia e la pace. Confido infatti che detto Anno costituisca per tutti coloro che intendono contribuire alla ricerca della vera pace - Chiese, Organismi religiosi, Associazioni, Governi, Istanze internazionali - un'utile occasione per studiare insieme come aiutare la famiglia ad adempiere appieno il suo insostituibile compito di costruttrice di pace.

La famiglia: comunità di vita e di amore

2. La famiglia, quale fondamentale e insostituibile comunità educante, è il veicolo privilegiato per la trasmissione di quei valori religiosi e culturali che aiutano la persona ad acquisire la propria identità, Fondata sull'amore e aperta al dono della vita, la famiglia porta in sé il futuro stesso della società; suo compito specialissimo è di contribuire efficacemente ad un avvenire di pace.

Ciò essa otterrà, innanzitutto, mediante il reciproco amore dei coniugi, chiamati alla piena e totale comunione di vita dal senso naturale del matrimonio e ancor più, se cristiani, dalla sua elevazione a sacramento; e, inoltre, attraverso l'adeguato svolgimento del compito educativo, che impegna i genitori a formare i figli al rispetto della dignità di ogni persona ed ai valori della pace. Tali valori, più che essere «insegnati», devono essere testimoniati in un ambiente familiare che viva al suo interno quell'amore oblativo capace di accogliere l'altro nella sua diversità, facendone propri i bisogni e le esigenze e rendendolo partecipe dei propri beni. Le virtù domestiche, basate sul rispetto profondo della vita e della dignità dell'essere umano, e concretizzate nella comprensione, nella pazienza, nell'incoraggiamento e nel perdono reciproco, danno alla comunità familiare la possibilità di vivere la prima e fondamentale esperienza di pace. Al di fuori di questo contesto di affettuose relazioni e di operosa e reciproca solidarietà, l'essere umano «rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l'amore, ... se non lo sperimenta e non lo fa proprio» (Enciclica Redemptor Hominis, 10). Un tale amore, peraltro, non è fuggevole emozione, ma intensa e durevole forza morale che ricerca il bene altrui, anche a costo del proprio sacrificio. L'amore vero, inoltre, si accompagna sempre alla giustizia, tanto necessaria alla pace. Esso si protende verso quanti si trovano in difficoltà: coloro che non hanno famiglia, i bambini privi di assistenza e di affetto, le persone sole ed emarginate.

La famiglia che vive, anche se in modo imperfetto, questo amore, aprendosi generosamente al resto della società, costituisce l'agente primario di un futuro di pace. Una civiltà di pace non è possibile se manca l'amore.

La famiglia: vittima dell'assenza di pace

3. In contrasto con la sua originaria vocazione di pace, la famiglia si rivela purtroppo, e non di rado, luogo di tensione e di sopraffazione, oppure vittima inerme delle numerose forme di violenza che segnano l'odierna società.

Tensioni si ritrovano, talora, nei rapporti al suo interno. Spesso sono dovute alla fatica di armonizzare la vita familiare quando il lavoro tiene i coniugi lontano l'uno dall'altro o la sua mancanza e precarietà li sottopone all'assillo della sopravvivenza e all'incubo di un incerto futuro. Non mancano tensioni originate da modelli di comportamento ispirati all'edonismo e al consumismo, che spingono i membri della famiglia alla ricerca di personali gratificazioni piuttosto che di una serena e operosa vita comune. Frequenti liti fra i genitori, rifiuto della prole, abbandono e maltrattamenti di minori sono i tristi sintomi di una pace familiare già seriamente compromessa, e che non può certo essere restituita dalla dolorosa soluzione della separazione tra i coniugi, meno che mai dal ricorso al divorzio, vera «piaga» dell'odierna società (cfr. Gaudium et Spes, 47).

In molte parti del mondo, poi, nazioni intere sono prese nella spirale di cruenti conflitti, di cui spesso le famiglie sono le prime vittime: o sono private del principale, quando non unico, componente che guadagna, o sono costrette ad abbandonare casa, terra e beni per fuggire verso l'ignoto; o sono comunque sottoposte a traversie penose che pongono in forse ogni certezza. Come non ricordare, a tal proposito, il sanguinoso conflitto tra gruppi etnici ancora perdurante nella Bosnia-Erzegovina? E non è che un solo caso, tra i tanti scenari di guerra disseminati nel mondo!

Di fronte a tali dolorose realtà, la società si mostra spesso impari ad offrire un valido aiuto, o persino colpevolmente indifferente. I bisogni spirituali e psicologici di chi ha subito gli effetti di un conflitto armato sono urgenti e gravi quanto la necessità di cibo o di un tetto. Occorrerebbero specifiche strutture predisposte per svolgere un'azione di sostegno verso le famiglie colpite da improvvise e laceranti sventure, così che, nonostante tutto, esse non cedano alla tentazione dello scoraggiamento e della vendetta, ma siano capaci di ispirare i loro comportamenti al perdono ed alla riconciliazione. Quanto spesso, purtroppo, di tutto ciò non v'è alcuna traccia!

4. Non si deve poi dimenticare che la guerra e la violenza non costituiscono soltanto forze disgregatrici atte ad indebolire e distruggere le strutture familiari; esse esercitano anche un influsso nefasto sugli animi, giungendo a proporre e quasi ad imporre modelli di comportamento diametralmente opposti alla pace. A questo proposito, occorre denunciare un dato ben triste: oggi purtroppo ragazzi e ragazze, e persino bambini, prendono effettivamente parte, in numero crescente, a conflitti armati. Sono costretti ad arruolarsi nelle milizie armate e debbono combattere per cause che non sempre comprendono. In altri casi, vengono coinvolti in una vera e propria cultura della violenza, secondo la quale la vita conta ben poco ed uccidere non sembra immorale. E' nell'interesse di tutta la società far sì che questi giovani rinuncino alla violenza e s'incamminino sulla via della pace, ma questo presuppone una paziente educazione condotta da persone che alla pace credano sinceramente.

Non posso, a questo punto, non menzionare un altro serio ostacolo allo sviluppo della pace nella nostra società: molti, troppi bambini sono privi del calore di una famiglia. A volte essa è, di fatto, assente: presi da altri interessi, i genitori abbandonano i figli a se stessi. Altre volte la famiglia è addirittura inesistente: ci sono così migliaia di bambini che non hanno altra casa che la strada e non possono contare su alcuna risorsa all'infuori di se stessi. Alcuni di questi bambini di strada trovano la morte in modo tragico. Altri vengono avviati all'uso e persino allo spaccio della droga, alla prostituzione e non di rado finiscono nelle organizzazioni del crimine. Non è possibile ignorare situazioni tanto scandalose e pur così diffuse! E' in gioco il futuro stesso della società. Una comunità che rifiuta i bambini, o li emargina, o li riduce in situazioni senza speranza, non potrà mai conoscere la pace.

Per poter contare su di un futuro di pace, occorre che ogni piccolo essere umano sperimenti il calore di un affetto premuroso e costante, non il tradimento o lo sfruttamento. E se molto può fare lo Stato fornendo mezzi e strutture di sostegno, insostituibile resta l'apporto della famiglia per garantire quel clima di sicurezza e di fiducia che tanto rilievo ha nell'indurre i piccoli a guardare con serenità verso l'avvenire e nel prepararli a partecipare responsabilmente, divenuti grandi, all'edificazione di una società di autentico progresso e di pace. I bambini sono il futuro già presente in mezzo a noi; è necessario che possano sperimentare che cosa vuol dire pace per essere in grado di creare un futuro di pace.

La famiglia: protagonista della pace

5. Un ordine durevole di pace abbisogna di istituzioni che esprimano e consolidino i valori della pace. L'istituzione rispondente nel modo più immediato alla natura dell'essere umano è la famiglia. Essa soltanto assicura la continuità e il futuro della società. La famiglia è quindi chiamata a diventare attiva protagonista della pace grazie ai valori che esprime e trasmette al proprio interno e mediante la partecipazione di ogni suo membro alla vita della società.

Nucleo originario della società, la famiglia ha diritto a tutto il sostegno dello Stato per svolgere appieno la propria peculiare missione. Le leggi statali, pertanto, debbono essere orientate a promuoverne il benessere, aiutandola a realizzare i compiti che le spettano. Di fronte alla tendenza oggi sempre più incalzante a legittimare, quali surrogati dell'unione coniugale, forme di unione che per loro intrinseca natura o per la loro intenzionale transitorietà non possono in alcun modo esprimere il senso e assicurare il bene della famiglia, è dovere dello Stato incoraggiare e proteggere l'autentica istituzione familiare, rispettandone la naturale fisionomia e i diritti innati ed inalienabili. Tra questi, fondamentale è il diritto dei genitori a decidere liberamente e responsabilmente, in base alle loro convinzioni morali e religiose e alla loro coscienza adeguatamente formata, quando dare vita ad un figlio, per poi educarlo conformemente a tali convinzioni.

Un ruolo rilevante riveste inoltre lo Stato nel creare le condizioni per le quali le famiglie possano provvedere ai loro bisogni primari in maniera conforme alla dignità umana. La povertà, anzi la miseria - minaccia perenne alla stabilità sociale, allo sviluppo dei popoli, alla pace - colpisce oggi troppe famiglie. Avviene talvolta che, per mancanza di mezzi, le giovani coppie tardino a costituire una famiglia o ne vengano addirittura impedite, mentre le famiglie, segnate dal bisogno, non possono partecipare pienamente alla vita sociale, o sono costrette ad una condizione di totale emarginazione.

Il dovere dello Stato non disimpegna, tuttavia, i singoli cittadini: la vera risposta alle domande più gravi di ogni società è infatti assicurata dalla concorde solidarietà di tutti. In effetti, nessuno può sentirsi tranquillo finché il problema della povertà, che colpisce famiglie ed individui, non abbia trovato un'adeguata soluzione. L'indigenza è sempre una minaccia per la stabilità sociale, per lo sviluppo economico e quindi, ultimamente, per la pace. La pace sarà sempre insidiata, finché persone e famiglie si vedranno costrette a combattere per la loro stessa sopravvivenza.

La famiglia al servizio della pace

6. Vorrei ora rivolgermi direttamente alle famiglie; in particolare, a quelle cristiane.

«Famiglia diventa ciò che sei!», ho scritto nella Esortazione Apostolica Familiaris Consortio (n. 17). Diventa cioè «intima comunità di vita e d'amore coniugale» (Gaudium et Spes, 48), chiamata a donare amore e a trasmettere la vita!

Famiglia, tu hai una missione di primaria importanza: quella di contribuire alla costruzione della pace, bene indispensabile per il rispetto e lo sviluppo della stessa vita umana (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2304). Consapevole che la pace non si ottiene una volta per tutte (cfr. Gaudium et Spes, 78) mai devi stancarti di cercarla! Gesù, con la sua morte in croce, ha lasciato all'umanità la sua pace, assicurando la sua perenne presenza (cfr. Gv 14,27; 20,19-21; Mt 28,20). Chiedi questa pace, prega per questa pace, lavora per questa pace!

A voi, genitori, incombe la responsabilità di formare ed educare i figli ad essere persone di pace: a tal fine, siate voi, per primi, operatori di pace.

Voi, figli, proiettati verso il futuro con l'ardore della vostra giovane età, carica di progetti e di sogni, apprezzate il dono della famiglia, preparatevi alla responsabilità di costruirla o di promuoverla, a seconda delle rispettive vocazioni, nel domani che Dio vi concederà. Coltivate aspirazioni di bene e pensieri di pace.

Voi, nonni, che con gli altri membri della parentela rappresentate nella famiglia insostituibili e preziosi legami tra le generazioni, date generosamente il vostro contributo di esperienza e di testimonianza per saldare il passato al futuro in un presente di pace.

Famiglia, vivi concordemente ed appieno la tua missione!

Come dimenticare infine le molte persone che, per vari motivi, si sentono senza famiglia? Ad esse vorrei dire che una famiglia c'è anche per loro: la Chiesa è casa e famiglia per tutti (cfr. Familiaris Consortio, 85). Essa spalanca le porte ed accoglie quanti sono soli o abbandonati; in essi vede i figli prediletti di Dio, qualunque età abbiano, quali che siano le loro aspirazioni, difficoltà e speranze.

Possa la famiglia vivere in pace così che da essa scaturisca la pace per l'intera famiglia umana!

Ecco la preghiera che per intercessione di Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, elevo a Colui «dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3,15), all'alba dell'Anno Internazionale della Famiglia.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1993.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA DONNA EDUCATRICE DI PACE

1 gennaio 1995

 

1. All'inizio del 1995, con lo sguardo proteso verso il nuovo millennio ormai vicino, rivolgo ancora una volta a voi tutti, uomini e donne di buona volontà, il mio appello accorato per la pace nel mondo.

La violenza che tante persone e popoli continuano a subire, le guerre che tuttora insanguinano numerose parti del mondo, l'ingiustizia che grava sulla vita di interi continenti non sono più tollerabili.

E tempo di passare dalle parole ai fatti: i singoli cittadini e le famiglie, i credenti e le Chiese, gli Stati e gli Organismi Internazionali, tutti si sentano chiamati a porre mano con rinnovato impegno alla promozione della pace!

Ben sappiamo quanto quest'opera sia difficile. Essa infatti, per essere efficace e duratura, non può limitarsi agli aspetti esteriori della convivenza, ma deve piuttosto incidere sugli animi e far leva su una rinnovata coscienza della dignità umana. Bisogna riaffermarlo con forza: una vera pace non è possibile se non si promuove, a tutti i livelli, il riconoscimento della dignità della persona umana, offrendo ad ogni individuo la possibilità di vivere in conformità con questa dignità. «In una convivenza ordinata e feconda, va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura; diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» [Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963),1: AAS 55 (1963), 259].

Questa verità sull'uomo è la chiave di volta per la soluzione di tutti i problemi che riguardano la promozione della pace. Educare a questa verità è una delle più feconde e durevoli vie per affermare il valore della pace.

2. Educare alla pace significa far dischiudere le menti e i cuori all'accoglienza dei valori indicati da Papa Giovanni XXIII nell'Enciclica Pacem in terris come basilari per una società pacifica: la verità, la giustizia, l'amore, la libertà [cfr. l.c., 259-264]. Si tratta di un progetto educativo che coinvolge tutta la vita e dura per tutta la vita. Esso fa della persona un essere responsabile di sé e degli altri, capace di promuovere, con coraggio e intelligenza, il bene di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, come ebbe a sottolineare anche il Papa Paolo VI nell'Enciclica Populorum Progressio [cfr. Paolo VI, Lett. enc. Populorum Progressio (26 marzo 1967), n. 14: AAS 59 (1967), 264]. Questa formazione alla pace sarà tanto più efficace, quanto più convergente risulterà l'azione di coloro che, a diverso titolo, condividono responsabilità educative e sociali. Il tempo dedicato all'educazione è il meglio impiegato, perché decide del futuro della persona e, conseguentemente, della famiglia e dell'intera società.

In questa prospettiva desidero rivolgere il Messaggio per la presente Giornata della Pace soprattutto alle donne, chiedendo loro di farsi educatrici di pace con tutto il loro essere e con tutto il loro operare: siano testimoni, messaggere, maestre di pace nei rapporti tra le persone e le generazioni, nella famiglia, nella vita culturale, sociale e politica delle nazioni, in modo particolare nelle situazioni di conflitto e di guerra. Possano continuare il cammino verso la pace già intrapreso prima di loro da molte donne coraggiose e lungimiranti!

3. Questo invito particolarmente rivolto alla donna perché si faccia educatrice di pace poggia sulla considerazione che ad essa Dio «affida in modo speciale l'uomo, l'essere umano» [Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris Dignitatem (15 agosto 1988), n.30: AAS 80 (1988), 1725]. Ciò non va tuttavia inteso in senso esclusivo, ma piuttosto secondo la logica di ruoli complementari nella comune vocazione all'amore, che chiama gli uomini e le donne ad aspirare concordemente alla pace e a costruirla insieme. Fin dalle prime pagine della Bibbia, infatti, è mirabilmente espresso il progetto di Dio: Egli ha voluto che tra l'uomo e la donna vigesse un rapporto di profonda comunione, nella perfetta reciprocità di conoscenza e di dono [cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n.371]. Nella donna, l'uomo trova un'interlocutrice con cui dialogare sul piano della totale parità. Questa aspirazione, non soddisfatta da alcun altro essere vivente, spiega il grido di ammirazione che esce spontaneo dalla bocca dell'uomo quando la donna, secondo il suggestivo simbolismo biblico, fu plasmata da una sua costola. «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gen 2, 23). E il primo grido di amore risuonato sulla terra!

Se l'uomo e la donna sono fatti l'uno per l'altro, ciò non significa che Dio li abbia creati incompleti. Dio «li ha creati per una comunione di persone, nella quale ognuno può essere "aiuto" per l'altro, perché sono ad un tempo uguali in quanto persone ("osso dalle mie ossa...") e complementari in quanto maschio e femmina» [Ibidem, n.372]. Reciprocità e complementarità sono le due caratteristiche fondamentali della coppia umana.

4. Purtroppo, una lunga storia di peccato ha turbato e continua a turbare l'originario progetto di Dio sulla coppia, sull'«essere-uomo» e sull'«essere-donna», impedendone la piena realizzazione. Bisogna ad esso ritornare, annunciandolo con vigore, perché soprattutto le donne, che più hanno sofferto per tale mancata realizzazione, possano finalmente esprimere in pienezza la loro femminilità e la loro dignità.

Per la verità, nel nostro tempo le donne hanno compiuto passi importanti in questa direzione, giungendo ad esprimersi a livelli rilevanti nella vita culturale, sociale, economica e politica, oltre che, ovviamente, nella vita familiare. E stato un cammino difficile e complesso e, qualche volta, non privo di errori, ma sostanzialmente positivo, anche se ancora incompiuto per i tanti ostacoli che, in varie parti del mondo, si frappongono a che la donna sia riconosciuta, rispettata, valorizzata nella sua peculiare dignità [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris Dignitatem (15 agosto 1988), n.29: AAS 80 (1988), 1723]. La costruzione della pace, in effetti, non può prescindere dal riconoscimento e dalla promozione della dignità personale delle donne, chiamate a svolgere un compito insostituibile proprio nell'educazione alla pace. Rivolgo perciò a tutti un pressante invito a riflettere sull'importanza decisiva del ruolo delle donne nella famiglia e nella società e ad ascoltare le aspirazioni di pace che esse esprimono con parole e gesti e, nei momenti più drammatici, con la muta eloquenza del loro dolore.

5. Per educare alla pace, la donna deve innanzitutto coltivarla in se stessa. La pace interiore viene dal sapersi amati da Dio e dalla volontà di corrispondere al suo amore. La storia è ricca di mirabili esempi di donne che, sostenute da questa coscienza, hanno saputo affrontare con successo difficili situazioni di sfruttamento, di discriminazione, di violenza e di guerra.

Molte donne, specie a causa dei condizionamenti sociali e culturali, non giungono però ad una piena consapevolezza della loro dignità. Altre sono vittime di una mentalità materialistica ed edonistica che le considera un puro strumento di piacere e non esita ad organizzarne lo sfruttamento con ignobile commercio, persino in giovanissima età. Ad esse va rivolta un'attenzione speciale soprattutto da parte di quelle donne che, per educazione e sensibilità, sono in grado di aiutarle a scoprire la propria ricchezza interiore. Le donne aiutino le donne, traendo sostegno dal prezioso ed efficace contributo che associazioni, movimenti e gruppi, molti dei quali di ispirazione religiosa, hanno mostrato di saper offrire a questo fine.

6. Nell'educazione dei figli ha un ruolo di primissimo piano la madre. Per il rapporto speciale che la lega al bambino soprattutto nei primi anni di vita, essa gli offre quel senso di sicurezza e di fiducia senza il quale gli sarebbe difficile sviluppare correttamente la propria identità personale e, successivamente, stabilire relazioni positive e feconde con gli altri. Questa originaria relazione tra madre e figlio ha inoltre una valenza educativa tutta particolare sul piano religioso, perché permette di orientare a Dio la mente e il cuore del bambino molto prima che inizi una formale educazione religiosa.

In questo compito, decisivo e delicato, nessuna madre deve essere lasciata sola. I figli hanno bisogno della presenza e della cura di entrambi i genitori, i quali realizzano il loro compito educativo innanzitutto mediante l'influsso derivante dal loro comportamento. La qualità del rapporto che si stabilisce tra gli sposi incide profondamente sulla psicologia del figlio e condiziona non poco le relazioni che egli stabilisce con l'ambiente circostante, come anche quelle che intreccerà lungo l'arco della sua esistenza.

Questa prima educazione è di capitale importanza. Se i rapporti con i genitori e con gli altri familiari sono contrassegnati da una relazionalità affettuosa e positiva, i bambini imparano dalla viva esperienza i valori che promuovono la pace: l'amore per la verità e la giustizia, il senso di una libertà responsabile, la stima e il rispetto dell'altro. Al tempo stesso, crescendo in un ambiente accogliente e caldo, essi hanno la possibilità di percepire, riflesso nelle loro relazioni familiari, l'amore stesso di Dio e questo li fa maturare in un clima spirituale capace di orientarli all'apertura verso gli altri e al dono di sé al prossimo. L'educazione alla pace, naturalmente, continua in ogni periodo dello sviluppo ed è particolarmente da coltivare nella difficile fase dell'adolescenza, nella quale il passaggio dall'infanzia all'età adulta non è senza rischi per gli adolescenti, chiamati a scelte decisive per la vita.

7. Di fronte alla sfida dell'educazione, la famiglia si presenta come «la prima e fondamentale scuola di socialità» [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris Consortio (22 novembre 1981), n.37: AAS 74 (1982), 127], la prima e fondamentale scuola di pace. Non è pertanto difficile intuire le conseguenze drammatiche alle quali si va incontro quando la famiglia è segnata da crisi profonde che ne minano o addirittura ne sconvolgono gli interni equilibri. Spesso, in queste circostanze, le donne sono lasciate sole. E necessario invece che, proprio allora, esse siano adeguatamente aiutate non solo dalla concreta solidarietà di altre famiglie, di comunità a carattere religioso, di gruppi di volontariato, ma anche dallo Stato e dalle Organizzazioni Internazionali mediante appropriate strutture di supporto umano, sociale ed economico che consentano loro di far fronte alle necessità dei figli, senza essere costrette a privarli oltre misura della loro indispensabile presenza.

8. Un altro serio problema si registra là dove perdura la consuetudine intollerabile di discriminare, fin dai primissimi anni, bambini e bambine. Se le bambine, già nella più tenera età, vengono emarginate o considerate di minor valore, sarà gravemente intaccato il senso della loro dignità e inevitabilmente compromesso il loro armonioso sviluppo. L'iniziale discriminazione si ripercuoterà su tutta la loro esistenza, impedendo un pieno inserimento nella vita sociale.

Come dunque non riconoscere e incoraggiare l'opera inestimabile di tante donne, come pure di tante Congregazioni religiose femminili, che nei vari continenti e in ogni contesto culturale fanno dell'educazione delle bambine e delle donne lo scopo precipuo del loro servizio? Come non ricordare altresì con animo grato tutte le donne che hanno operato e continuano ad operare sul fronte della salute, spesso in circostanze assai precarie, riuscendo non di rado ad assicurare la sopravvivenza stessa di innumerevoli bambine?

9. Quando le donne hanno la possibilità di trasmettere in pienezza i loro doni all'intera comunità, la stessa modalità con cui la società si comprende e si organizza ne risulta positivamente trasformata, giungendo a riflettere meglio la sostanziale unità della famiglia umana. Sta qui la premessa più valida per il consolidamento di un'autentica pace. E dunque un benefico processo quello della crescente presenza delle donne nella vita sociale, economica e politica a livello locale, nazionale e internazionale. Le donne hanno pieno diritto di inserirsi attivamente in tutti gli ambiti pubblici e il loro diritto va affermato e protetto anche attraverso strumenti legali laddove si rivelino necessari.

Il riconoscimento del ruolo pubblico delle donne non deve, tuttavia, sminuirne quello insostituibile all'interno della famiglia: qui il loro contributo al bene e al progresso sociale, anche se poco considerato, è di valore veramente inestimabile. In proposito, non mi stancherò mai di chiedere che si compiano decisivi passi in avanti in ordine al riconoscimento e alla promozione di così importante realtà.

10. Assistiamo oggi, attoniti e preoccupati, al drammatico «crescendo» di ogni tipo di violenza: non solo singoli individui, ma interi gruppi sembrano aver smarrito ogni senso di rispetto nei confronti della vita umana. Le donne e perfino i bambini sono, purtroppo, tra le vittime più frequenti di tale cieca violenza. Si tratta di forme esecrabili di barbarie che ripugnano profondamente alla coscienza umana.

Tutti siamo interpellati a fare il possibile per allontanare dalla società non soltanto la tragedia della guerra, ma anche ogni violazione dei diritti umani, a partire da quello indiscutibile alla vita, di cui la persona è depositaria fin dal suo concepimento. Nella violazione del diritto alla vita del singolo essere umano è contenuta in germe anche l'estrema violenza della guerra. Chiedo pertanto alle donne di schierarsi tutte e sempre dalla parte della vita; e chiedo al tempo stesso a tutti di aiutare le donne che soffrono e in particolare, i bambini, specialmente quelli segnati dal trauma doloroso di esperienze belliche sconvolgenti: solo l'attenzione amorevole e premurosa potrà far sì che essi tornino a guardare al futuro con fiducia e speranza.

1l. Quando il mio amato predecessore Papa Giovanni XXIII individuò nella partecipazione delle donne alla vita pubblica uno dei segni del nostro tempo non mancò di annunciare che esse, consapevoli della loro dignità, non avrebbero più tollerato di essere trattate in maniera strumentale [cfr. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), I: AAS 55 (1963), 267-268].

Le donne hanno il diritto di esigere che la loro dignità venga rispettata. Allo stesso tempo, esse hanno il dovere di lavorare per la promozione della dignità di tutte le persone, degli uomini come delle donne.

In questa prospettiva auspico che le numerose iniziative internazionali previste per il 1995 - di esse alcune saranno dedicate specificamente alla donna, come la Conferenza Mondiale promossa dalle Nazioni Unite a Pechino sul tema dell'azione per l'uguaglianza, lo sviluppo e la pace - costituiscano un'occasione importante per umanizzare i rapporti interpersonali e sociali nel segno della pace.

12. Maria, Regina della pace, con la sua maternità, con l'esempio della sua disponibilità ai bisogni degli altri, con la testimonianza del suo dolore è vicina alle donne del nostro tempo. Ella visse con profondo senso di responsabilità il progetto che Dio intendeva realizzare in lei per la salvezza dell'intera umanità. Consapevole del prodigio che Dio aveva operato in lei, rendendola Madre del suo Figlio fatto uomo, come primo pensiero ebbe quello di andare a visitare l'anziana cugina Elisabetta per prestarle i suoi servizi. L'incontro le offrì l'occasione di esprimere, col mirabile canto del Magnificat (Lc 1,46-55) la sua gratitudine a Dio che con lei e attraverso di lei aveva dato avvio ad una nuova creazione, ad una storia nuova.

Chiedo alla Vergine Santissima di sostenere gli uomini e le donne che, servendo la vita, s'impegnano a costruire la pace. Con il suo aiuto possano testimoniare a tutti, specialmente a coloro che vivendo nell'oscurità e nella sofferenza hanno fame e sete di giustizia, la presenza amorevole del Dio della pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1994.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

DIAMO AI BAMBINI UN FUTURO DI PACE!

1 gennaio 1996

 

1. Alla fine del 1994, Anno Internazionale della Famiglia, ho indirizzato ai bambini del mondo intero una Lettera, chiedendo loro di pregare affinché l'umanità diventi sempre più famiglia di Dio, capace di vivere nella concordia e nella pace. Non ho mancato inoltre di manifestare viva preoccupazione per i fanciulli vittime di conflitti bellici e di altre forme di violenza, richiamando su tali gravi situazioni l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale.

All'inizio del nuovo anno, il mio pensiero si volge ancora ai bambini e alle loro legittime attese di amore e di serenità. Tra loro sento il dovere di ricordare particolarmente quelli segnati dalla sofferenza, i quali spesso diventano adulti senza aver mai fatto esperienza di che cosa sia la pace. Lo sguardo dei piccoli dovrebbe essere sempre lieto e fiducioso, invece qualche volta è colmo di tristezza e di paura: hanno già visto e penato troppo nei pochi anni della loro vita!

Diamo ai bambini un futuro di pace! Ecco l'appello che rivolgo fiducioso agli uomini ed alle donne di buona volontà, invitando ciascuno ad aiutare i bambini a crescere in un clima di autentica pace. È un loro diritto, è un nostro dovere.

2. Ho dinanzi alla mente le schiere numerose di bambini che ho avuto modo di incontrare lungo gli anni del mio pontificato, specialmente nel corso dei viaggi apostolici in ogni continente. Bambini sereni e pieni di allegria. Penso a loro mentre inizia il nuovo anno. Auguro a tutti i bambini del mondo di cominciare nella gioia il 1996 e di poter trascorrere una fanciullezza serena, aiutati in questo dal sostegno di adulti responsabili.

Vorrei che dappertutto l'armonico rapporto fra adulti e bambini favorisse un clima di pace e di autentico benessere. Purtroppo, non sono pochi nel mondo i bambini vittime incolpevoli di guerre. Negli anni recenti ne sono stati feriti ed uccisi a milioni: un vero massacro.

La speciale protezione accordata all'infanzia dalle norme internazionali [cfr. Convenzione delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989 sui diritti dei bambini, in particolare l'art.38; Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, art.24; Protocolli I e II del 12 dicembre 1977, ecc.] è stata ampiamente disattesa ed i conflitti regionali ed interetnici, aumentati a dismisura, vanificano la tutela prevista dalle norme umanitarie. I bambini sono persino diventati bersaglio dei cecchini, le loro scuole volutamente distrutte e bombardati gli ospedali dove sono curati. Di fronte a simili mostruose aberrazioni, come non levare la voce per un'unanime condanna? L'uccisione deliberata di un bambino costituisce uno dei segni più sconcertanti dell'eclisse di ogni rispetto per la vita umana [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium Vitae (25 marzo 1995), 3: AAS 87 (1995), 404].

Con i bambini uccisi, voglio pure ricordare quelli mutilati nel corso dei conflitti o a seguito di essi. Il pensiero va, infine, ai bambini sistematicamente perseguitati, violentati, eliminati durante le cosiddette «pulizie etniche».

3. Non ci sono soltanto bambini che subiscono la violenza delle guerre; non pochi fra loro sono costretti a diventarne protagonisti. In alcuni Paesi del mondo si è giunti al punto di obbligare ragazzi e ragazze, anche giovanissimi, a prestare servizio nelle formazioni militari delle parti in lotta. Lusingati dalla promessa di cibo e di istruzione scolastica, essi vengono confinati in accampamenti isolati, dove patiscono fame e maltrattamenti e dove sono istigati ad uccidere perfino persone del loro stesso villaggio. Sovente sono mandati in avanscoperta per ripulire i campi minati. Evidentemente la loro vita vale ben poco per chi così se ne serve!

Il futuro di questi fanciulli in armi è spesso segnato. Dopo anni di servizio militare, alcuni vengono semplicemente smobilitati e rimandati a casa, e per lo più non riescono a reintegrarsi nella vita civile. Altri, vergognandosi d'essere sopravvissuti ai loro compagni, finiscono per darsi alla delinquenza o alla droga. Chissà quali fantasmi continueranno a turbare i loro animi! La loro mente sarà mai libera da tanti ricordi di violenza e di morte?

Meritano viva riconoscenza quelle organizzazioni umanitarie e religiose che si sforzano di alleviare sofferenze così disumane. E gratitudine si deve pure alle persone di buona volontà e alle famiglie che offrono amorevole accoglienza ai piccoli rimasti orfani, prodigandosi per sanarne i traumi e favorirne il reinserimento nelle comunità di origine.

4. Il ricordo di milioni di bambini uccisi, gli occhi tristi di tanti loro coetanei crudelmente sofferenti ci spingono ad esperire tutte le vie possibili per salvaguardare o ristabilire la pace, facendo cessare i conflitti e le guerre.

Prima della IV Conferenza Mondiale sulla Donna, tenutasi a Pechino nello scorso mese di settembre, ho invitato le istituzioni caritative ed educative cattoliche ad adottare una strategia coordinata e prioritaria nei confronti delle bambine e delle giovani donne, specialmente di quelle più povere [cfr. Messaggio alla Delegazione della Santa Sede alla IV Conferenza Mondiale sulla Donna (29 agosto 1995): L'Osservatore Romano, 30 agosto 1995, p.1]. Desidero ora rinnovare tale appello ed estenderlo in particolare alle istituzioni ed organizzazioni cattoliche che si dedicano ai minori: aiutate le bambine che hanno sofferto a causa della guerra o della violenza; insegnate ai ragazzi a riconoscere e a rispettare la dignità della donna; aiutate l'infanzia a riscoprire la tenerezza dell'amore di Dio, che si è fatto uomo e che, morendo, ha lasciato al mondo il dono della sua pace (cfr. Gv 14,27).

Mai mi stancherò di ripetere che dalle più alte organizzazioni internazionali alle associazioni locali, dai Capi di Stato al comune cittadino, tutti siamo chiamati, nel quotidiano come nelle grandi occasioni della vita, ad offrire il nostro contributo alla pace ed a rifiutare ogni sostegno alla guerra.

5. Milioni di bambini soffrono a causa di altre forme di violenza, presenti sia nelle società colpite dalla miseria sia in quelle sviluppate. Sono violenze spesso meno appariscenti, ma non per questo meno terribili.

La Conferenza Internazionale per lo Sviluppo Sociale, tenutasi quest'anno a Copenaghen, ha sottolineato il legame tra povertà e violenza [cfr. Dichiarazione di Copenaghen, n. 16], e in quella occasione gli Stati si sono impegnati a combattere in modo più deciso la piaga della miseria con iniziative a livello nazionale a partire dal 1996 [cfr. Programma d'azione, capitolo II]. Tali erano anche gli orientamenti emersi nella precedente Conferenza Mondiale dell'ONU, dedicata ai bambini (New York, 1990). In realtà, la miseria è all'origine di condizioni di esistenza e di lavoro veramente disumane. Vi sono in alcuni Paesi bambini costretti a lavorare in tenera età, maltrattati, puniti violentemente, retribuiti con un compenso irrisorio, poiché non hanno modo di farsi valere, sono i più facili da ricattare e sfruttare.

Altre volte essi sono oggetto di compravendita [cfr. Programma d'azione, n. 39 (e)] per l'accattonaggio o, peggio, per l'avvio alla prostituzione, nel contesto anche del cosiddetto «turismo sessuale», fenomeno quanto mai deprecabile che degrada chi lo attua ma anche tutti coloro che in vari modi lo favoriscono. Vi è poi chi non si fa scrupolo di arruolare bambini per attività criminali, in specie per lo spaccio di droghe, col rischio tra l'altro, del loro personale coinvolgimento nell'uso di tali sostanze.

Non sono pochi i bambini che finiscono per avere come unico ambiente di vita la strada: fuggiti di casa, o abbandonati dalla famiglia, o semplicemente privi da sempre di un ambiente familiare, vivono di espedienti, in stato di totale abbandono, considerati da molti come rifiuti di cui sbarazzarsi.

6. La violenza nei confronti dei bambini non manca purtroppo nemmeno nelle famiglie che vivono in condizioni di benessere e di agiatezza. Si tratta fortunatamente di episodi non frequenti, ma è importante comunque non ignorarli. Succede talora che all'interno delle stesse mura domestiche, e proprio ad opera delle persone nelle quali sarebbe giusto riporre ogni fiducia, i piccoli subiscono prevaricazioni e soprusi con effetti devastanti sul loro sviluppo.

Molti sono poi i bambini che si trovano a sopportare i traumi derivanti dalle tensioni tra i genitori o dalla stessa frantumazione della famiglia. La preoccupazione per il loro bene non riesce a frenare risoluzioni dettate spesso dall'egoismo e dall'ipocrisia degli adulti. Dietro un'apparenza di normalità e di serenità, resa anche più accattivante dall'abbondanza di beni materiali, i bambini sono talvolta costretti a crescere in una triste solitudine, senza una giusta e amorosa guida ed un'adeguata formazione morale. Abbandonati a se stessi, trovano abitualmente il loro principale punto di riferimento nella televisione, i cui programmi propongono sovente modelli di vita irreale o corrotta, nei cui confronti il loro fragile discernimento non è ancora in grado di reagire.

Come meravigliarsi se una violenza così multiforme e insidiosa finisce per penetrare anche nel loro giovane cuore e mutarne il naturale entusiasmo in disincanto o cinismo, la spontanea bontà in indifferenza ed egoismo? Così, inseguendo fallaci ideali, l'infanzia rischia di incontrare amarezza e umiliazione, ostilità e odio, assorbendo l'insoddisfazione e il vuoto di cui è impregnato l'ambiente circostante. È fin troppo noto come le esperienze dell'infanzia abbiano ripercussioni profonde ed a volte irrimediabili sull'intero corso dell'esistenza.

È difficile sperare che i bambini sappiano un giorno costruire un mondo migliore, quando è mancato un preciso impegno per la loro educazione alla pace. Essi hanno bisogno di «imparare la pace»: è un loro diritto che non può essere disatteso.

7. Ho voluto porre in forte rilievo le condizioni talora drammatiche in cui versano molti bambini di oggi. Lo ritengo un dovere: saranno essi gli adulti del terzo Millennio. Non intendo, tuttavia, indulgere al pessimismo, né ignorare gli elementi che invitano alla speranza. Come tacere, ad esempio, di tante famiglie in ogni angolo del mondo, ove i bambini crescono in un ambiente sereno; come non ricordare gli sforzi che tante persone ed organismi fanno per assicurare ai bambini in difficoltà uno sviluppo armonico e gioioso? Sono iniziative di enti pubblici e privati, di singole famiglie e di benemerite comunità, il cui unico scopo è il ricupero ad una vita normale di bambini coinvolti in qualche vicenda traumatica. Sono, in particolare, proposte concrete di itinerari educativi miranti a valorizzare appieno ogni potenzialità personale, per fare dei ragazzi e dei giovani autentici artefici di pace.

Né va dimenticata l'accresciuta consapevolezza della Comunità internazionale che in questi ultimi anni, pur fra difficoltà e tentennamenti, si sforza di affrontare con decisione e metodo le problematiche dell'infanzia.

I risultati raggiunti confortano a proseguire in così lodevole impegno. Convenientemente aiutati ed amati, i bambini stessi sanno farsi protagonisti di pace, costruttori di un mondo fraterno e solidale. Con il loro entusiasmo e con la freschezza della loro dedizione, essi possono diventare «testimoni» e «maestri» di speranza e di pace a beneficio degli stessi adulti. Per non disperdere tali potenzialità, occorre offrire ai bambini, con il dovuto rispetto per la loro personalità, ogni occasione favorevole per una maturazione equilibrata ed aperta.

Una fanciullezza serena consentirà ai bambini di guardare con fiducia verso la vita ed il domani. Guai a chi soffoca in loro lo slancio gioioso della speranza!

8. I piccoli imparano ben presto a conoscere la vita. Osservano ed imitano il modo di agire degli adulti. Apprendono rapidamente l'amore e il rispetto per gli altri, ma assimilano pure con prontezza il veleno della violenza e dell'odio. L'esperienza fatta in famiglia influirà fortemente sugli atteggiamenti che assumeranno da adulti. Pertanto, se la famiglia è il primo luogo nel quale si aprono al mondo, la famiglia deve essere per loro la prima scuola di pace.

I genitori hanno una straordinaria possibilità per aprire i figli alla conoscenza di questo grande valore: la testimonianza del loro amore reciproco. È amandosi che essi consentono al figlio, fin dal suo primo esistere di crescere in un ambiente di pace, permeato di quegli elementi positivi che di per sé costituiscono il vero patrimonio familiare: stima ed accoglienza reciproche, ascolto, condivisione, gratuità, perdono. Grazie alla reciprocità che promuovono, questi valori rappresentano un'autentica educazione alla pace e rendono il bambino, fin dalla sua più tenera età, attivo costruttore di essa.

Egli condivide coi genitori ed i fratelli l'esperienza della vita e della speranza, vedendo come s'affrontano con umiltà e coraggio le inevitabili difficoltà e respirando in ogni circostanza un clima di stima per gli altri e di rispetto per le opinioni diverse dalle proprie.

È anzitutto in casa che, prima ancora di ogni parola, i piccoli devono sperimentare, nell'amore che li circonda, l'amore di Dio per loro, ed imparare che Egli vuole pace e comprensione reciproca tra tutti gli esseri umani, chiamati a formare un'unica, grande famiglia.

9. Ma, oltre alla fondamentale educazione familiare, i bambini hanno diritto ad una specifica formazione alla pace nella scuola e nelle altre strutture educative, le quali hanno il compito di condurli gradualmente a comprendere la natura e le esigenze della pace all'interno del loro mondo e della loro cultura. È necessario che essi imparino la storia della pace e non solo quella delle guerre vinte o perdute.

Si offrano loro, pertanto, esempi di pace e non di violenza. Fortunatamente di simili modelli positivi se ne possono trovare tanti in ogni cultura ed in ogni periodo della storia. Opportunità educative adatte vanno costruite cercando con creatività vie nuove, soprattutto là dove più opprimente è la miseria culturale e morale. Tutto deve essere predisposto in modo che i piccoli divengano araldi di pace.

I bambini non sono pesi per la società, non sono strumenti per il guadagno né semplicemente persone senza diritti; sono membri preziosi del consorzio umano, del quale incarnano le speranze, le attese, le potenzialità.

10. La pace è dono di Dio; ma dipende dagli uomini accoglierlo per costruire un mondo di pace. Essi lo potranno solo se avranno la semplicità di cuore dei bambini. È questo uno degli aspetti più profondi e paradossali dell'annuncio cristiano: farsi piccoli, prima che un'esigenza morale, è una dimensione del mistero della Incarnazione.

Il Figlio di Dio, infatti, non è venuto in potenza e gloria, come sarà alla fine dei tempi, ma come bambino bisognoso e in condizioni disagiate. Condividendo interamente la nostra condizione umana escluso il peccato (cfr. Eb 4,15), Egli ha assunto anche la fragilità e l'attesa di futuro proprie dell'infanzia. Da quel momento decisivo per la storia dell'umanità, disprezzare l'infanzia è contemporaneamente disprezzare Colui che ha voluto manifestare la grandezza di un amore pronto ad abbassarsi e a rinunciare ad ogni gloria per redimere l'uomo.

Gesù si è identificato con i piccoli e quando gli Apostoli discutevano su chi fosse il più grande, egli «prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: "Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato"» (Lc 9,47 48). Il Signore ci ha messi in guardia con forza contro il rischio di dar scandalo ai fanciulli: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6).

Ai discepoli chiese di tornare ad essere «bambini», e quando essi cercarono di allontanare i piccoli che gli si stringevano attorno, si indignò: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso» (Mc 10,14-15). Così Gesù rovesciava il modo corrente di pensare Gli adulti devono imparare dai bambini e le vie di Dio: dalla loro capacità di fiducia e di abbandono essi possono apprendere ad invocare con la giusta confidenza «Abbà, Padre».

11. Farsi piccoli come bambini - affidati totalmente al Padre, rivestiti di mitezza evangelica -, oltre che un imperativo etico, è un motivo di speranza. Anche là dove le difficoltà fossero tali da scoraggiare e la forza del male così prepotente da sgomentare, la persona che sa ritrovare la semplicità del bambino può riprendere a sperare: lo può innanzitutto chi sa di poter contare su un Dio che vuole la concordia di tutti gli uomini nella comunione pacificata del suo Regno; ma lo può anche chi, pur non condividendo il dono della fede, crede nei valori del perdono e della solidarietà e in essi intravede - non senza la segreta azione dello Spirito - la possibilità di dare un volto nuovo alla terra.

È dunque agli uomini e alle donne di buon volontà che mi rivolgo con fiducia. Uniamoci tutti per reagire contro ogni forma di violenza sconfiggere la guerra! Creiamo le condizioni perché i piccoli possano ricevere in eredità dalla nostra generazione un mondo più unito solidale!

Diamo ai bambini un futuro di pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1995.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

OFFRI IL PERDONO, RICEVI LA PACE

1 gennaio 1997

 

1. Soltanto tre anni ci separano dall'aurora di un nuovo millennio, e l'attesa si fa carica di riflessione, suggerendo una sorta di bilancio del cammino compiuto dall'umanità davanti allo sguardo di Dio, Signore della storia. Se si considera il trascorso millennio e, soprattutto, quest'ultimo secolo, bisogna riconoscere che molte luci si sono accese sulla strada degli uomini dal punto di vista socio-culturale, economico, scientifico, tecnologico. Purtroppo, ad esse fanno contrasto ombre gravi, soprattutto sul terreno della moralità e della solidarietà. Un vero scandalo è poi la violenza che, in forme antiche e nuove, colpisce ancora molte vite umane e lacera famiglie e comunità.

E tempo che ci si decida ad intraprendere insieme e con animo risoluto un vero pellegrinaggio di pace, ciascuno a partire dalla concreta situazione in cui si trova. Le difficoltà sono a volte assai grandi: l'appartenenza etnica, la lingua, la cultura, la credenza religiosa costituiscono spesso altrettanti ostacoli. Camminare insieme, quando si hanno alle spalle esperienze traumatiche o addirittura divisioni secolari, non è impresa da poco. Ecco allora la domanda: quale strada seguire, da che cosa farsi orientare?

Certamente sono molti i fattori che possono influire favorevolmente sul ristabilimento della pace, salvaguardando le esigenze della giustizia e della dignità umana. Ma nessun processo di pace potrà essere mai avviato, se non si matura negli uomini un atteggiamento di sincero perdono. Senza di esso le ferite continuano a sanguinare, alimentando nelle generazioni che si succedono un astio interminabile, che è fonte di vendetta e causa di sempre nuove rovine. Il perdono offerto e ricevuto è la premessa indispensabile per camminare verso una pace autentica e stabile.

Con profonda convinzione voglio quindi rivolgere un appello a tutti, affinché si persegua la pace sui sentieri del perdono. Sono pienamente consapevole di quanto il perdonare possa sembrare contrario alla logica umana, che obbedisce spesso alle dinamiche della contestazione e della rivalsa. Il perdono, invece, s'ispira alla logica dell'amore, quell'amore che Dio riserva a ciascun uomo e donna, a ciascun popolo e nazione, come all'intera famiglia umana. Ma se la Chiesa osa proclamare quella che, umanamente parlando, potrebbe sembrare una follia, è proprio a motivo della sua incrollabile fiducia nell'amore infinito di Dio. Come attesta la Scrittura, Dio è ricco di misericordia e non cessa di perdonare quanti ritornano a Lui (cfr Ez 18, 23; Sal 32[31], 5; 103[102], 3.8-14; Ef 2, 4-5; 2 Cor 1, 3). Il perdono di Dio diventa nei nostri cuori sorgente inesauribile di perdono anche nei rapporti fra noi, aiutandoci a viverli all'insegna di una vera fraternità.

Il mondo ferito anela al risanamento

2. Come poc'anzi accennavo, il mondo moderno, nonostante i numerosi traguardi raggiunti, continua ad essere segnato da non poche contraddizioni. Il progresso nei campi dell'industria e dell'agricoltura ha comportato per milioni di persone un migliore tenore di vita e lascia bene sperare per molti altri; la tecnologia consente ormai di superare le distanze; l'informazione è diventata istantanea ed ha ampliato le possibilità dell'umana conoscenza; il rispetto per l'ambiente che ci circonda va crescendo e tende a divenire stile di vita. Un popolo di volontari, con una generosità che spesso resta sconosciuta, opera instancabilmente in ogni parte del mondo al servizio dell'umanità, prodigandosi soprattutto per alleviare i bisogni dei poveri e dei sofferenti.

Come non riconoscere con gioia questi elementi positivi del nostro tempo? Purtroppo la scena del mondo contemporaneo presenta anche non pochi fenomeni di segno contrario. Tali sono, ad esempio, il materialismo e il disprezzo crescente per la vita umana, che sono venuti assumendo dimensioni inquietanti. Molti sono coloro che impostano la loro vita seguendo come uniche leggi il profitto, il prestigio, il potere.

La conseguenza è che numerose persone si ritrovano confinate nella loro solitudine interiore, altre continuano ad essere volutamente discriminate a motivo della razza, della nazionalità o del sesso, mentre la povertà sospinge masse intere ai margini della società o, addirittura, verso l'annientamento. Per troppi, poi, la guerra è divenuta la dura realtà della vita quotidiana. Una società che ricerca soltanto i beni materiali o effimeri tende ad emarginare chi non serve a tale scopo. Di fronte a queste situazioni, che sono a volte autentiche tragedie umane, taluni preferiscono chiudere semplicemente gli occhi, arroccandosi nella loro indifferenza. Si rinnova in loro l'atteggiamento di Caino: « Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). Dovere della Chiesa è di ricordare a ciascuno le severe parole di Dio: « Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10).

La sofferenza di tanti fratelli e sorelle non ci può lasciare indifferenti! La loro pena fa appello alla nostra coscienza, interiore santuario in cui ci troviamo faccia a faccia con noi stessi e con Dio. E come non riconoscere che, in diversa misura, tutti siamo coinvolti in questa revisione di vita a cui Dio ci chiama? Tutti abbiamo bisogno del perdono di Dio e del prossimo. Tutti dobbiamo perciò essere disposti a perdonare e a chiedere perdono.

Il peso della storia

3. La fatica del perdono non dipende solo dalle vicende del presente. La storia porta con sé un pesante fardello di violenze e di conflitti, di cui non è facile sbarazzarsi. Soprusi, oppressioni, guerre hanno fatto soffrire innumerevoli esseri umani e, anche se le cause di quei fenomeni dolorosi si perdono in tempi remoti, i loro effetti rimangono vivi e laceranti, alimentando paure, sospetti, odi e fratture tra famiglie, gruppi etnici, intere popolazioni. Sono dati di fatto che mettono a dura prova la buona volontà di chi vorrebbe sottrarsi al loro condizionamento. Eppure resta vero che non si può rimanere prigionieri del passato: occorre, per i singoli e per i popoli, una sorta di « purificazione della memoria », affinché i mali di ieri non tornino a prodursi ancora. Non si tratta di dimenticare quanto è avvenuto, ma di rileggerlo con sentimenti nuovi, imparando proprio dalle esperienze sofferte che solo l'amore costruisce, mentre l'odio produce devastazione e rovina. Alla ripetitività mortificante della vendetta occorre sostituire la novità liberante del perdono.

E indispensabile, a tal fine, imparare a leggere la storia degli altri popoli evitando giudizi sommari e partigiani e facendo uno sforzo per comprendere il punto di vista di quanti a quei popoli appartengono. E, questa, una vera sfida anche di ordine pedagogico e culturale. Una sfida di civiltà! Se si accetta di intraprendere questo cammino, si scoprirà che gli errori non stanno mai da una parte sola; si vedrà come la presentazione della storia sia stata talvolta distorta e, addirittura, manipolata con tragiche conseguenze.

Una corretta rilettura della storia favorirà l'accettazione e l'apprezzamento delle differenze — sociali, culturali e religiose — esistenti tra persone, gruppi e popoli. E questo il primo passo verso la riconciliazione, perché il rispetto delle diversità costituisce una condizione necessaria ed una dimensione qualificante di autentiche relazioni tra singoli e tra collettività. La repressione delle diversità può dare origine ad una pace apparente, ma genera una situazione precaria che di fatto prelude a nuove esplosioni di violenza.

Meccanismi concreti di riconciliazione

4. Le guerre, anche quando « risolvono » i problemi che ne sono all'origine, non lo fanno che lasciando dietro di sé vittime e distruzioni, che pesano sulle successive trattative di pace. Questa consapevolezza deve spingere i popoli, le nazioni e gli Stati a superare decisamente la « cultura della guerra », non solo nell'espressione più detestabile di una potenza bellica perseguita come strumento di sopraffazione, ma anche in quella meno odiosa, ma non meno rovinosa, del ricorso alle armi inteso come mezzo sbrigativo per affrontare i problemi. Specie in un tempo come il nostro, che conosce le più sofisticate tecnologie distruttive, è urgente sviluppare una solida « cultura di pace », che prevenga e scongiuri lo scatenarsi inarrestabile della violenza armata, anche prevedendo interventi volti ad impedire la crescita dell'industria e del commercio delle armi.

Ma prima ancora, occorre che il desiderio sincero della pace si traduca nella ferma decisione di rimuovere ogni ostacolo che si frappone al suo raggiungimento. In questo sforzo le varie Religioni possono offrire un contributo importante, nella scia di quanto spesso hanno fatto, levando la propria voce contro la guerra ed affrontando coraggiosamente i rischi conseguenti. Tuttavia, non siamo forse tutti chiamati a fare ancora di più, attingendo dal genuino patrimonio delle nostre tradizioni religiose?

Essenziale in questa materia resta, comunque, il compito dei governi e della comunità internazionale, a cui spetta di contribuire alla costruzione della pace mediante l'attivazione di strutture solide che siano in grado di resistere alle turbolenze della politica, così da garantire libertà e sicurezza per tutti e in ogni circostanza. Alcune di queste strutture già esistono, ma hanno bisogno di essere rafforzate. L'Organizzazione delle Nazioni Unite, ad esempio, seguendo l'ispirazione per cui fu fondata, ha assunto recentemente una responsabilità sempre più grande nel mantenimento o nel ripristino della pace. Proprio in questa prospettiva, a cinquant'anni dalla sua nascita, sembra doveroso auspicare un conveniente adeguamento dei mezzi a sua disposizione, così da consentirle di far fronte con efficacia alle nuove sfide del nostro tempo.

Pure altri organismi a livello continentale o regionale rivestono una grande importanza come strumenti di promozione della pace: è motivo di conforto vederli impegnati a sviluppare meccanismi concreti di riconciliazione, lavorando attivamente per aiutare popolazioni divise dalla guerra a ritrovare le ragioni di una convivenza pacifica e solidale. Sono forme di mediazione che offrono speranza a popoli in situazioni apparentemente senza via di uscita. Non deve essere, poi, sottovalutata l'azione degli organismi locali: inseriti come sono negli ambienti dove i germi del conflitto vengono seminati, essi possono raggiungere gli individui in modo diretto, mediando tra gli opposti schieramenti e promovendo la reciproca fiducia.

La pace duratura, tuttavia, non è solo questione di strutture e di meccanismi. Essa poggia anzitutto sull'adozione di uno stile di convivenza umana improntato alla reciproca accoglienza e capace di perdono cordiale. Tutti abbiamo bisogno di essere perdonati dai nostri fratelli, tutti dobbiamo quindi essere pronti a perdonare. Chiedere e donare perdono è una via profondamente degna dell'uomo; talvolta è l'unica via per uscire da situazioni segnate da odi antichi e violenti.

Certo, il perdono non è per l'uomo qualcosa di spontaneo e di naturale. Perdonare di vero cuore, a volte, può rivelarsi addirittura eroico. Il dolore per la perdita di un figlio, di un fratello, dei propri genitori o dell'intera famiglia a causa della guerra, del terrorismo o di azioni criminali può spingere alla totale chiusura verso l'altro. Coloro ai quali non è rimasto nulla, perché sono stati privati della terra e della casa, i profughi e quanti hanno sopportato l'oltraggio della violenza, non possono non sentire la tentazione dell'odio e della vendetta. Solo il calore di rapporti umani improntati a rispetto, comprensione, accoglienza può aiutarli a superare tali sentimenti. L'esperienza liberante del perdono, benché irta di difficoltà, può essere vissuta anche da un cuore lacerato, grazie al potere risanante dell'amore, che ha la sua prima scaturigine in Dio-Amore.

Verità e giustizia, presupposti del perdono

5. Il perdono, nella sua forma più vera e più alta, è un atto di amore gratuito. Ma proprio in quanto atto di amore, esso ha anche le sue intrinseche esigenze: la prima di esse è il rispetto della verità. Dio soltanto è assoluta verità. Egli, tuttavia, ha aperto il cuore umano al desiderio della verità, che ha poi rivelato in pienezza nel Figlio incarnato. Tutti sono quindi chiamati a vivere la verità. Là dove si seminano menzogna e falsità, fioriscono sospetto e divisione. Anche la corruzione e la manipolazione politica o ideologica sono essenzialmente contrarie alla verità: esse aggrediscono le fondamenta stesse della convivenza civile e minano la possibilità di relazioni sociali pacifiche.

Il perdono, lungi dall'escludere la ricerca della verità, la esige. Il male compiuto dev'essere riconosciuto e, per quanto possibile, riparato. Proprio questa esigenza ha portato a stabilire in varie parti del mondo, a riguardo delle prevaricazioni tra gruppi etnici o nazioni, opportune procedure di accertamento della verità quale primo passo verso la riconciliazione. Inutile sottolineare la grande cautela a cui, in questo pur necessario processo, tutti devono attenersi per non accentuare le contrapposizioni, rendendo la riconciliazione ancora più difficoltosa. Non è raro, poi, il caso di Paesi i cui governanti, in vista del fondamentale bene della pacificazione, hanno concordemente deciso di concedere un'amnistia a quanti hanno pubblicamente riconosciuto i misfatti commessi durante un periodo di turbolenze. L'iniziativa può essere giudicata con favore quale sforzo teso a promuovere l'avvio di buone relazioni tra gruppi un tempo contrapposti.

Altro presupposto essenziale del perdono e della riconciliazione è la giustizia, che ha il suo criterio ultimo nella legge di Dio e nel suo disegno di amore e di misericordia sull'umanità.1 Intesa così, la giustizia non si limita a stabilire ciò che è retto tra le parti in conflitto, ma mira soprattutto a ripristinare relazioni autentiche con Dio, con se stessi, con gli altri. Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione tra perdono e giustizia. Il perdono, infatti, non elimina né diminuisce l'esigenza della riparazione, che è propria della giustizia, ma punta a reintegrare sia le persone e i gruppi nella società, sia gli Stati nella comunità delle Nazioni. Nessuna punizione può mortificare l'inalienabile dignità di chi ha compiuto il male. La porta verso il pentimento e la riabilitazione deve restare sempre aperta.

Gesù Cristo nostra riconciliazione

6. Quante situazioni oggi hanno bisogno di riconciliazione! Di fronte a questa sfida, da cui in buona parte dipende la pace, rivolgo il mio appello a tutti i credenti e, in modo particolare, ai membri della Chiesa cattolica, affinché si dedichino attivamente e concretamente all'opera della riconciliazione.

Il credente sa che la riconciliazione proviene da Dio, il quale è sempre pronto a perdonare quanti si rivolgono a lui e a gettarsi dietro le spalle tutti i loro peccati (cfr Is 38, 17). L'immensità dell'amore di Dio va ben oltre l'umana comprensione, come ricorda la Sacra Scrittura: « Si dimentica forse la donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49, 15).

L'amore divino è il fondamento della riconciliazione, a cui siamo chiamati. « Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazie e di misericordie... Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe » (Sal 103[102], 3-4.10).

Nella sua amorevole disposizione al perdono, Dio è giunto al punto di donare se stesso al mondo nella Persona del Figlio, il quale è venuto a recare la redenzione ad ogni individuo ed all'intera umanità. Di fronte alle offese degli uomini, culminate nella sua condanna alla morte di croce, Gesù prega: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23, 34).

Il perdono di Dio è espressione della sua tenerezza di Padre. Nella parabola evangelica del « figliol prodigo » (cfr Lc 15, 11-32), il padre corre incontro al figlio appena lo vede tornare a casa. Non gli lascia neppure presentare le scuse: tutto è perdonato (cfr Lc 15, 20-22). L'intensa gioia del perdono, offerto ed accolto, guarisce ferite insanabili, ristabilisce nuovamente i rapporti e li radica nell'inesauribile amore di Dio.

In tutta la sua vita Gesù ha proclamato il perdono di Dio, ma insieme ha additato l'esigenza del perdono reciproco come condizione per ottenerlo. Nel « Padre nostro » ci fa pregare così: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6, 12). Con quel « come », Egli pone tra le nostre mani la misura con la quale saremo giudicati da Dio. La parabola del servitore ingrato, punito a causa della sua durezza di cuore nei confronti di un suo simile (cfr Mt 18, 23-35), ci insegna che quanti non sono disposti a perdonare si escludono per ciò stesso dal perdono divino: « Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello » (Mt 18, 35).

Persino la nostra preghiera non può essere accetta al Signore se non è preceduta, e in un certo senso « garantita » nella sua autenticità, dall'iniziativa sincera della riconciliazione con il fratello che ha « qualcosa contro di noi »: soltanto allora ci sarà possibile presentare un'offerta gradita a Dio (cfr Mt 5, 23-24).

Al servizio della riconciliazione

7. Gesù non solo ha insegnato ai suoi discepoli il dovere del perdono, ma ha voluto che la sua Chiesa fosse il segno e lo strumento del suo disegno di riconciliazione, rendendola sacramento « dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano ».2 In forza di tale compito, Paolo qualificava il ministero apostolico come « ministero della riconciliazione » (cfr 2 Cor 5, 18-20). Ma in certo senso ogni battezzato deve sentirsi « ministro della riconciliazione » in quanto, riconciliato con Dio e con i fratelli, è chiamato a costruire la pace con la forza della verità e della giustizia.

Come ho avuto modo di ricordare nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, i cristiani, mentre si apprestano a varcare la soglia di un nuovo millennio, sono invitati a rinnovare il pentimento per « tutte quelle circostanze in cui, nell'arco della storia, si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo ».3

Tra queste un singolare rilievo assumono le divisioni che feriscono l'unità dei cristiani. Preparandoci a celebrare il Grande Giubileo del 2000, dobbiamo cercare insieme il perdono di Cristo, invocando dallo Spirito Santo la grazia della piena unità. « L'unità, in definitiva, è dono dello Spirito Santo. A noi è chiesto di assecondare questo dono senza indulgere a leggerezze e reticenze nella testimonianza della verità ».4 Fissando lo sguardo su Gesù Cristo, nostra riconciliazione, in questo primo anno di preparazione al giubileo compiamo tutto ciò che ci è possibile, mediante la preghiera, la testimonianza e l'azione, per progredire nel cammino verso una maggiore unità. Ciò non mancherà di esercitare un positivo influsso anche sui processi di pacificazione in atto in varie parti del mondo.

Nel giugno del 1997, le Chiese d'Europa terranno a Graz la loro seconda Assemblea Ecumenica Europea sul tema « Riconciliazione, dono di Dio e fonte di nuova vita ». In preparazione a tale incontro, i Presidenti della Conferenza delle Chiese d'Europa e del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee hanno lanciato un comune messaggio chiedendo un rinnovato impegno per la riconciliazione, « dono di Dio per noi e per l'intera creazione ». Essi hanno indicato alcuni dei molteplici compiti che attendono le Comunità ecclesiali: la ricerca di una più visibile unità e l'impegno per la riconciliazione dei popoli. Possa la preghiera di tutti i cristiani sostenere la preparazione di questo incontro nelle Chiese locali e promuovere concreti gesti di riconciliazione in tutto il continente europeo, aprendo altresì la via ad analoghi sforzi in altri continenti.

Nella citata Lettera apostolica ho vivamente auspicato che, in questo itinerario verso il 2000, i cristiani abbiano come costante guida e riferimento le pagine della Sacra Scrittura.5 Un tema quanto mai attuale che guidi questo pellegrinaggio potrebbe essere quello del perdono e della riconciliazione, da meditare e da vivere nelle situazioni concrete di ogni persona e di ogni comunità.

Un appello ad ogni persona di buona volontà

8. Vorrei concludere questo Messaggio, che invio ai credenti e ad ogni persona di buona volontà in occasione della prossima Giornata Mondiale della Pace, con un appello a ciascuno perché si faccia strumento di pace e di riconciliazione.

In primo luogo, mi rivolgo a voi, miei fratelli Vescovi e sacerdoti: siate specchio dell'amore misericordioso di Dio non solo nella comunità ecclesiale, ma anche nell'ambito della società civile, specie dove infuriano lotte nazionalistiche o etniche. Nonostante le eventuali sofferenze da sopportare, non lasciate penetrare l'odio nei vostri cuori, ma annunciate con gioia il Vangelo di Cristo, dispensando il perdono di Dio mediante il sacramento della Riconciliazione.

A voi, genitori, primi educatori della fede dei vostri figli, chiedo di aiutarli a considerare tutti come fratelli e sorelle, andando incontro al prossimo senza pregiudizi, con sentimenti di fiducia e di accoglienza. Siate per i vostri figli riflesso dell'amore e del perdono di Dio, facendo ogni sforzo per costruire una famiglia unita e solidale.

E voi, educatori, chiamati ad insegnare ai giovani gli autentici valori della vita attraverso l'approccio alla complessità della storia e della cultura umana, aiutateli a vivere ad ogni livello le virtù della tolleranza, della comprensione e del rispetto, presentando loro come modelli quanti sono stati artefici di pace e di riconciliazione.

Voi, giovani, che nutrite nel cuore grandi aspirazioni, imparate a vivere insieme gli uni con gli altri in pace, senza frapporre barriere che vi impediscano di condividere le ricchezze di altre culture e di altre tradizioni. Rispondete alla violenza con opere di pace, per costruire un mondo riconciliato e ricco di umanità.

Voi, politici, chiamati a servire il bene comune, non escludete nessuno dalle vostre preoccupazioni, prendendovi cura particolarmente dei settori più deboli della società. Non ponete al primo posto il vantaggio personale cedendo all'esca della corruzione e, soprattutto, affrontate anche le situazioni più difficili con le armi della pace e della riconciliazione.

A voi che operate nel campo dei mass-media chiedo di considerare le grandi responsabilità che la vostra professione comporta e di non offrire mai messaggi improntati all'odio, alla violenza, alla menzogna. Abbiate sempre di mira la verità e il bene della persona, al cui servizio devono essere posti i potenti mezzi di comunicazione.

A tutti voi, infine, che credete in Cristo rivolgo l'invito a camminare fedelmente sulla via del perdono e della riconciliazione, unendovi a Lui nella preghiera al Padre perché tutti siano una cosa sola (cfr Gv 17, 21). Vi esorto, altresì, ad accompagnare questa incessante invocazione di pace con gesti di fraternità e di accoglienza reciproca.

Ad ogni persona di buona volontà, desiderosa di operare instancabilmente all'edificazione della civiltà nuova dell'amore, ripeto: offri il perdono, ricevi la pace!

Dal Vaticano, 8 Dicembre dell'anno 1996.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

DALLA GIUSTIZIA DI CIASCUNO NASCE LA PACE PER TUTTI

1 gennaio 1998

 

1. La giustizia cammina con la pace e sta con essa in relazione costante e dinamica. Giustizia e pace mirano al bene di ciascuno e di tutti, per questo esigono ordine e verità. Quando una è minacciata, entrambe vacillano; quando si offende la giustizia, si mette a repentaglio anche la pace.

Esiste una stretta relazione tra la giustizia di ciascuno e la pace di tutti, ed è per questo che, con il presente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, vorrei rivolgermi anzitutto ai Capi di Stato, avendo ben presente che il mondo di oggi, pur segnato in molte regioni da tensioni, violenze e conflitti, è alla ricerca di nuovi assetti e di più stabili equilibri, in vista di una pace vera e duratura per l'intera umanità.

Giustizia e pace non sono concetti astratti o ideali lontani; sono valori insiti, come patrimonio comune, nel cuore di ogni persona. Individui, famiglie, comunità, nazioni, tutti sono chiamati a vivere nella giustizia e ad operare per la pace. Nessuno può dispensarsi da questa responsabilità.

Il mio pensiero va, in questo momento, sia a quanti si trovano coinvolti, loro malgrado, in dolorosi conflitti, sia agli emarginati, ai poveri, alle vittime di ogni genere di sfruttamento: sono persone che sperimentano nella loro carne l'assenza della pace e gli effetti strazianti dell'ingiustizia. Chi potrebbe restare indifferente di fronte al loro anelito verso una vita radicata nella giustizia e nella pace autentica? È responsabilità di tutti fare in modo che ciò sia loro concesso: giustizia piena non si ha se non quando a tutti è dato di poterne ugualmente usufruire.

La giustizia è, allo stesso tempo, virtù morale e concetto legale. Talvolta la si rappresenta con gli occhi bendati; in realtà, è proprio della giustizia essere attenta e vigile nell'assicurare l'equilibrio tra diritti e doveri, nonché nel promuovere l'equa condivisione dei costi e dei benefici. La giustizia restaura, non distrugge; riconcilia, piuttosto che spingere alla vendetta. La sua ultima radice, a ben guardare, è situata nell'amore, che ha la sua espressione più significativa nella misericordia. La giustizia, pertanto, staccata dall'amore misericordioso, diventa fredda e lacerante.

La giustizia è virtù dinamica e viva: difende e promuove l'inestimabile dignità della persona e si fa carico del bene comune, essendo custode delle relazioni tra le persone ed i popoli. L'uomo non vive da solo, ma fin dal primo momento della sua esistenza è in rapporto con gli altri, così che il bene suo, come individuo, e quello della società procedono di pari passo: tra i due aspetti sussiste un delicato equilibrio.

La giustizia si fonda sul rispetto dei diritti umani

2. La persona è per natura dotata di diritti universali, inviolabili, inalienabili. Questi, tuttavia, non sussistono da soli. Al riguardo, il mio venerato Predecessore, Papa Giovanni XXIII, insegnava che la persona «possiede sia diritti che doveri derivanti immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura». Sul corretto fondamento antropologico di tali diritti e doveri, nonché sulla loro intrinseca correlazione, poggia l'autentico bastione della pace.

Negli ultimi secoli questi diritti umani sono stati formulati in diverse dichiarazioni normative, come pure in strumenti giuridici vincolanti. La loro proclamazione, nella storia di popoli e nazioni alla ricerca di giustizia e di libertà, è ricordata con legittimo orgoglio, anche perché sovente è stata vissuta come un punto di svolta dopo aperte violazioni della dignità di singoli individui e di intere popolazioni.

Cinquant'anni fa, dopo una guerra segnata dalla negazione del diritto persino di esistere per certi popoli, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha promulgato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Si è trattato d'un atto solenne, a cui si è giunti, dopo la triste esperienza della guerra, mossi dalla volontà di riconoscere in maniera formale gli stessi diritti a tutte le persone e a tutti i popoli. In tale documento si legge la seguente affermazione, che ha resistito alla prova del tempo: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Non minore attenzione meritano le parole con cui il documento si chiude: «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati».

È drammatico che, ancora ai nostri giorni, tale disposizione sia palesemente violata mediante l'oppressione, i conflitti, la corruzione o, in modo più subdolo, mediante il tentativo di reinterpretare, magari distorcendone deliberatamente il senso, le stesse definizioni contenute nella Dichiarazione Universale. Essa va osservata integralmente, nello spirito come nella lettera. Essa rimane — come ebbe a dire il Papa Paolo VI di venerata memoria — uno dei più grandi titoli di gloria delle Nazioni Unite, «specialmente quando si pensa all'importanza che le è attribuita come cammino sicuro verso la pace».

In occasione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che si celebra quest'anno, è opportuno ricordare che «la promozione e protezione dei diritti umani è materia di prioritaria importanza per la comunità internazionale». Su questo anniversario pesano, tuttavia, le ombre di alcune riserve manifestate circa due caratteristiche essenziali della nozione stessa di diritti dell'uomo: la loro universalità e la loro indivisibilità. Tali tratti distintivi vanno riaffermati vigorosamente per respingere le critiche di chi tenta di sfruttare l'argomento della specificità culturale per coprire violazioni dei diritti umani, come di chi impoverisce il concetto di dignità umana negando consistenza giuridica ai diritti economici, sociali e culturali. Universalità e indivisibilità sono due principi guida che postulano comunque l'esigenza di radicare i diritti umani nelle diverse culture, nonché di approfondire il loro profilo giuridico per assicurarne il pieno rispetto.

Il rispetto dei diritti umani non comporta solo la loro protezione sul piano giuridico, ma deve tener conto di tutti gli aspetti scaturenti dalla nozione di dignità umana, che è alla base di ogni diritto. In tale prospettiva assume grande rilevanza un'adeguata attenzione alla dimensione educativa. Inoltre, è importante considerare anche la promozione dei diritti umani: questa è frutto dell'amore per la persona come tale, giacché «l'amore va oltre quanto è in grado di assicurare la semplice giustizia». Nell'ambito di tale promozione, in particolare, dovranno essere compiuti ulteriori sforzi per proteggere i diritti della famiglia, che è «l'elemento naturale e fondamentale della società».

Globalizzazione nella solidarietà

3. I vasti mutamenti geo-politici succedutisi dopo il 1989 sono stati accompagnati da vere rivoluzioni nel campo sociale ed economico. La globalizzazione dell'economia e della finanza è ormai una realtà e sempre più chiaramente si vanno raccogliendo gli effetti dei rapidi progressi legati alle tecnologie informatiche. Siamo alle soglie di una nuova era, che porta con sé grandi speranze ed inquietanti interrogativi. Quali saranno le conseguenze dei cambiamenti in atto? Potranno tutti trarre vantaggio da un mercato globale? Avranno finalmente tutti la possibilità di godere della pace? Le relazioni tra gli Stati saranno più eque, oppure le competizioni economiche e le rivalità tra popoli e nazioni condurranno l'umanità verso una situazione di instabilità ancora maggiore?

Per una società più equa, per una pace più stabile in un mondo in cammino sulla strada della globalizzazione, è compito urgente delle organizzazioni internazionali contribuire a promuovere il senso di responsabilità per il bene comune. Ma per giungere a ciò è necessario non perdere mai di vista la persona umana, che deve essere posta al centro di ogni progetto sociale. Solo così le Nazioni Unite possono diventare una vera «famiglia di Nazioni», secondo il loro originario mandato di «promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà». È questa la strada per costruire una Comunità mondiale basata sulla «fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero». La sfida insomma è quella di assicurare una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione. Ecco un evidente dovere di giustizia, che comporta notevoli implicazioni morali nell'organizzazione della vita economica, sociale, culturale e politica delle Nazioni.

Il pesante fardello del debito estero

4. Nazioni ed intere regioni del mondo, a causa del loro fragile potenziale finanziario o economico, rischiano di essere escluse da un'economia che si globalizza. Altre hanno maggiori risorse, ma non possono purtroppo trarne vantaggio per diversi motivi: disordini, conflitti interni, mancanza di strutture adeguate, degrado ambientale, diffusa corruzione, criminalità ed altre ragioni ancora. La globalizzazione va coniugata con la solidarietà. Si devono, pertanto, stanziare aiuti speciali, grazie ai quali Paesi che, con le sole loro forze, non sono in grado di entrare con successo nel mercato globale, possano superare la loro attuale situazione di svantaggio. È cosa che si deve ad essi per giustizia. In un'autentica «famiglia di Nazioni», nessuno può essere escluso; al contrario, è il più debole, il più fragile che va sostenuto, perché possa sviluppare appieno le proprie potenzialità.

Il mio pensiero va qui ad una delle maggiori difficoltà a cui le Nazioni più povere devono oggi far fronte. Intendo riferirmi al pesante fardello del debito estero, che compromette le economie di Popoli interi, frenando il loro progresso sociale e politico. Al riguardo, recenti iniziative delle istituzioni finanziarie internazionali hanno posto in essere un importante tentativo di coordinata riduzione di tale debito. Auspico di cuore che si continui ad avanzare su questo cammino, applicando con flessibilità le condizioni previste, in modo che tutte le Nazioni aventi diritto possano trarne vantaggio prima dell'anno 2000. Molto potranno fare in tal senso i Paesi più ricchi, offrendo il loro sostegno nell'attuazione delle iniziative menzionate.

La questione del debito fa parte di un problema più vasto: quello del persistere della povertà, talvolta anche estrema, e dell'emergere di nuove disuguaglianze che accompagnano il processo di globalizzazione. Se l'obiettivo è una globalizzazione senza marginalizzazione, non si può più tollerare un mondo in cui vivono a fianco a fianco straricchi e miserabili, nullatenenti privi persino dell'essenziale e gente che sciupa senza ritegno ciò di cui altri hanno disperato bisogno. Simili contrasti sono un affronto alla dignità della persona umana. Non mancano certo mezzi adeguati per eliminare la miseria, quali la promozione di consistenti investimenti sociali e produttivi da parte di tutte le istanze economiche mondiali. Ciò tuttavia suppone che la Comunità internazionale intenda agire con la necessaria determinazione politica. Passi lodevoli in questa direzione sono già stati fatti, ma una soluzione duratura richiede lo sforzo concertato di tutti, incluso quello degli stessi Stati interessati.

Urge una cultura della legalità

5. E che dire delle gravi ineguaglianze esistenti all'interno delle Nazioni? Situazioni di povertà estrema, dovunque si manifestino, costituiscono la prima ingiustizia. Eliminarle deve rappresentare per tutti una priorità sia a livello nazionale che internazionale.

Non si può, poi, sottacere il vizio della corruzione, che mina lo sviluppo sociale e politico di tanti popoli. È un fenomeno crescente, che si insinua insidiosamente in molti settori della società, beffandosi della legge ed ignorando le norme di giustizia e di verità. La corruzione è difficile da contrastare, perché assume molteplici forme: soffocata in un'area, rinasce talora in un'altra. Occorre coraggio anche solo per denunciarla. Per stroncarla poi si richiede, insieme con la volontà tenace delle Autorità, il sostegno generoso di tutti i cittadini, sorretti da una forte coscienza morale.

Una grande responsabilità in questa battaglia ricade sulle persone che hanno cariche pubbliche. È loro compito impegnarsi per l'equa applicazione della legge e la trasparenza in tutti gli atti della pubblica amministrazione. Posto al servizio dei cittadini, lo Stato è il gestore dei beni del popolo, che deve amministrare in vista del bene comune. Il buon governo richiede il controllo puntuale e la piena correttezza di tutte le transazioni economiche e finanziarie. In nessuna maniera si può permettere che le risorse destinate al bene pubblico servano ad altri interessi di carattere privato o addirittura criminoso.

L'uso fraudolento del denaro pubblico penalizza soprattutto i poveri, che sono i primi a subire la privazione dei servizi di base indispensabili per lo sviluppo della persona. Quando poi la corruzione si infiltra nell'amministrazione della giustizia, sono ancora i poveri a portarne più pesantemente le conseguenze: ritardi, inefficienze, carenze strutturali, assenza di un'adeguata difesa. Sovente ad essi non resta altra via che subire il sopruso.

Forme di ingiustizia particolarmente gravi

6. Vi sono altre forme di ingiustizia che mettono a rischio la pace. Desidero ricordarne qui due: innanzitutto l'assenza di mezzi per accedere equamente al credito. I poveri sono tante volte costretti a restare fuori dai normali circuiti economici o a mettersi nelle mani di trafficanti di denaro senza scrupoli che esigono interessi esorbitanti, con il risultato finale del peggioramento di una situazione già di per sé precaria. Per questo, è dovere di tutti impegnarsi perché ad essi sia reso possibile l'accesso al credito in termini equi e con interessi favorevoli. Per la verità, in diverse parti del mondo già esistono istituzioni finanziarie che praticano il micro-credito a condizioni di favore per chi ne ha bisogno. Sono iniziative da incoraggiare, perché è su questa strada che si può giungere a stroncare alle radici la vergognosa piaga dell'usura, facendo in modo che i mezzi economici necessari per lo sviluppo dignitoso delle famiglie e delle comunità siano accessibili a tutti.

E che dire dell'aumento della violenza nei confronti delle donne, delle bambine e dei bambini? Oggi è una delle più diffuse violazioni dei diritti umani, divenuta tragicamente uno strumento di terrore: donne prese in ostaggio, minori barbaramente massacrati. A ciò si aggiunge la violenza della prostituzione forzata e della pornografia infantile, come pure dello sfruttamento lavorativo dei minori in condizioni di vera schiavitù. Per contribuire a fermare il dilagare di queste forme di violenza occorrono concrete iniziative, in particolare misure legali appropriate a livello sia nazionali che internazionale. S'impone altresì un arduo lavoro educativo e di promozione culturale, affinché, come sovente ho ricordato in precedenti Messaggi, si riconosca e si rispetti la dignità d'ogni persona. Una componente, infatti, non può assolutamente mancare nel patrimonio etico-culturale dell'intera umanità e di ogni singola persona: la consapevolezza che gli esseri umani sono tutti uguali in dignità, meritano il medesimo rispetto e sono soggetti degli stessi diritti e doveri.

Edificare la pace nella giustizia è impegno di tutti e di ciascuno

7. La pace per tutti nasce dalla giustizia di ciascuno. Nessuno può sottrarsi ad un impegno di così decisiva importanza per l'umanità. Esso chiama in causa ogni uomo ed ogni donna, secondo le proprie competenze e responsabilità.

Faccio appello innanzitutto a voi, Capi di Stato e Responsabili delle Nazioni, ai quali è affidata la suprema vigilanza sullo stato di diritto nei rispettivi Paesi. Assolvere a tale alto incarico è certamente non facile, ma costituisce uno dei vostri compiti prioritari. Possano gli ordinamenti degli Stati a cui servite costituire per le popolazioni garanzia di giustizia e stimolo ad una costante crescita della coscienza civile.

Costruire la pace nella giustizia esige, inoltre, l'apporto di ogni categoria sociale, ciascuna nel proprio ambito ed in sinergia con le altre componenti della comunità. In particolare, incoraggio voi, insegnanti, impegnati a tutti i livelli nell'istruzione e nell'educazione delle nuove generazioni: formatele ai valori morali e civili, instillando in esse uno spiccato senso dei diritti e dei doveri, a partire dall'ambito stesso della comunità scolastica. Educare alla giustizia per educare alla pace: questo è uno dei vostri compiti primari.

Nel cammino educativo è insostituibile la famiglia, che rimane l'ambiente privilegiato per la formazione umana delle nuove generazioni. Dal vostro esempio, cari genitori, dipende in gran parte la fisionomia morale dei vostri figli: essi la assimilano dallo stile di rapporti che voi impostate all'interno ed all'esterno del nucleo familiare. La famiglia è la prima scuola di vita e l'impronta ricevuta in essa è decisiva per i futuri sviluppi della persona.

A voi infine, giovani del mondo intero, che spontaneamente aspirate alla giustizia ed alla pace, dico: tenete sempre viva la tensione verso questi ideali, ed abbiate la pazienza e la tenacia di perseguirli nelle concrete condizioni in cui vi trovate a vivere. Siate pronti a respingere le tentazioni di scorciatoie illegali verso falsi miraggi di successo o di ricchezza; abbiate invece il gusto di ciò che è giusto e vero, anche quando attenersi a questa linea richiede sacrificio ed impegna ad andare controcorrente. È in questo modo che «dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti».

Condivisione, via della pace

8. S'avvicina a grandi passi il Giubileo dell'Anno 2000, un tempo per i credenti dedicato in modo speciale a Dio, Signore della Storia, un richiamo per tutti circa la radicale dipendenza della creatura dal Creatore. Ma nella tradizione della Bibbia, esso era anche il tempo della liberazione degli schiavi, della restituzione della terra al legittimo proprietario, del condono dei debiti e della conseguente restaurazione di forme di uguaglianza tra tutti i membri del popolo. È pertanto un tempo privilegiato per perseguire quella giustizia che conduce alla pace.

In forza della fede in Dio-amore e della partecipazione all'universale redenzione di Cristo, i cristiani sono chiamati a comportarsi secondo giustizia e a vivere in pace con tutti, perché «Gesù non ci ha dato semplicemente la pace. Ci ha dato la sua pace, accompagnata dalla sua giustizia. Poiché Egli è pace e giustizia, può divenire nostra pace e nostra giustizia». Ho pronunciato queste parole quasi vent'anni fa, ma nell'orizzonte dei cambiamenti radicali in atto, esse acquistano ora un senso ancora più concreto e vivo.

Un segno distintivo del cristiano, oggi più che mai, deve essere l'amore per i poveri, i deboli, i sofferenti. Vivere questo impegno esigente richiede un totale ribaltamento di quei presunti valori che inducono a ricercare il bene soltanto per se stessi: il potere, il piacere, l'arricchimento senza scrupoli. Sì, proprio a questa radicale conversione sono chiamati i discepoli di Cristo. Quanti si impegnano a seguire questa via, sperimenteranno veramente «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14, 17), ed assaporeranno «un frutto di pace e di giustizia» (Eb 12, 11).

Desidero riproporre ai cristiani di ogni continente l'ammonimento del Concilio Vaticano II: «Siano anzitutto soddisfatti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che già è dovuto a titolo di giustizia». Una società autenticamente solidale si costruisce grazie al fatto che quanti hanno beni non si limitano ad attingere, per aiutare i poveri, soltanto dal loro superfluo. Offrire beni materiali, inoltre, non è sufficiente: occorre spirito di condivisione, così da sentire come un titolo d'onore la possibilità di dedicare le proprie cure ed attenzioni alle necessità dei fratelli in difficoltà. Si avverte oggi, da parte sia dei cristiani che dei seguaci di altre religioni e di tanti uomini e donne di buona volontà, il richiamo ad uno stile di vita semplice come condizione perché l'equa condivisione dei frutti della creazione di Dio possa diventare realtà. Chi vive nella miseria non può attendere oltre: ha bisogno ora ed ha perciò diritto di ricevere subito il necessario.

Lo Spirito Santo all'opera nel mondo

9. È iniziato, con la prima domenica di Avvento, il secondo anno di preparazione immediata al Grande Giubileo del 2000, dedicato allo Spirito Santo. Lo Spirito della speranza è all'opera nel mondo. È presente nel servizio disinteressato di chi lavora accanto agli emarginati ed ai sofferenti, di chi accoglie gli immigrati ed i rifugiati, di chi con coraggio rifiuta di respingere una persona o un intero gruppo per motivi etnici, culturali e religiosi; è presente, in particolare, nell'azione generosa di quanti con pazienza e costanza continuano a promuovere la pace e la riconciliazione tra coloro che erano un tempo avversari e nemici. Ecco, sono questi altrettanti segni di speranza che incoraggiano a ricercare la giustizia che conduce alla pace.

Il cuore del messaggio evangelico è Cristo, pace e riconciliazione per tutti. Possa il suo volto illuminare il cammino dell'umanità, che si appresta a varcare la soglia del terzo millennio.

Diventino doni per tutti, senza distinzione alcuna, la sua giustizia e la sua pace!
«Allora il deserto diventerà un giardino
e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto
e la giustizia regnerà nel giardino.
Effetto della giustizia sarà la pace,
frutto del diritto
una perenne sicurezza» (Is, 32, 15-17).

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1997.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NEL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI IL SEGRETO DELLA PACE VERA

1 gennaio 1999

 

1. Nella prima Enciclica Redemptor hominis, che ho rivolto quasi vent'anni fa a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, già sottolineavo l'importanza del rispetto dei diritti umani. La pace fiorisce quando tali diritti vengono osservati integralmente, mentre la guerra nasce dalla loro violazione e diventa poi causa di ulteriori violazioni anche più gravi.(1)

Alle porte di un nuovo anno, l'ultimo prima del Grande Giubileo, vorrei soffermarmi ancora una volta su questo tema di capitale importanza con tutti voi, uomini e donne di ogni parte del mondo, con voi, responsabili politici e guide religiose dei popoli, con voi, che amate la pace e volete consolidarla nel mondo.

Ecco la convinzione che, in vista della Giornata Mondiale della Pace, mi sta a cuore condividere con voi: quando la promozione della dignità della persona è il principio-guida a cui ci si ispira, quando la ricerca del bene comune costituisce l'impegno predominante, allora vengono posti solidi e durevoli fondamenti all'edificazione della pace. Quando invece i diritti umani sono ignorati o disprezzati, quando il perseguimento di interessi particolari prevale ingiustamente sul bene comune, allora vengono inevitabilmente seminati i germi dell'instabilità, della ribellione e della violenza.

Rispetto della dignità umana, patrimonio dell'umanità

2. La dignità della persona umana è un valore trascendente, sempre riconosciuto come tale da quanti si sono posti alla sincera ricerca della verità. L'intera storia dell'umanità, in realtà, va interpretata alla luce di questa certezza. Ogni persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1, 26-28) e, pertanto, radicalmente orientata verso il suo Creatore, è in costante relazione con quanti sono rivestiti della medesima dignità. La promozione del bene dell'individuo si coniuga così con il servizio al bene comune, là dove i diritti e i doveri si corrispondono e si rafforzano a vicenda.

La storia contemporanea ha evidenziato in modo tragico il pericolo che deriva dal dimenticare la verità sulla persona umana. Sono dinanzi ai nostri occhi i frutti di ideologie quali il marxismo, il nazismo, il fascismo, o anche di miti quali la superiorità razziale, il nazionalismo e il particolarismo etnico. Non meno perniciosi, anche se non sempre così evidenti, sono gli effetti del consumismo materialistico, nel quale l'esaltazione dell'individuo e il soddisfacimento egocentrico delle aspirazioni personali diventano lo scopo ultimo della vita. In questa ottica, le conseguenze negative sugli altri sono ritenute del tutto irrilevanti. Occorre ribadire, invece, che nessun affronto alla dignità umana può essere ignorato, qualunque ne sia la sorgente, la forma di fatto assunta, il luogo dove accade.

Universalità e indivisibilità dei diritti umani

3. Il 1998 ha segnato il 50° anniversario dell'adozione della « Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo ». Essa fu deliberatamente collegata con la Carta delle Nazioni Unite, con cui condivide una comune ispirazione. La Dichiarazione ha come premessa basilare l'affermazione secondo cui il riconoscimento dell'innata dignità di tutti i membri della famiglia umana, come pure dell'uguaglianza ed inalienabilità dei loro diritti, è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.(2) Tutti i successivi documenti internazionali sui diritti umani ribadiscono questa verità, riconoscendo ed affermando che essi derivano dalla dignità e dal valore inerenti alla persona umana.(3)

La Dichiarazione Universale è chiara: riconosce i diritti che proclama, non li conferisce; essi, infatti, sono inerenti alla persona umana ed alla sua dignità. Conseguenza di ciò è che nessuno può legittimamente privare di questi diritti un suo simile, chiunque egli sia, perché ciò significherebbe fare violenza alla sua natura. Tutti gli esseri umani, senza eccezione, sono eguali in dignità. Per la stessa ragione, tali diritti riguardano tutte le fasi della vita e ogni contesto politico, sociale, economico o culturale. Essi formano un insieme unitario, orientato decisamente alla promozione di ogni aspetto del bene della persona e della società.

I diritti umani vengono tradizionalmente raggruppati in due ampie categorie comprendenti, da una parte, i diritti civili e politici e, dall'altra, quelli economici, sociali e culturali. Accordi internazionali garantiscono, anche se in grado diverso, ambedue le categorie; i diritti umani, infatti, sono strettamente intrecciati tra loro, essendo espressione di dimensioni diverse dell'unico soggetto, che è la persona. La promozione integrale di tutte le categorie dei diritti umani è la vera garanzia del pieno rispetto di ogni singolo diritto.

La difesa dell'universalità e dell'indivisibilità dei diritti umani è essenziale per la costruzione di una società pacifica e per lo sviluppo integrale di individui, popoli e nazioni. L'affermazione di questa universalità e indivisibilità non esclude, di fatto, legittime differenze di ordine culturale e politico nell'attuazione dei singoli diritti, purché risultino rispettati in ogni caso i livelli fissati dalla Dichiarazione Universale per l'intera umanità.

Avendo ben presenti questi presupposti fondamentali, vorrei ora porre in evidenza alcuni specifici diritti, che appaiono oggi particolarmente esposti a più o meno aperte violazioni.

Il diritto alla vita

4. Primo fra questi è il fondamentale diritto alla vita. La vita umana è sacra ed inviolabile dal suo concepimento al suo naturale tramonto. « Non uccidere » è il comandamento divino che segna un estremo limite oltre al quale non è mai lecito andare. « L'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale ».(4)

Il diritto alla vita è inviolabile. Ciò implica una scelta positiva, una scelta per la vita. Lo sviluppo di una cultura orientata in questo senso si estende a tutte le circostanze dell'esistenza ed assicura la promozione della dignità umana in ogni situazione. Una vera cultura della vita, come garantisce il diritto di venire al mondo a chi non è ancora nato, così protegge i neonati, particolarmente le bambine, dal crimine dell'infanticidio. Ugualmente, essa assicura ai portatori di handicap lo sviluppo delle loro potenzialità, e ai malati e agli anziani cure adeguate.

Dai recenti sviluppi nel campo dell'ingegneria genetica emerge una sfida che suscita profonde inquietudini. Perché la ricerca scientifica in questo ambito sia al servizio della persona, occorre che l'accompagni ad ogni stadio l'attenta riflessione etica, che ispiri adeguate norme giuridiche a salvaguardia dell'integrità della vita umana. Mai la vita può essere degradata ad oggetto.

Scegliere la vita comporta il rigetto di ogni forma di violenza: quella della povertà e della fame, che colpisce tanti esseri umani; quella dei conflitti armati; quella della diffusione criminale delle droghe e del traffico delle armi; quella degli sconsiderati danneggiamenti dell'ambiente naturale.(5) In ogni circostanza, il diritto alla vita dev'essere promosso e tutelato con le opportune garanzie legali e politiche, poiché nessuna offesa contro il diritto alla vita, contro la dignità di ogni singola persona, è irrilevante.

La libertà religiosa, cuore dei diritti umani

5. La religione esprime le aspirazioni più profonde della persona umana, ne determina la visione del mondo, ne guida il rapporto con gli altri: offre, in fondo, la risposta alla questione del vero significato dell'esistenza nell'ambito sia personale che sociale. La libertà religiosa costituisce, pertanto, il cuore stesso dei diritti umani. Essa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda. Ciascuno, infatti, è tenuto a seguire la propria coscienza in ogni circostanza e non può essere costretto ad agire in contrasto con essa.(6) Proprio per questo, nessuno può essere obbligato ad accettare per forza una determinata religione, quali che siano le circostanze o le motivazioni.

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo riconosce che il diritto alla libertà religiosa include quello di manifestare le proprie credenze sia individualmente sia con altri, in pubblico o in privato.(7) Nonostante questo, esistono tutt'oggi luoghi in cui il diritto di riunirsi per motivi di culto o non è riconosciuto o è limitato ai membri di una sola religione. Questa grave violazione di uno dei fondamentali diritti della persona è causa di enormi sofferenze per i credenti. Quando uno Stato concede uno statuto speciale ad una religione, ciò non può avvenire a detrimento delle altre. E' noto invece che vi sono nazioni in cui individui, famiglie ed interi gruppi continuano ad essere discriminati e marginalizzati a causa del loro credo religioso.

Né va sottaciuto un altro problema indirettamente collegato con la libertà religiosa. Talvolta, comunità o popoli di convinzioni e culture religiose diverse maturano tra loro tensioni crescenti che, a ragione delle forti passioni coinvolte, finiscono per trasformarsi in violenti conflitti. Il ricorso alla violenza in nome del proprio credo religioso costituisce una deformazione degli insegnamenti stessi delle maggiori religioni. Come tante volte vari esponenti religiosi hanno ripetuto, anch'io ribadisco che l'uso della violenza non può mai trovare fondate giustificazioni religiose né promuovere la crescita dell'autentico sentimento religioso.

Il diritto di partecipare

6. Ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita della propria Comunità: è convinzione, questa, oggi generalmente condivisa. Questo diritto, tuttavia, viene vanificato quando il processo democratico è svuotato della sua efficacia attraverso favoritismi e fenomeni di corruzione, che non soltanto impediscono la legittima partecipazione alla gestione del potere, ma ostacolano lo stesso accesso ad un'equa fruizione dei beni e dei servizi comuni. Persino le elezioni possono venire manipolate al fine di assicurare la vittoria di certi partiti o persone. Si tratta di un affronto alla democrazia che comporta serie conseguenze, poiché i cittadini, oltre al diritto, hanno anche la responsabilità di partecipare: quando ne vengono impediti, perdono la speranza di poter intervenire efficacemente e si abbandonano ad un atteggiamento di passivo disimpegno. Lo sviluppo di un sano sistema democratico diviene così praticamente impossibile.

Di recente sono state adottate diverse misure per assicurare legittime elezioni in Stati che con difficoltà cercano di passare da una forma di totalitarismo ad un regime democratico. Per quanto utili ed efficaci in situazioni di emergenza, queste iniziative non possono, tuttavia, dispensare dallo sforzo che comporta la creazione nei cittadini di una piattaforma di convincimenti condivisi, grazie ai quali la manipolazione del processo democratico venga definitivamente rifiutata.

Nell'ambito della comunità internazionale, nazioni e popoli hanno il diritto di partecipare alle decisioni che spesso modificano profondamente il loro modo di vivere. La specificità tecnica di certi problemi economici provoca la tendenza a limitarne la discussione a circoli ristretti, con il conseguente pericolo di concentrazioni del potere politico e finanziario in un numero limitato di governi o di gruppi di interesse. La ricerca del bene comune nazionale e internazionale esige una fattiva attuazione, anche in campo economico, del diritto di tutti a partecipare alle decisioni che li concernono.

Una forma particolarmente grave di discriminazione

7. Una delle forme più drammatiche di discriminazione consiste nel negare a gruppi etnici e minoranze nazionali il fondamentale diritto ad esistere come tali. Ciò viene attuato attraverso la loro soppressione o il brutale trasferimento, o anche il tentativo di indebolirne l'identità etnica così da renderli non più identificabili. Si può rimanere in silenzio di fronte a così gravi crimini contro l'umanità? Nessuno sforzo deve essere considerato eccessivo, quando si tratta di porre termine a simili aberrazioni, indegne della persona umana.

Segno positivo della crescente volontà degli Stati di riconoscere la propria responsabilità nella protezione delle vittime di simili crimini e nell'impegno di prevenirli è la recente iniziativa di una Conferenza Diplomatica delle Nazioni Unite: con specifica deliberazione, essa ha approvato lo Statuto di una Corte Penale Internazionale, destinata ad individuare le colpe e a punire i responsabili di crimini di genocidio, di crimini contro l'umanità, di crimini di guerra e di aggressione. Questa nuova istituzione, se costituita su buone basi giuridiche, potrebbe contribuire progressivamente ad assicurare su scala mondiale l'efficace tutela dei diritti umani.

Il diritto alla propria realizzazione

8. Ogni essere umano possiede native capacità che attendono di essere sviluppate. Ne va della piena realizzazione della sua personalità ed anche del conveniente inserimento nel contesto sociale del proprio ambiente. Per questo è innanzitutto necessario provvedere all'adeguata educazione di quanti s'affacciano alla ribalta della vita: da ciò dipende la loro futura riuscita.

Da questo punto di vista, come non preoccuparsi vedendo che in alcune regioni tra le più povere del mondo le opportunità di formazione vanno in realtà diminuendo, specialmente per quanto concerne l'istruzione primaria? Ciò è dovuto a volte alla situazione economica del Paese, che non permette di corrispondere il salario agli insegnanti. In altri casi, il denaro sembra disponibile per progetti di prestigio o per l'educazione secondaria, ma non per quella primaria. Quando si limitano le opportunità formative, specialmente per le bambine, si predispongono strutture di discriminazione capaci di incidere sull'intero sviluppo della società. Il mondo finirebbe per risultare diviso secondo un nuovo criterio: da una parte, Stati e individui dotati di tecnologie avanzate, e dall'altra Paesi e persone con conoscenze e abilità estremamente limitate. Come è facile intuire, questo non farebbe che rafforzare le già acute disparità economiche esistenti non solo tra gli Stati, ma anche al loro stesso interno. Educazione e formazione professionale devono essere in prima linea sia nei piani dei Paesi in via di sviluppo che nei programmi di rinnovamento urbano e rurale dei popoli economicamente più avanzati.

Un altro fondamentale diritto, dal cui soddisfacimento dipende il conseguimento di un degno livello di vita, è quello al lavoro. Come provvedere altrimenti al cibo, agli indumenti, alla casa, all'assistenza medica e alle tante altre necessità della vita? La mancanza di lavoro è oggi, però, un grave problema: innumerevoli sono le persone che in tante parti del mondo si trovano coinvolte nel devastante fenomeno della disoccupazione. E necessario ed urgente da parte di tutti e, in particolare, da parte di chi ha nelle mani le leve del potere politico o economico, fare quanto è possibile per porre rimedio ad una situazione tanto penosa. Non ci si può limitare a pur doverosi interventi di emergenza in caso di disoccupazione, malattia o simili circostanze che sfuggono al controllo del singolo individuo,(8) ma ci si deve adoperare perché i disoccupati siano messi in grado di assumersi la responsabilità delle loro proprie esistenze, emancipandosi da un regime di umiliante assistenzialismo.

Progresso globale nella solidarietà

9. La rapida corsa verso la globalizzazione dei sistemi economici e finanziari rende, a sua volta, chiara l'urgenza di stabilire chi deve garantire il bene comune globale e l'attuazione dei diritti economici e sociali. Il libero mercato da solo non può farlo, dato che, in realtà, esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. « Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia che le sono proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità ».(9)

Gli effetti delle recenti crisi economiche e finanziarie hanno avuto pesanti ricadute su innumerevoli persone, ridotte in condizioni di povertà estrema. Molte di loro erano giunte soltanto da poco ad una situazione che giustificava confortanti speranze per il futuro. Senza alcuna loro responsabilità, esse hanno visto tali speranze crudelmente infrante con tragiche conseguenze per se stessi e per i propri figli. E come ignorare gli effetti delle fluttuazioni dei mercati finanziari? Urge una nuova visione di progresso globale nella solidarietà, che preveda uno sviluppo integrale e sostenibile della società, tale da consentire ad ogni suo membro di realizzare le proprie potenzialità.

In questo contesto, rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità nei rapporti finanziari a livello mondiale, perché prendano a cuore la soluzione del preoccupante problema del debito internazionale delle nazioni più povere. Istituzioni finanziarie internazionali hanno avviato, a questo riguardo, un'iniziativa concreta degna di apprezzamento. Faccio appello a quanti sono coinvolti in questo problema, specialmente alle nazioni più ricche, perché forniscano il supporto necessario per assicurare all'iniziativa pieno successo. Si richiede uno sforzo tempestivo e vigoroso per consentire al maggior numero possibile di Paesi, in vista dell'anno 2000, di uscire da una ormai insostenibile situazione. Il dialogo tra le istituzioni interessate, se animato da volontà d'intesa, condurrà, ne sono certo, ad una soddisfacente e definitiva soluzione. In tal modo, per le Nazioni più disagiate si renderà possibile uno sviluppo durevole ed il millennio che ci sta dinanzi diventerà anche per esse un tempo di rinnovata speranza.

Responsabilità nei confronti dell'ambiente

10. Con la promozione della dignità umana si coniuga il diritto ad un ambiente sano, poiché esso pone in evidenza la dinamica dei rapporti tra individuo e società. Un insieme di norme internazionali, regionali e nazionali sull'ambiente sta dando gradualmente forma giuridica a tale diritto. Le misure giuridiche, tuttavia, non bastano da sole. Il pericolo di danni gravi alla terra e al mare, al clima, alla flora ed alla fauna, richiede un cambiamento profondo nello stile di vita tipico della moderna civiltà dei consumi, particolarmente nei Paesi più ricchi. Né va sottovalutato un altro rischio, anche se meno drastico: spinti dalla necessità, quanti vivono miseramente nelle aree rurali possono giungere a sfruttare oltre il limite la poca terra di cui dispongono. Va pertanto favorita una formazione specifica che insegni loro come armonizzare la coltivazione della terra con il rispetto dell'ambiente.

Il presente ed il futuro del mondo dipendono dalla salvaguardia del creato, perché esiste una costante interazione tra la persona umana e la natura. Porre il bene dell'essere umano al centro dell'attenzione per l'ambiente è, in realtà, la maniera più sicura per salvaguardare la creazione; in tal modo, infatti, viene stimolata la responsabilità di ciascuno nei confronti delle risorse naturali e del loro giudizioso utilizzo.

Il diritto alla pace

11. La promozione del diritto alla pace assicura in certo modo il rispetto di tutti gli altri diritti, poiché favorisce la costruzione di una società all'interno della quale ai rapporti di forza subentrano rapporti di collaborazione, in vista del bene comune. L'attualità prova ampiamente il fallimento del ricorso alla violenza come mezzo per risolvere i problemi politici e sociali. La guerra distrugge, non edifica; svigorisce i fondamenti morali della società e crea ulteriori divisioni e durevoli tensioni. Eppure la cronaca continua a registrare guerre e conflitti armati con vittime senza numero. Quante volte i miei Predecessori e io stesso abbiamo invocato la fine di questi orrori! Continuerò a farlo fino a quando non si comprenderà che la guerra è il fallimento di ogni autentico umanesimo.(10)

Grazie a Dio, non sono pochi i passi compiuti in alcune regioni verso il consolidamento della pace. Grande merito va riconosciuto a quei politici coraggiosi che hanno l'audacia di proseguire il negoziato anche quando la situazione sembra renderlo impossibile. Al tempo stesso, però, come non denunciare i massacri che proseguono in altre regioni, con lo sradicamento di interi popoli dalle loro terre e la distruzione di case e raccolti? Dinanzi alle vittime ormai senza numero, mi rivolgo ai responsabili delle nazioni ed agli uomini di buona volontà, affinché si muovano in soccorso di quanti sono coinvolti, specialmente in Africa, in atroci conflitti, ispirati talvolta da interessi economici esterni, e li aiutino a porvi fine. Un passo concreto in tal senso è sicuramente l'abolizione del traffico di armi verso i Paesi in guerra e il sostegno ai responsabili di quei popoli nel ricercare la via del dialogo. Questa è la via degna dell'uomo, questa è la via della pace!

Il mio pensiero accorato va a chi vive e cresce in un contesto di guerra, a chi non ha conosciuto altro che conflitti e violenze. Quanti sopravvivono porteranno per il resto dei loro anni le ferite di una simile terribile esperienza. E che dire dei soldati bambini? Si può mai accettare che si rovinino così esistenze appena sbocciate? Addestrati ad uccidere e spesso spinti a farlo, questi bambini non potranno non avere gravi problemi nel loro successivo inserimento nella società civile. Si interrompe la loro educazione e si mortificano le loro capacità di lavoro: quali conseguenze per il loro futuro! I bambini hanno bisogno di pace; ne hanno il diritto.

Al ricordo di questi bambini vorrei unire quello dei fanciulli vittime delle mine antiuomo e di altri ordigni di guerra. Nonostante gli sforzi già compiuti per lo sminamento, si assiste ora ad un incredibile e inumano paradosso: disattendendo la volontà chiaramente espressa da governi e popoli di porre termine definitivamente all'uso di un'arma così perfida, non si è smesso di seminare altre mine anche in luoghi già bonificati.

Germi di guerra vengono pure diffusi dalla proliferazione massiccia e incontrollata di armi piccole e leggere che, a quanto pare, passano liberamente da un'area di conflitto ad un'altra, alimentando violenza lungo il loro tragitto. Tocca ai governi adottare misure appropriate per il controllo circa la produzione, la vendita, l'importazione e l'esportazione di questi strumenti di morte. Solo in questo modo è possibile affrontare efficacemente nel suo insieme il problema del massiccio traffico illecito di armi.

Una cultura dei diritti umani, responsabilità di tutti

12. Non è possibile in questa sede allargare ulteriormente il discorso. Vorrei, però, sottolineare che nessun diritto umano è sicuro, se non ci si impegna a tutelarli tutti. Quando si accetta senza reagire la violazione di uno qualsiasi dei diritti umani fondamentali, si pongono a rischio tutti gli altri. E indispensabile, pertanto, un approccio globale al tema dei diritti umani e un serio impegno a loro difesa. Solo quando una cultura dei diritti umani, rispettosa delle diverse tradizioni, diventa parte integrante del patrimonio morale dell'umanità, si può guardare con serena fiducia al futuro.

E, in effetti, come potrebbe esservi guerra, se ogni diritto umano fosse rispettato? L'osservanza integrale dei diritti umani è la strada più sicura per stringere relazioni solide tra gli Stati. La cultura dei diritti umani non può essere che cultura di pace. Ogni loro violazione contiene in sé i germi di un possibile conflitto. Già il mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Pio XII, alla fine della seconda Guerra mondiale, poneva la domanda: « Quando un popolo è schiacciato con la forza, chi avrebbe il coraggio di promettere sicurezza al resto del mondo nel contesto di una pace durevole? ».(11)

Per promuovere una cultura dei diritti umani che investa le coscienze, è necessaria la collaborazione di ogni forza sociale. Vorrei fare specifico riferimento al ruolo dei mass-media, tanto importanti nella formazione dell'opinione pubblica e, di conseguenza, nell'orientamento dei comportamenti dei cittadini. Come non si potrebbe negare una loro responsabilità in violazioni dei diritti umani che avessero la loro matrice nell'esaltazione della violenza da essi eventualmente coltivata, così è doveroso attribuire loro il merito di quelle nobili iniziative di dialogo e di solidarietà che sono maturate grazie ai messaggi da essi diffusi in favore della comprensione reciproca e della pace.

Tempo di scelte, tempo di speranza

13. Il nuovo millennio è alle porte ed il suo avvicinarsi ha alimentato nei cuori di molti la speranza di un mondo più giusto e solidale. E un'aspirazione che può, anzi, che deve essere realizzata!

E in questa prospettiva che mi rivolgo ora in particolare a voi, cari Fratelli e Sorelle in Cristo, che nelle varie parti del mondo assumete a norma di vita il Vangelo: fatevi araldi della dignità dell'uomo! La fede ci insegna che ogni persona è stata creata ad immagine e somiglianza di Dio. Dinanzi al rifiuto dell'uomo, l'amore del Padre celeste rimane fedele; il suo è un amore senza confini. Egli ha inviato il Figlio Gesù per redimere ogni persona, restituendole piena dignità.(12) Dinanzi a tale atteggiamento, come potremmo escludere qualcuno dalle nostre cure? Al contrario, dobbiamo riconoscere Cristo nei più poveri e marginalizzati, che l'Eucaristia, comunione al corpo e al sangue di Cristo offerti per noi, ci impegna a servire.(13) Come la parabola del ricco, che rimarrà per sempre senza nome, e del povero chiamato Lazzaro indica chiaramente, « nello stridente contrasto tra ricchi insensibili e poveri bisognosi di tutto, Dio sta dalla parte di questi ultimi ».(14) Da questa parte dobbiamo schierarci anche noi.

Il terzo e ultimo anno di preparazione al Giubileo è segnato da un pellegrinaggio spirituale verso il Padre: ciascuno è invitato ad un cammino di autentica conversione, che comporta l'abbandono del male e la positiva scelta del bene. Alla soglia ormai dell'Anno 2000, è nostro dovere tutelare con impegno rinnovato la dignità dei poveri e degli emarginati e riconoscere concretamente i diritti di coloro che non hanno diritti. Eleviamo insieme la voce per loro, vivendo in pienezza la missione che Cristo ha affidato ai suoi discepoli! È questo lo spirito del Giubileo ormai imminente.(15)

Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio col nome di Padre, Abbà, rivelandoci così la profondità del nostro rapporto con lui. Infinito ed eterno è il suo amore per ogni persona e per tutta l'umanità. Eloquenti sono in proposito le parole di Dio nel libro del profeta Isaia:

« Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio del suo seno?
Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse,
io invece non ti dimenticherò mai.
Ecco, io ti ho disegnato
sulle palme delle mie mani » (49, 15-16).

Accettiamo l'invito a condividere questo amore! In esso sta il segreto del rispetto dei diritti di ogni donna e di ogni uomo. L'alba del nuovo millennio ci troverà così più disposti a costruire insieme la pace.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1998.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

"PACE IN TERRA AGLI UOMINI, CHE DIO AMA!"

1 gennaio 2000

 

1. E questo l'annuncio degli Angeli che, 2000 anni fa, accompagnò la nascita di Gesù Cristo (cfr Lc 2,14) e che sentiremo risuonare gioiosamente nella santa notte di Natale, quando verrà solennemente aperto il Grande Giubileo.

Questo messaggio di speranza che giunge dalla grotta di Betlemme vogliamo riproporre all'inizio del nuovo Millennio: Dio ama tutti gli uomini e le donne della terra e dona loro la speranza di un tempo nuovo, un tempo di pace. Il suo amore, pienamente rivelato nel Figlio fatto carne, è il fondamento della pace universale. Accolto nell'intimo del cuore, esso riconcilia ciascuno con Dio e con se stesso, rinnova i rapporti tra gli uomini e suscita quella sete di fraternità capace di allontanare la tentazione della violenza e della guerra.

Il Grande Giubileo è indissolubilmente legato a questo messaggio di amore e di riconciliazione, che interpreta le più autentiche aspirazioni dell'umanità del nostro tempo.

2. Nella prospettiva di un anno così carico di significato, a tutti rinnovo cordialmente l'augurio di pace. A tutti dico che la pace è possibile. Essa va implorata come un dono di Dio, ma anche, col suo aiuto, costruita giorno per giorno attraverso le opere della giustizia e dell'amore.

Sono certamente tanti e complessi i problemi che rendono arduo e spesso scoraggiante il cammino verso la pace, ma essa è un'esigenza profondamente radicata nel cuore di ogni uomo. Non si deve pertanto affievolire la volontà di ricercarla. A fondamento di tale ricerca dev'esserci la consapevolezza che, per quanto segnata dal peccato, dall'odio e dalla violenza, l'umanità è chiamata da Dio a formare un'unica famiglia. Questo disegno divino va riconosciuto e assecondato, promuovendo la ricerca di relazioni armoniose tra le persone e i popoli, in una cultura condivisa di apertura al Trascendente, di promozione dell'uomo, di rispetto della natura.

Questo è il messaggio del Natale, questo il messaggio del Giubileo, questo il mio augurio all'inizio di un nuovo Millennio.

Con la guerra, è l'umanità a perdere

3. Nel secolo che ci lasciamo alle spalle, l'umanità è stata duramente provata da una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di "pulizie etniche" , che hanno causato inenarrabili sofferenze: milioni e milioni di vittime, famiglie e paesi distrutti, maree di profughi, miseria, fame, malattie, sottosviluppo, perdita di immense risorse. Alle radici di tanta sofferenza c'è una logica di sopraffazione, nutrita dal desiderio di dominare e di sfruttare gli altri, da ideologie di potenza o di utopismo totalitario, da insani nazionalismi o antichi odi tribali. Talvolta alla violenza brutale e sistematica, diretta persino allo sterminio totale o all'asservimento di interi popoli e regioni, è stato necessario opporre una resistenza armata.

Il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l'umanità a perdere. Solo nella pace e con la pace si può garantire il rispetto della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti.(1)

4. Di fronte allo scenario di guerra del secolo XX, l'onore dell'umanità è stato salvato da coloro che hanno parlato e lavorato in nome della pace.

È doveroso ricordare quanti, innumerevoli, hanno contribuito all'affermazione dei diritti umani e alla loro solenne proclamazione, alla sconfitta dei totalitarismi, alla fine del colonialismo, allo sviluppo della democrazia, alla creazione di grandi organismi internazionali. Esempi luminosi e profetici ci hanno offerto coloro che hanno improntato le loro scelte di vita al valore della non-violenza. La loro testimonianza di coerenza e fedeltà, giunta spesso fino al martirio, ha scritto pagine splendide e ricche di insegnamenti.

Tra coloro che hanno operato in nome della pace non vanno dimenticati gli uomini e le donne il cui impegno ha reso possibili grandi progressi in tutti i campi della scienza e della tecnica, consentendo di vincere tremende malattie, di migliorare e di prolungare la vita.

Non posso poi non menzionare gli stessi miei Predecessori, di venerata memoria, che hanno guidato la Chiesa nel XX secolo. Con il loro altissimo magistero e la loro infaticabile opera, hanno orientato la Chiesa nella promozione di una cultura di pace. Quasi ad emblema di questa multiforme opera si pone la felice e lungimirante intuizione di Paolo VI che, l'8 dicembre 1967, istituì la Giornata Mondiale della Pace. Di anno in anno, essa è andata consolidandosi come feconda esperienza di riflessione e di comune progettualità.

La vocazione ad essere un'unica famiglia

5. "Pace in terra agli uomini, che Dio ama!". L'augurio evangelico ci suggerisce un'accorata domanda: sarà all'insegna della pace e di una ritrovata fraternità tra gli uomini e i popoli il secolo che inizia? Non possiamo certo prevedere il futuro. Possiamo però stabilire un esigente principio: ci sarà pace nella misura in cui tutta l'umanità saprà riscoprire la sua originaria vocazione ad essere un'unica famiglia, in cui la dignità e i diritti delle persone - di qualunque stato, razza, religione - siano affermati come anteriori e preminenti rispetto a qualsiasi differenziazione e specificazione.

Da tale consapevolezza può ricevere anima, senso e orientamento l'attuale contesto mondiale, contrassegnato dai dinamismi della globalizzazione. In tali processi, pur non privi di rischi, sono presenti straordinarie e promettenti opportunità, proprio in vista della meta di fare dell'umanità una sola famiglia, fondata sui valori della giustizia, dell'equità, della solidarietà.

6. Occorre per questo compiere un capovolgimento di prospettiva: su tutto deve prevalere non più il bene particolare di una comunità politica, razziale o culturale, ma il bene dell'umanità. Il perseguimento del bene comune di una singola comunità politica non può essere in contrasto con il bene comune dell'umanità intera, espresso nel riconoscimento e nel rispetto dei diritti umani, sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948. Devono essere superate, pertanto, le concezioni e le pratiche, spesso condizionate e determinate da forti interessi economici, che subordinano al dato ritenuto assoluto della nazione e dello Stato ogni altro valore. Le divisioni e differenziazioni politiche, culturali e istituzionali in cui si articola ed organizza l'umanità sono, in questa prospettiva, legittime nella misura in cui si armonizzano con l'appartenenza alla famiglia umana e con le esigenze etiche e giuridiche che ne derivano.

I crimini contro l'umanità

7. Da questo principio scaturisce una conseguenza di enorme portata: chi offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale, offende l'umanità stessa. Il dovere di tutelare tali diritti trascende, pertanto, i confini geografici e politici entro cui essi sono conculcati. I crimini contro l'umanità non si possono considerare affari interni di una nazione. L'avviata istituzione di un Tribunale Penale Internazionale chiamato a giudicarli, dovunque e comunque avvengano, è un passo importante in tal senso. Dobbiamo rendere grazie a Dio se continua a crescere, nella coscienza dei popoli e delle nazioni, la convinzione che i diritti umani non hanno frontiere, perché universali e indivisibili.

8. Nel nostro tempo sono andate diminuendo le guerre tra gli Stati. Questo dato, di per sé consolante, è tuttavia fortemente ridimensionato se si considerano i conflitti armati che si sviluppano all'interno degli Stati. Essi sono purtroppo assai numerosi, presenti praticamente in tutti i Continenti, e non di rado violentissimi. Hanno per lo più lontani motivi storici di natura etnica, tribale o anche religiosa, ai quali, attualmente, si sommano altre ragioni di natura ideologica, sociale ed economica.

Questi conflitti interni, generalmente combattuti con un uso impressionante di armi di piccolo calibro o di armi cosiddette "leggere", ma in realtà straordinariamente micidiali, hanno spesso gravi implicazioni che vanno al di là dei confini dello Stato, coinvolgendo interessi e responsabilità esterne. Pur essendo vero che, per il loro alto grado di complessità, risulta molto difficile comprendere e valutare le cause e gli interessi in gioco, un dato emerge in modo incontrovertibile: le conseguenze più drammatiche di questi conflitti sono patite dalle popolazioni civili, a motivo anche della pratica inosservanza sia delle comuni leggi che delle stesse leggi di guerra. Lungi dall'essere protetti, i civili sono spesso il primo obiettivo delle forze opposte, quando essi stessi non vengono coinvolti in dirette azioni armate dentro una perversa spirale che li vede, nello stesso tempo, vittime e carnefici di altri civili.

Troppi, e troppo orribili, sono stati, e continuano ad essere, i sinistri scenari in cui bambini, donne, anziani inermi, colpevoli di nulla, diventano, loro malgrado, le vittime designate dei conflitti che insanguinano i nostri giorni; davvero troppi, per non sentire che è arrivato il momento di cambiare strada, con decisione e con grande senso di responsabilità. Il diritto all'assistenza umanitaria

9. In ogni caso, di fronte a situazioni tanto drammatiche quanto complesse, va affermato, contro tutte le presunte "ragioni" della guerra, il valore preminente del diritto umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto all'assistenza umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati.

Il riconoscimento e l'effettivo soddisfacimento di questi diritti non devono sottostare a interessi di qualche parte in conflitto. Si impone al contrario il dovere di individuare tutti quei modi, istituzionali e non, che possono concretizzare al meglio le finalità umanitarie. La legittimazione morale e politica di tali diritti risiede, infatti, nel principio per cui il bene della persona umana viene prima di tutto e trascende ogni umana istituzione.

10. Voglio qui riaffermare il mio profondo convincimento che, di fronte ai moderni conflitti armati, lo strumento del negoziato tra le parti, con opportuni interventi di mediazione e pacificazione posti in atto da organismi internazionali e regionali, assume la massima rilevanza, sia al fine di prevenire i conflitti stessi, sia, una volta che siano scoppiati, per farli cessare, ristabilendo la pace attraverso un'equa composizione dei diritti e degli interessi in gioco.

Questo convincimento sul ruolo positivo di organismi di mediazione e pacificazione va esteso alle organizzazioni umanitarie non governative e a quelle religiose che, con discrezione e senza calcoli, promuovono la pace tra i differenti gruppi, aiutano a vincere antichi rancori, a riconciliare nemici e ad aprire la strada verso un futuro nuovo e comune. Mentre rendo omaggio alla loro nobile dedizione alla causa della pace, desidero rivolgere un pensiero di commosso apprezzamento a tutti coloro che hanno dato la vita affinché altri potessero vivere: per essi elevo a Dio la mia preghiera ed invito pure i credenti a fare altrettanto.

L'"ingerenza umanitaria"

11. Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi.

Occorrerà per questo fare il massimo e il migliore uso di quanto previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, definendo ulteriormente strumenti e modalità efficaci di intervento nel quadro della legalità internazionale. A tal proposito, la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite deve offrire a tutti gli Stati membri un'equa opportunità di partecipare alle decisioni, superando privilegi e discriminazioni che ne indeboliscono il ruolo e la credibilità.

12. Si apre qui un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con passione e con saggezza. È necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell'umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione. Tale rinnovamento è tanto più urgente se consideriamo il paradosso della guerra nel nostro tempo, qual è emerso anche in recenti conflitti, dove al massimo della sicurezza degli eserciti corrispondevano sconcertanti condizioni di pericolo delle popolazioni civili. In nessun tipo di conflitto è legittimo trascurare il diritto dei civili all'incolumità.

Al di là poi delle prospettive giuridiche e istituzionali, per tutti gli uomini e le donne di buona volontà, chiamati ad impegnare se stessi per la pace, resta fondamentale il dovere di sviluppare strutture di pace e strumenti di non violenza, di fare tutti i possibili sforzi per portare quelli che sono in conflitto al tavolo del negoziato.

La pace nella solidarietà

13. "Pace in terra agli uomini, che Dio ama!". Dalla problematica della guerra, lo sguardo si volge naturalmente a un'altra dimensione, che è ad essa particolarmente legata: la questione della solidarietà. Il nobilissimo e impegnativo compito della pace, insito nella vocazione dell'umanità ad essere e a riconoscersi come famiglia, ha un suo punto di forza nel principio della destinazione universale dei beni della terra, principio che non delegittima la proprietà privata, ma ne apre la concezione e la gestione alla sua imprescindibile funzione sociale, a vantaggio del bene comune e specialmente dei membri più deboli della società.(2) Questo fondamentale principio è purtroppo ampiamente disatteso, come dimostra il persistere e l'allargarsi del divario tra un Nord del mondo, sempre più saturo di beni e di risorse e composto da un numero crescente di anziani, e un Sud in cui si concentra ormai la larga maggioranza delle giovani generazioni, ancora prive di una credibile prospettiva di sviluppo sociale, culturale ed economico.

Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c'è pace vera se ad essa non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al fallimento qualsiasi progetto che tenga separati due diritti indivisibili e interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno sviluppo integrale e solidale."Le ingiustizie, gli eccessivi squilibri di carattere economico o sociale, l'invidia, la diffidenza e l'orgoglio che dannosamente imperversano tra gli uomini e le nazioni, minacciano incessantemente la pace e causano le guerre. Tutto quanto si fa per eliminare questi disordini contribuisce a costruire la pace e ad evitare la guerra".(3)

14. All'inizio di un nuovo secolo, la povertà di miliardi di uomini e donne è la questione che più di ogni altra interpella la nostra coscienza umana e cristiana. Essa è resa ancor più drammatica dalla consapevolezza che i maggiori problemi economici del nostro tempo non dipendono dalla mancanza di risorse, ma dal fatto che le attuali strutture economiche, sociali e culturali faticano a farsi carico delle esigenze di un autentico sviluppo.

A giusto titolo i poveri, sia quelli dei Paesi in via di sviluppo sia quelli dei Paesi prosperi e ricchi, "chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero. L'elevazione dei poveri è una grande occasione per la crescita morale, culturale ed anche economica dell'intera umanità".(4) Guardiamo ai poveri non come ad un problema, ma come a coloro che possono diventare soggetti e protagonisti di un futuro nuovo e più umano per tutto il mondo.

Urgenza di un ripensamento dell'economia

15. In questa prospettiva è doveroso interrogarsi anche su quel crescente disagio che, al giorno d'oggi, di fronte ai problemi che emergono sul versante della povertà, della pace, dell'ecologia, del futuro dei giovani, molti studiosi e operatori economici avvertono quando riflettono sul ruolo del mercato, sulla pervasiva dimensione monetaria-finanziaria, sulla divaricazione tra l'economico e il sociale e su altri simili temi dell'attività economica.

È forse giunto il momento di una nuova ed approfondita riflessione sul senso dell'economia e dei suoi fini. Sembra a tal proposito urgente che venga riconsiderata la concezione stessa del benessere, perché non sia dominata da un'angusta prospettiva utilitaristica, lasciando uno spazio del tutto marginale e residuale a valori come quelli della solidarietà e dell'altruismo.

16. Vorrei qui invitare i cultori della scienza economica e gli stessi operatori del settore, come pure i responsabili politici, a prender atto dell'urgenza che la prassi economica e le politiche corrispondenti mirino al bene di ogni uomo e di tutto l'uomo. Lo richiede non solo l'etica, ma anche una sana economia. Sembra infatti confermato dall'esperienza che il successo economico sia sempre più condizionato dal fatto che vengano valorizzate le persone e le loro capacità, promossa la partecipazione, coltivate di più e meglio le conoscenze e le informazioni, incrementata la solidarietà.

Si tratta di valori che, lungi dall'essere estranei alla scienza e all'agire economici, contribuiscono a farne una scienza e una prassi integralmente "umane". Un'economia che non consideri la dimensione etica e non si curi di servire il bene della persona - di ogni persona e di tutta la persona - non può di per sé dirsi neppure "economia", intesa nel senso di una razionale e benefica gestione della ricchezza materiale.

Quali modelli di sviluppo?

17. Dal momento che l'umanità, pur chiamata ad essere una sola famiglia, è ancora drammaticamente divisa in due dalla povertà - all'inizio del XXI secolo, più di un miliardo e quattrocento milioni di persone vivono in una situazione di estrema povertà - , è particolarmente urgente una riconsiderazione dei modelli che ispirano le scelte di sviluppo.

A questo riguardo, si dovranno meglio armonizzare le legittime esigenze dell'efficienza economica con quelle della partecipazione politica e della giustizia sociale, senza ricadere negli errori ideologici commessi nel XX secolo. In concreto, ciò significa intessere di solidarietà le reti delle interdipendenze economiche, politiche e sociali, che i processi di globalizzazione in atto tendono ad accrescere.

Tali processi esigono un ripensamento della cooperazione internazionale, nei termini di una nuova cultura di solidarietà. Pensata come seme di pace, la cooperazione non si può ridurre all'aiuto e all'assistenza, addirittura mirando ai vantaggi di ritorno per le risorse messe a disposizione. Essa deve esprimere, invece, un impegno concreto e tangibile di solidarietà, tale da rendere i poveri protagonisti del loro sviluppo e consentire al maggior numero possibile di persone di esplicare, nelle concrete circostanze economiche e politiche in cui vivono, la creatività tipica della persona umana, da cui dipende anche la ricchezza delle Nazioni.(5)

Occorre, in particolare, trovare soluzioni definitive all'annoso problema del debito internazionale dei Paesi poveri, garantendo allo stesso tempo i finanziamenti necessari anche per la lotta contro la fame, la malnutrizione, le malattie, l'analfabetismo ed il degrado ambientale.

18. Si pone oggi, in forma più urgente che nel passato, la necessità di coltivare la coscienza di valori morali universali, per affrontare i problemi del presente, la cui connotazione comune è data dalla dimensione planetaria che essi vanno assumendo. La promozione della pace e dei diritti umani; la composizione dei conflitti armati interni ed esterni agli Stati; la tutela delle minoranze etniche e dei migranti; la salvaguardia dell'ambiente; la battaglia contro terribili malattie; la lotta contro i mercanti della droga e delle armi e contro la corruzione politica ed economica, sono questioni a cui nessuna Nazione è in grado oggi di far fronte da sola. Esse riguardano l'intera comunità umana, e pertanto si devono affrontare e risolvere operando insieme.

Si deve trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, i problemi posti dal futuro dell'uomo. Il fondamento di questo dialogo è la legge morale universale scritta nel cuore dell'uomo. Seguendo questa "grammatica" dello spirito la comunità umana può affrontare i problemi della convivenza e muoversi verso il futuro nel rispetto del disegno di Dio.(6)

Dall'incontro tra fede e ragione, tra senso religioso e senso morale deriva un contributo decisivo nella direzione del dialogo e della collaborazione tra i popoli, tra le culture e le religioni.

Gesù, dono di pace

19. "Pace in terra agli uomini, che Dio ama!". In tutto il mondo, nel contesto del Grande Giubileo, i cristiani sono impegnati a fare solenne memoria dell'Incarnazione. Riascoltando l'annuncio degli Angeli nel cielo di Betlemme (cfr Lc 2,14), essi ne fanno memoria con la consapevolezza che Gesù "è la nostra pace"(Ef 2,14), è dono di pace per tutti gli uomini. Le sue prime parole ai discepoli dopo la Risurrezione sono state: "Pace a voi!"(Gv 20, 19.21.26). Egli è venuto per unire ciò che era diviso, per distruggere il peccato e l'odio, risvegliando nell'umanità la vocazione all'unità e alla fraternità. Egli, pertanto, è "il principio e il modello di questa umanità rinnovata permeata di amore fraterno, di sincerità e di spirito di pace, alla quale tutti vivamente aspirano".(7)

20. In quest'anno giubilare, la Chiesa, nel ricordo vivissimo del suo Signore, intende confermare la propria vocazione e missione ad essere in Cristo "sacramento" ossia segno e strumento di pace nel mondo e per il mondo. Per essa, adempiere la sua missione evangelizzatrice è lavorare per la pace."Così la Chiesa, unico gregge di Dio, quale vessillo alzato tra i popoli, ponendo a servizio di tutto il genere umano il Vangelo della pace, compie nella speranza il suo pellegrinaggio alla meta della patria celeste.(8)

Pertanto l'impegno di costruire la pace e la giustizia per i fedeli cattolici non è secondario, ma essenziale, e va assolto con animo aperto verso i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, i credenti di altre religioni e verso tutti gli uomini e le donne di buona volontà, con cui condividono la stessa ansia di pace e di fraternità.

Impegnarsi generosamente per la pace

21. È motivo di speranza constatare come, nonostante molteplici e gravi ostacoli, continuino a svilupparsi quotidianamente iniziative e progetti di pace, con la generosa collaborazione di tante persone. La pace è un edificio sempre in costruzione. Alla sua edificazione concorrono:

- i genitori che, in famiglia, vivono e testimoniano la pace e ad essa educano i loro figli;

- gli insegnanti che sanno trasmettere valori autentici, presenti in ogni area del sapere e nel patrimonio storico e culturale dell'umanità;

- gli uomini e le donne del lavoro impegnati a dilatare la loro secolare lotta per la dignità del lavoro alle nuove situazioni che, a livello internazionale, reclamano giustizia e solidarietà;

- i governanti che pongono al centro dell'azione politica propria e dei loro Paesi una ferma e convinta determinazione per la pace e per la giustizia;

- quanti, nelle Organizzazioni Internazionali, operano, spesso con scarsità di mezzi, in prima linea, dove essere "operatori di pace" è impresa rischiosa anche per la propria personale incolumità;

- i membri delle Organizzazioni Non Governative che, con lo studio e l'azione, in diverse parti del mondo e nelle più svariate situazioni, sono dediti alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti;

- i credenti i quali, convinti che la fede autentica non è mai fonte di guerra né di violenza, promuovono attraverso il dialogo ecumenico e quello interreligioso, le ragioni della pace e dell'amore.

22. Il mio pensiero corre particolarmente a voi, cari giovani, che sperimentate in modo speciale la benedizione della vita e avete il dovere di non sprecarla. Nelle scuole e nelle università, negli ambienti di lavoro, nel tempo libero e nello sport, in tutto quello che fate, lasciatevi guidare da questo costante pensiero: la pace dentro di voi e fuori di voi, la pace sempre, la pace con tutti, la pace per tutti.

Ai giovani che hanno purtroppo conosciuto la tragica esperienza della guerra e provano sentimenti di odio e di risentimento, voglio dire una parola implorante: fate il possibile per ritrovare la strada della riconciliazione e del perdono. È una strada difficile, ma è l'unica che vi permette di guardare al futuro con speranza per voi, i vostri figli, i vostri Paesi e l'umanità intera.

Avrò modo di riprendere questo dialogo con voi, cari giovani, quando ci incontreremo a Roma, nel prossimo agosto, per la Giornata Giubilare a voi dedicata.

Il Papa Giovanni XXIII, in uno dei suoi ultimi discorsi, si rivolse ancora una volta "agli uomini di buona volontà" per invitarli ad impegnarsi in un programma di pace fondato sul "vangelo dell'obbedienza a Dio, della misericordia, del perdono". Ed aggiungeva: "Allora, senza alcun dubbio, la fiaccola luminosa della pace percorrerà la sua strada, accendendo la gioia e versando la luce e la grazia nel cuore degli uomini su tutta la superficie della terra, facendo loro scoprire, al di là di tutte le frontiere, volti di fratelli, volti di amici".(9) Possiate voi, giovani del 2000, scoprire e far scoprire volti di fratelli e volti di amici!

In questo Anno Giubilare, in cui la Chiesa si impegnerà nella preghiera per la pace con suppliche speciali, ci rivolgiamo con filiale devozione alla Madre di Gesù invocandola come Regina della pace, affinché Ella dispensi con larghezza i doni della sua materna bontà e aiuti il genere umano a diventare una sola famiglia, nella solidarietà e nella pace.

Dal Vaticano, 8 dicembre dell'anno 1999.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

DIALOGO TRA LE CULTURE
PER UNA CIVILTÀ DELL'AMORE E DELLA PACE

1 gennaio 2001

 

1. All'inizio di un nuovo millennio, più viva si fa la speranza che i rapporti tra gli uomini siano sempre più ispirati all'ideale di una fraternità veramente universale. Senza la condivisione di questo ideale, la pace non potrà essere assicurata in modo stabile. Molti segnali inducono a pensare che questa convinzione stia emergendo con maggior forza nella coscienza dell'umanità. Il valore della fraternità è proclamato dalle grandi « carte » dei diritti umani; è manifestato plasticamente da grandi istituzioni internazionali e, in particolare, dall'Organizzazione delle Nazioni Unite; è infine esigito, come mai prima d'ora, dal processo di globalizzazione che unisce in modo crescente i destini dell'economia, della cultura e della società. La stessa riflessione dei credenti, nelle diverse religioni, si fa più incline a sottolineare che il rapporto con l'unico Dio, Padre comune di tutti gli uomini, non può che favorire il sentirsi e il vivere da fratelli. Nella rivelazione di Dio in Cristo, questo principio è espresso con estrema radicalità: « Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore » (1 Gv 4,8).

2. Al tempo stesso, però, non ci si può nascondere che le luci appena evocate sono offuscate da vaste e dense ombre. L'umanità comincia questo nuovo tratto della sua storia con ferite ancora aperte, è provata in molte regioni da conflitti aspri e sanguinosi, conosce la fatica di una più difficile solidarietà nei rapporti tra uomini di differenti culture e civiltà, ormai sempre più vicine e inter-agenti sugli stessi territori. Tutti sanno quanto sia difficile comporre le ragioni dei contendenti, quando gli animi sono accesi ed esasperati a causa di odi antichi e di gravi problemi che faticano a trovare soluzione. Ma non meno pericolosa per il futuro della pace sarebbe l'incapacità di affrontare con saggezza i problemi posti dal nuovo assetto che l'umanità, in molti Paesi, va assumendo, a causa dell'accelerazione dei processi migratori e della convivenza inedita che ne scaturisce tra persone di diverse culture e civiltà.

3. Mi è parso perciò urgente invitare i credenti in Cristo, e con essi tutti gli uomini di buona volontà, a riflettere sul dialogo tra le differenti culture e tradizioni dei popoli, indicando in esso la via necessaria per l'edificazione di un mondo riconciliato, capace di guardare con serenità al proprio futuro. Si tratta di un tema decisivo per le prospettive della pace. Sono lieto che anche l'Organizzazione delle Nazioni Unite abbia colto e proposto questa urgenza, dichiarando il 2001 « Anno internazionale del dialogo fra le civiltà ».

Sono naturalmente lontano dal pensare che, su un problema come questo, si possano offrire soluzioni facili, pronte per l'uso. E laboriosa già la sola lettura della situazione, che appare in continuo movimento, così da sfuggire a schemi prefissati. A ciò si aggiunge la difficoltà di coniugare principi e valori che, pur essendo idealmente armonizzabili, possono manifestare in concreto elementi di tensione che non facilitano la sintesi. Resta poi, alla radice, la fatica che segna l'impegno etico di ogni essere umano costretto a fare i conti col proprio egoismo e i propri limiti.

Ma proprio per questo vedo l'utilità di una riflessione corale su questa problematica. A tale scopo mi limito qui ad offrire alcuni principi orientativi, nell'ascolto di ciò che lo Spirito di Dio dice alle Chiese (cfr Ap 2,7) e a tutta l'umanità, in questo decisivo passaggio della sua storia.

L'uomo e le sue differenti culture

4. Considerando l'intera vicenda dell'umanità, si resta sempre meravigliati di fronte alle manifestazioni complesse e variegate delle culture umane. Ciascuna di esse si diversifica dall'altra per lo specifico itinerario storico che la distingue, e per i conseguenti tratti caratteristici che la rendono unica, originale e organica nella propria struttura. La cultura è espressione qualificata dell'uomo e della sua vicenda storica, a livello sia individuale che collettivo. Egli, infatti, è spinto incessantemente dall'intelligenza e dalla volontà a « coltivare i beni e i valori della natura »,(1) componendo in sintesi culturali sempre più alte e sistematiche le fondamentali conoscenze che concernono tutti gli aspetti della vita e, in particolare, quelle che attengono alla sua convivenza sociale e politica, alla sicurezza ed allo sviluppo economico, all'elaborazione di quei valori e significati esistenziali, soprattutto di natura religiosa, che consentono alla sua vicenda individuale e comunitaria di svolgersi secondo modalità autenticamente umane.(2)

5. Le culture sono sempre caratterizzate da alcuni elementi stabili e duraturi e da altri dinamici e contingenti. Ad un primo sguardo, la considerazione di una cultura fa cogliere soprattutto gli aspetti caratteristici, che la differenziano dalla cultura dell'osservatore, assicurandole un tipico volto, nel quale convergono elementi della più diversa natura. Nella maggior parte dei casi, le culture si sviluppano su territori determinati, in cui elementi geografici, storici ed etnici si intrecciano in modo originale e irripetibile. Questa « tipicità » di ciascuna cultura si riflette, in modo più o meno rilevante, nelle persone che ne sono portatrici, in un dinamismo continuo di influssi subiti dai singoli soggetti umani e di contributi che questi, secondo le loro capacità e il loro genio, danno alla loro cultura. In ogni caso, essere uomo significa necessariamente esistere in una determinata cultura. Ciascuna persona è segnata dalla cultura che respira attraverso la famiglia e i gruppi umani con i quali entra in relazione, attraverso i percorsi educativi e le più diverse influenze ambientali, attraverso la stessa relazione fondamentale che ha con il territorio in cui vive. In tutto questo non c'è alcun determinismo, ma una costante dialettica tra la forza dei condizionamenti e il dinamismo della libertà. Formazione umana e appartenenza culturale

6. L'accoglienza della propria cultura come elemento strutturante della personalità, specie nella prima fase della crescita, è un dato di esperienza universale, di cui è difficile sopravvalutare l'importanza. Senza questa radicazione in un humus definito, la persona stessa rischierebbe di essere sottoposta, in età ancora debole, a un eccesso di stimoli contrastanti, che non ne aiuterebbero lo sviluppo sereno ed equilibrato. E sulla base di questo rapporto fondamentale con le proprie « origini » — a livello familiare, ma anche territoriale, sociale e culturale — che si sviluppa nelle persone il senso della « patria », e la cultura tende ad assumere, ove più ove meno, una configurazione « nazionale ». Lo stesso Figlio di Dio, facendosi uomo, acquistò, con una famiglia umana, anche una « patria ». Egli è per sempre Gesù di Nazareth, il Nazareno (cfr Mc 10,47; Lc 18,37; Gv 1,45; 19,19). Si tratta di un processo naturale, in cui istanze sociologiche e psicologiche inter-agiscono, con effetti normalmente positivi e costruttivi. L'amor di patria è, per questo, un valore da coltivare, ma senza ristrettezze di spirito, amando insieme l'intera famiglia umana(3) ed evitando quelle manifestazioni patologiche che si verificano quando il senso di appartenenza assume toni di autoesaltazione e di esclusione della diversità, sviluppandosi in forme nazionalistiche, razzistiche e xenofobe.

7. Se perciò è importante, da un lato, saper apprezzare i valori della propria cultura, dall'altro occorre avere consapevolezza che ogni cultura, essendo un prodotto tipicamente umano e storicamente condizionato, implica necessariamente anche dei limiti. Perché il senso di appartenenza culturale non si trasformi in chiusura, un antidoto efficace è la conoscenza serena, non condizionata da pregiudizi negativi, delle altre culture. Del resto, ad un'analisi attenta e rigorosa, le culture mostrano molto spesso, al di sotto delle loro modulazioni più esterne, significativi elementi comuni. Ciò è visibile anche nella successione storica di culture e civiltà. La Chiesa, guardando a Cristo, rivelatore dell'uomo all'uomo,(4) e forte dell'esperienza compiuta in duemila anni di storia, è convinta che, « al di sotto di tutti i mutamenti, ci sono molte cose che non cambiano ».(5) Tale continuità è fondata sulle caratteristiche essenziali e universali del progetto di Dio sull'uomo.

Le diversità culturali vanno perciò comprese nella fondamentale prospettiva dell'unità del genere umano, dato storico e ontologico primario, alla luce del quale è possibile cogliere il significato profondo delle stesse diversità. In verità, soltanto la visione contestuale sia degli elementi di unità che delle diversità rende possibile la comprensione e l'interpretazione della piena verità di ogni cultura umana.(6)

Diversità di culture e reciproco rispetto

8. Nel passato le diversità tra le culture sono state spesso fonte di incomprensioni tra i popoli e motivo di conflitti e guerre. Ma ancor oggi, purtroppo, in diverse parti del mondo, assistiamo, con crescente apprensione, al polemico affermarsi di alcune identità culturali contro altre culture. Questo fenomeno può, alla lunga, sfociare in tensioni e scontri disastrosi, e quanto meno rende penosa la condizione di talune minoranze etniche e culturali, che si trovano a vivere nel contesto di maggioranze culturalmente diverse, inclini ad atteggiamenti e comportamenti ostili e razzisti.

Di fronte a questo scenario, ogni uomo di buona volontà non può non interrogarsi circa gli orientamenti etici fondamentali che caratterizzano l'esperienza culturale di una determinata comunità. Le culture, infatti, come l'uomo che ne è l'autore, sono attraversate dal « mistero di iniquità » operante nella storia umana (cfr 2 Ts 2,7) ed hanno bisogno anch'esse di purificazione e di salvezza. L'autenticità di ogni cultura umana, il valore dell'ethos che essa veicola, ossia la solidità del suo orientamento morale, si possono in qualche modo misurare dal suo essere per l'uomo e per la promozione della sua dignità ad ogni livello ed in ogni contesto.

9. Se tanto preoccupante è il radicalizzarsi delle identità culturali che si rendono impermeabili ad ogni benefico influsso esterno, non è però meno rischiosa la supina omologazione delle culture, o di alcuni loro rilevanti aspetti, a modelli culturali del mondo occidentale che, ormai disancorati dal retroterra cristiano, sono ispirati ad una concezione secolarizzata e praticamente atea della vita e a forme di radicale individualismo. Si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, sostenuto da potenti campagne mass-mediali, tese a veicolare stili di vita, progetti sociali ed economici e, in definitiva, una complessiva visione della realtà, che erode dall'interno assetti culturali diversi e civiltà nobilissime. A motivo della loro spiccata connotazione scientifica e tecnica, i modelli culturali dell'Occidente appaiono fascinosi ed attraenti, ma rivelano, purtroppo, con sempre maggiore evidenza, un progressivo impoverimento umanistico, spirituale e morale. La cultura che li genera è segnata dalla drammatica pretesa di voler realizzare il bene dell'uomo facendo a meno di Dio, Bene sommo. Ma «la creatura — ha ammonito il Concilio Vaticano II — senza il Creatore svanisce! ».(7) Una cultura che rifiuta di riferirsi a Dio perde la propria anima e si disorienta divenendo cultura di morte, come testimoniano i tragici eventi del secolo XX e come stanno a dimostrare gli esiti nichilistici attualmente presenti in rilevanti ambiti del mondo occidentale.

Il dialogo tra le culture

10. Analogamente a quanto avviene per la persona, che si realizza attraverso l'apertura accogliente all'altro e il generoso dono di sé, anche le culture, elaborate dagli uomini e a servizio degli uomini, vanno modellate coi dinamismi tipici del dialogo e della comunione, sulla base dell'originaria e fondamentale unità della famiglia umana, uscita dalle mani di Dio che « creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini » (At 17,26).

In questa chiave, il dialogo tra le culture, tema del presente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, emerge come un'esigenza intrinseca alla natura stessa dell'uomo e della cultura. Espressioni storiche varie e geniali dell'originaria unità della famiglia umana, le culture trovano nel dialogo la salvaguardia delle loro peculiarità e della reciproca comprensione e comunione. Il concetto di comunione, che nella rivelazione cristiana ha la sua sorgente e il modello sublime in Dio uno e trino (cfr Gv 17,11.21), non è mai appiattimento nell'uniformità o forzata omologazione o assimilazione; è piuttosto espressione del convergere di una multiforme varietà, e diventa perciò segno di ricchezza e promessa di sviluppo.

Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un'autentica collaborazione, rispondente all'originaria vocazione all'unità dell'intera famiglia umana. Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell'amore e della pace, che il mio venerato predecessore, Papa Paolo VI, ha indicato come l'ideale a cui ispirare la vita culturale, sociale, politica ed economica del nostro tempo. All'inizio del terzo millennio è urgente riproporre la via del dialogo ad un mondo percorso da troppi conflitti e violenze, talvolta sfiduciato e incapace di scrutare gli orizzonti della speranza e della pace.

Potenzialità e rischi della comunicazione globale

11. Il dialogo tra le culture appare oggi particolarmente necessario, se si considera l'impatto delle nuove tecnologie della comunicazione sulla vita delle persone e dei popoli. Siamo nell'era della comunicazione globale, che sta plasmando la società secondo nuovi modelli culturali, più o meno estranei ai modelli del passato. L'informazione accurata e aggiornata è, almeno in linea di principio, praticamente accessibile a chiunque, in qualsiasi parte del mondo.

Il libero flusso delle immagini e delle parole su scala mondiale sta trasformando non solo le relazioni tra i popoli a livello politico ed economico, ma la stessa comprensione del mondo. Questo fenomeno offre molteplici potenzialità un tempo insperate, ma presenta anche alcuni aspetti negativi e pericolosi. Il fatto che un ristretto numero di Paesi detenga il monopolio delle « industrie » culturali, distribuendone i prodotti in ogni angolo della terra ad un pubblico sempre crescente, può costituire un potente fattore d'erosione delle specificità culturali. Sono prodotti che contengono e trasmettono sistemi impliciti di valore e pertanto possono provocare effetti di espropriazione e di perdita di identità nei recettori.

La sfida delle migrazioni

12. Lo stile e la cultura del dialogo sono particolarmente significativi rispetto alla complessa problematica delle migrazioni, rilevante fenomeno sociale del nostro tempo. L'esodo di grandi masse da una regione all'altra del pianeta, che costituisce sovente una drammatica odissea umana per quanti vi sono coinvolti, ha come conseguenza la mescolanza di tradizioni e di usi differenti, con ripercussioni notevoli nei Paesi di origine ed in quelli di arrivo. L'accoglienza riservata ai migranti da parte dei Paesi che li ricevono e la loro capacità di integrarsi nel nuovo ambiente umano rappresentano altrettanti metri di valutazione della qualità del dialogo tra le differenti culture.

In realtà, sul tema dell'integrazione culturale, tanto dibattuto al giorno d'oggi, non è facile individuare assetti e ordinamenti che garantiscano, in modo equilibrato ed equo, i diritti e i doveri tanto di chi accoglie quanto di chi viene accolto. Storicamente, i processi migratori sono avvenuti nei modi più diversi e con esiti disparati. Sono molte le civiltà che si sono sviluppate e arricchite proprio per gli apporti dati dall'immigrazione. In altri casi, le diversità culturali di autoctoni e immigrati non si sono integrate, ma hanno mostrato la capacità di convivere, attraverso una prassi di rispetto reciproco delle persone e di accettazione o tolleranza dei differenti costumi. Purtroppo persistono anche situazioni in cui le difficoltà dell'incontro tra le diverse culture non si sono mai risolte e le tensioni sono diventate cause di periodici conflitti.

13. In una materia così complessa, non ci sono formule « magiche »; è tuttavia doveroso individuare alcuni principi etici di fondo a cui fare riferimento. Primo fra tutti, è da ricordare il principio secondo cui gli immigrati vanno sempre trattati con il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. A questo principio deve piegarsi la pur doverosa valutazione del bene comune, quando si tratta di disciplinare i flussi immigratori. Si tratterà allora di coniugare l'accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti. Quanto alle istanze culturali di cui gli immigrati sono portatori, nella misura in cui non si pongono in antitesi ai valori etici universali, insiti nella legge naturale, ed ai diritti umani fondamentali, vanno rispettate e accolte.

Rispetto delle culture
e « fisionomia culturale » del territorio

14. Più difficile è determinare dove arrivi il diritto degli immigrati al riconoscimento giuridico pubblico di loro specifiche espressioni culturali, che non facilmente si compongano con i costumi della maggioranza dei cittadini. La soluzione di questo problema, nel quadro di una sostanziale apertura, è legata alla concreta valutazione del bene comune in un dato momento storico e in una data situazione territoriale e sociale. Molto dipende dall'affermarsi negli animi di una cultura dell'accoglienza che, senza cedere all'indifferentismo circa i valori, sappia mettere insieme le ragioni dell'identità e quelle del dialogo.

D'altra parte, come poc'anzi ho rilevato, non si può sottovalutare l'importanza che la cultura caratteristica di un territorio possiede per la crescita equilibrata, specie nell'età evolutiva più delicata, di coloro che vi appartengono fin dalla nascita. Da questo punto di vista, può ritenersi un orientamento plausibile quello di garantire a un determinato territorio un certo « equilibrio culturale », in rapporto alla cultura che lo ha prevalentemente segnato; un equilibrio che, pur nell'apertura alle minoranze e nel rispetto dei loro diritti fondamentali, consenta la permanenza e lo sviluppo di una determinata « fisionomia culturale », ossia di quel patrimonio fondamentale di lingua, tradizioni e valori che si legano generalmente all'esperienza della nazione e al senso della « patria ».

15. E evidente però che questa esigenza di « equilibrio », rispetto alla « fisionomia culturale » di un territorio, non può essere soddisfatta con puri strumenti legislativi, giacché questi non avrebbero efficacia se privi di fondamento nell'ethos della popolazione, e sarebbero oltre tutto naturalmente destinati a cambiare, quando una cultura perdesse di fatto la capacità di animare un popolo e un territorio, diventando una semplice eredità custodita in musei o monumenti artistici e letterari.

In realtà, una cultura, nella misura in cui è veramente vitale, non ha motivo di temere di essere sopraffatta, mentre nessuna legge potrebbe tenerla in vita quando fosse morta negli animi. Nella prospettiva poi del dialogo tra le culture, non si può impedire all'uno di proporre all'altro i valori in cui crede, purché ciò avvenga in modo rispettoso della libertà e della coscienza delle persone. « La verità non si impone che in forza della verità stessa, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore ».(8)

La consapevolezza dei valori comuni

16. Il dialogo tra le culture, strumento privilegiato per costruire la civiltà dell'amore, poggia sulla consapevolezza che vi sono valori comuni ad ogni cultura, perché radicati nella natura della persona. In tali valori l'umanità esprime i suoi tratti più veri e qualificanti. Lasciandosi alle spalle riserve ideologiche ed egoismi di parte, occorre coltivare negli animi la consapevolezza di questi valori, per alimentare quell'humus culturale di natura universale che rende possibile lo sviluppo fecondo di un dialogo costruttivo. Anche le differenti religioni possono e devono portare un contributo decisivo in questo senso. L'esperienza da me tante volte compiuta nell'incontro con rappresentanti di altre religioni — ricordo in particolare l'incontro di Assisi del 1986 e quello in Piazza san Pietro del 1999 — mi conferma nella fiducia che dalla reciproca apertura degli aderenti alle diverse religioni grandi benefici possono derivare alla causa della pace e del bene comune dell'umanità.

Il valore della solidarietà

17. Di fronte alle crescenti disuguaglianze presenti nel mondo, il primo valore di cui promuovere una consapevolezza sempre più diffusa è certamente quello della solidarietà. Ogni società si regge sulla base del rapporto originario delle persone tra loro, modulato in cerchi relazionali sempre più ampi — dalla famiglia agli altri gruppi sociali intermedi — fino a quello dell'intera società civile e della comunità statale. A loro volta gli Stati non possono fare a meno di entrare in rapporto tra loro: la presente situazione di interdipendenza planetaria aiuta a meglio percepire la comunanza di destino dell'intera famiglia umana, favorendo in tutte le persone pensose la stima per la virtù della solidarietà.

A tale proposito, occorre tuttavia rilevare che la crescente interdipendenza ha contribuito a mettere in luce molteplici disparità, come lo squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri; la frattura sociale, all'interno di ciascun Paese, tra chi vive nell'opulenza e chi è leso nella sua dignità, perché manca anche del necessario; il degrado ambientale e umano, provocato ed accelerato dall'uso irresponsabile delle risorse naturali. Tali disuguaglianze e sperequazioni sociali sono andate in alcuni casi aumentando, fino a portare i Paesi più poveri ad una inarrestabile deriva.

Al cuore di un'autentica cultura della solidarietà si pone, pertanto, la promozione della giustizia. Non si tratta solo di dare il superfluo a chi è nel bisogno, ma di « aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, a entrare nel circuito dello sviluppo economico e umano. Ciò sarà possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società ».(9)

Il valore della pace

18. La cultura della solidarietà è strettamente collegata con il valore della pace, obiettivo primario di ogni società e della convivenza nazionale e internazionale. Nel cammino verso una migliore intesa tra i popoli, tuttavia, numerose sono ancora le sfide che il mondo deve affrontare: esse mettono tutti di fronte a scelte improcrastinabili. La preoccupante crescita degli armamenti, mentre stenta a consolidarsi l'impegno per la non proliferazione delle armi nucleari, rischia di alimentare e di diffondere una cultura della competizione e della conflittualità, che non coinvolge soltanto gli Stati, ma anche entità non istituzionali, come gruppi paramilitari e organizzazioni terroristiche.

Il mondo si trova tuttora alle prese con le conseguenze di guerre passate e presenti, con le tragedie provocate dall'uso delle mine anti-uomo e dal ricorso alle orribili armi chimiche e biologiche. E che dire del permanente rischio di conflitti tra nazioni, di guerre civili all'interno di vari Stati e di una violenza diffusa, che le organizzazioni internazionali e i governi nazionali si rivelano quasi impotenti a fronteggiare? Dinanzi a simili minacce, tutti devono sentire il dovere morale di operare scelte concrete e tempestive, per promuovere la causa della pace e della comprensione tra gli uomini.

Il valore della vita

19. Un autentico dialogo tra le culture, oltre al sentimento del rispetto reciproco, non può non alimentare una viva sensibilità per il valore della vita. La vita umana non può essere vista come oggetto di cui disporre arbitrariamente, ma come la realtà più sacra e intangibile che sia presente sulla scena del mondo. Non ci può essere pace quando viene meno la salvaguardia di questo fondamentale bene. Non si può invocare la pace e disprezzare la vita. Il nostro tempo conosce luminosi esempi di generosità e di dedizione a servizio della vita, ma anche il triste scenario di centinaia di milioni di uomini consegnati dalla crudeltà o dall'indifferenza ad un destino doloroso e brutale. Si tratta di una tragica spirale di morte che comprende omicidi, suicidi, aborti, eutanasia, come pure le pratiche di mutilazione, le torture fisiche e psicologiche, le forme di coercizione ingiusta, l'imprigionamento arbitrario, il ricorso tutt'altro che necessario alla pena di morte, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, la compra-vendita di donne e bambini. A tale lista vanno aggiunte irresponsabili pratiche di ingegneria genetica, quali la clonazione e l'utilizzo di embrioni umani per la ricerca, a cui si vuole dare una giustificazione con un illegittimo riferimento alla libertà, al progresso della cultura, alla promozione dello sviluppo umano.

Quando i soggetti più fragili e indifesi della società subiscono tali atrocità, la stessa nozione di famiglia umana, basata sui valori della persona, della fiducia e del reciproco rispetto e aiuto, viene ad essere gravemente intaccata. Una civiltà basata sull'amore e sulla pace deve opporsi a queste sperimentazioni indegne dell'uomo.

Il valore dell'educazione

20. Per costruire la civiltà dell'amore, il dialogo tra le culture deve tendere al superamento di ogni egoismo etnocentrico per coniugare l'attenzione alla propria identità con la comprensione degli altri ed il rispetto della diversità. Si rivela fondamentale, a questo riguardo, la responsabilità dell'educazione. Essa deve trasmettere ai soggetti consapevolezza delle proprie radici e fornire punti di riferimento che consentano di definire la propria personale collocazione nel mondo. Deve al tempo stesso impegnarsi ad insegnare il rispetto per le altre culture. Occorre guardare oltre l'esperienza individuale immediata e accettare le differenze, scoprendo la ricchezza della storia degli altri e dei loro valori.

La conoscenza delle altre culture, compiuta con il dovuto senso critico e con solidi punti di riferimento etico, conduce ad una maggiore consapevolezza dei valori e dei limiti insiti nella propria e rivela, al tempo stesso, l'esistenza di un'eredità comune a tutto il genere umano. Proprio in virtù di questo allargamento di orizzonti, l'educazione ha una particolare funzione nella costruzione di un mondo più solidale e pacifico. Essa può contribuire all'affermazione di quell'umanesimo integrale, aperto alla dimensione etica e religiosa, che sa attribuire la dovuta importanza alla conoscenza e alla stima delle culture e dei valori spirituali delle varie civiltà.

Il perdono e la riconciliazione

21. Durante il Grande Giubileo, a duemila anni dalla nascita di Gesù, la Chiesa ha vissuto con particolare intensità il richiamo esigente della riconciliazione. E richiamo significativo anche nel quadro della complessa tematica del dialogo tra le culture. Spesso infatti il dialogo è difficile, perché su di esso pesa l'ipoteca di tragiche eredità di guerre, conflitti, violenze e odi, che la memoria continua ad alimentare. Per superare le barriere dell'incomunicabilità, la strada da percorrere è quella del perdono e della riconciliazione. Molti, in nome di un realismo disincantato, reputano questa strada utopistica ed ingenua. Nella visione cristiana, invece, questa è l'unica via per raggiungere la meta della pace.

Lo sguardo dei credenti si ferma a contemplare l'icona del Crocifisso. Poco prima di morire Gesù esclama: « Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34). Il malfattore crocifisso alla sua destra, udendo queste supreme parole del Redentore morente, si apre alla grazia della conversione, accoglie il Vangelo del perdono e ottiene la promessa della beatitudine eterna. L'esempio di Cristo ci rende certi che si possono realmente abbattere i tanti muri che bloccano la comunicazione e il dialogo tra gli uomini. Lo sguardo al Crocifisso ci infonde la fiducia che il perdono e la riconciliazione possono diventare prassi normale della vita quotidiana e di ogni cultura e, pertanto, concreta opportunità per costruire la pace e il futuro dell'umanità.

Ricordando la significativa esperienza giubilare della purificazione della memoria, desidero rivolgere ai cristiani un appello particolare, affinché diventino testimoni e missionari di perdono e di riconciliazione, affrettando, nell'operosa invocazione al Dio della pace, la realizzazione della splendida profezia di Isaia, che può essere estesa a tutti i popoli della terra: « In quel giorno ci sarà una strada dall'Egitto verso l'Assiria: l'Assiro andrà in Egitto e l'Egiziano in Assiria: gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele, il terzo con l'Egitto e l'Assiria, sarà una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: "Benedetto sia l'Egiziano mio popolo, l'Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità" » (Is 19,23-25).

Un appello ai giovani

22. Desidero concludere questo Messaggio di pace con uno speciale appello a voi, giovani del mondo intero, che siete il futuro dell'umanità e le pietre vive per costruire la civiltà dell'amore. Conservo nel cuore il ricordo degli incontri ricchi di commozione e di speranza che con voi ho avuto durante la recente Giornata Mondiale della Gioventù a Roma. La vostra adesione è stata gioiosa, convinta e promettente. Nella vostra energia e vitalità e nel vostro amore per Cristo ho intravisto un avvenire più sereno e umano per il mondo.

Nel sentirvi vicini, avvertivo dentro di me un sentimento profondo di gratitudine al Signore, che mi faceva la grazia di contemplare, attraverso il variopinto mosaico delle vostre differenti lingue, culture, costumi e mentalità, il miracolo dell'universalità della Chiesa, del suo essere cattolica, della sua unità. Attraverso di voi ho visto il mirabile comporsi delle diversità nell'unità della stessa fede, della stessa speranza, della stessa carità, come espressione eloquentissima della stupenda realtà della Chiesa, segno e strumento di Cristo per la salvezza del mondo e per l'unità del genere umano.(10) Il Vangelo vi chiama a ricostruire quell'originaria unità della famiglia umana, che ha la sua fonte in Dio Padre e Figlio e Spirito Santo.

Carissimi giovani di ogni lingua e cultura, vi aspetta un compito alto ed esaltante: essere uomini e donne capaci di solidarietà, di pace e di amore alla vita, nel rispetto di tutti. Siate artefici d'una nuova umanità, dove fratelli e sorelle, membri tutti d'una medesima famiglia, possano vivere finalmente nella pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2000.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NON C' È PACE SENZA GIUSTIZIA,
NON C' È GIUSTIZIA SENZA PERDONO

1 gennaio 2002

 

1. Quest'anno la Giornata Mondiale della Pace viene celebrata sullo sfondo dei drammatici eventi dell'11 settembre scorso. In quel giorno, fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura. Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane. La storia della salvezza, delineata nella Sacra Scrittura, proietta grande luce sull'intera storia del mondo, mostrando come questa sia sempre accompagnata dalla sollecitudine misericordiosa e provvida di Dio, che conosce le vie per toccare gli stessi cuori più induriti e trarre frutti buoni anche da un terreno arido e infecondo.

È questa la speranza che sostiene la Chiesa all'inizio del 2002: con la grazia di Dio il mondo, in cui il potere del male sembra ancora una volta avere la meglio, sarà realmente trasformato in un mondo in cui le aspirazioni più nobili del cuore umano potranno essere soddisfatte, un mondo nel quale prevarrà la vera pace.

 

La pace: opera di giustizia e di amore

2. Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza.

Le immani sofferenze dei popoli e dei singoli, tra i quali anche non pochi miei amici e conoscenti, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre interpellato il mio animo e stimolato la mia preghiera. Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell'ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l'ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell'amore che è il perdono.

3. Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. La vera pace, in realtà, è « opera della giustizia » (Is 32, 17). Come ha affermato il Concilio Vaticano II, la pace è « il frutto dell'ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta » (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 78). Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona l'insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a cui mirare con l'apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella tranquillità dell'ordine (cfr De civitate Dei, 19, 13).

La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.

Sono queste le due dimensioni della pace che desidero esplorare in questo messaggio. La Giornata Mondiale offre, quest'anno, a tutta l'umanità, e in particolar modo ai Capi delle Nazioni, l'opportunità di riflettere sulle esigenze della giustizia e sulla chiamata al perdono di fronte ai gravi problemi che continuano ad affliggere il mondo, non ultimo dei quali è il nuovo livello di violenza introdotto dal terrorismo organizzato. 

 

Il fenomeno del terrorismo

4. È proprio la pace fondata sulla giustizia e sul perdono che oggi è attaccata dal terrorismo internazionale. In questi ultimi anni, specialmente dopo la fine della guerra fredda, il terrorismo si è trasformato in una rete sofisticata di connivenze politiche, tecniche ed economiche, che travalica i confini nazionali e si allarga fino ad avvolgere il mondo intero. Si tratta di vere organizzazioni dotate spesso di ingenti risorse finanziarie, che elaborano strategie su vasta scala, colpendo persone innocenti, per nulla coinvolte nelle prospettive che i terroristi perseguono.

Adoperando i loro stessi seguaci come armi da lanciare contro inermi persone inconsapevoli, queste organizzazioni terroristiche manifestano in modo sconvolgente l'istinto di morte che le alimenta. Il terrorismo nasce dall'odio ed ingenera isolamento, diffidenza e chiusura. Violenza si aggiunge a violenza, in una tragica spirale che coinvolge anche le nuove generazioni, le quali ereditano così l'odio che ha diviso quelle precedenti. Il terrorismo si fonda sul disprezzo della vita dell'uomo. Proprio per questo esso non dà solo origine a crimini intollerabili, ma costituisce esso stesso, in quanto ricorso al terrore come strategia politica ed economica, un vero crimine contro l'umanità.

5. Esiste perciò un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L'identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi. La collaborazione internazionale nella lotta contro l'attività terroristica deve comportare anche un particolare impegno sul piano politico, diplomatico ed economico per risolvere con coraggio e determinazione le eventuali situazioni di oppressione e di emarginazione che fossero all'origine dei disegni terroristici. Il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate.

Occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici. Si deve rilevare, inoltre, che tra le vittime del crollo radicale dell'ordine, ricercato dai terroristi, sono da includere in primo luogo i milioni di uomini e di donne meno attrezzati per resistere al collasso della solidarietà internazionale. Alludo specificamente ai popoli del mondo in via di sviluppo, i quali già vivono in margini ristretti di sopravvivenza e che sarebbero i più dolorosamente colpiti dal caos globale economico e politico. La pretesa del terrorismo di agire in nome dei poveri è una palese falsità.

 

Non si uccide in nome di Dio!

6. Chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l'umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro: tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto. Il terrorista ritiene che la verità in cui crede o la sofferenza patita siano talmente assolute da legittimarlo a reagire distruggendo anche vite umane innocenti. Talora il terrorismo è figlio di un fondamentalismo fanatico, che nasce dalla convinzione di poter imporre a tutti l'accettazione della propria visione della verità. La verità, invece, anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l'immagine stessa di Dio (cfr Gn 1, 26-27), consente solo di proporre la verità all'altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla. Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell'essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine. Per questo il fanatismo fondamentalista è un atteggiamento radicalmente contrario alla fede in Dio. A ben guardare il terrorismo strumentalizza non solo l'uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi. 

7. Nessun responsabile delle religioni, pertanto, può avere indulgenza verso il terrorismo e, ancor meno, lo può predicare. È profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio, far violenza all'uomo in nome di Dio. La violenza terrorista è contraria alla fede in Dio Creatore dell'uomo, in Dio che si prende cura dell'uomo e lo ama. In particolare, essa è totalmente contraria alla fede in Cristo Signore, che ha insegnato ai suoi discepoli a pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6, 12).

Seguendo l'insegnamento e l'esempio di Gesù, i cristiani sono convinti che dimostrare misericordia significhi vivere pienamente la verità della nostra vita: possiamo e dobbiamo essere misericordiosi, perché ci è stata mostrata misericordia da un Dio che è Amore misericordioso (cfr 1 Gv 4, 7-12). Il Dio che ci redime mediante il suo ingresso nella storia e attraverso il dramma del Venerdì Santo prepara la vittoria del giorno di Pasqua, è un Dio di misericordia e di perdono (cfr Sal 103 [102], 3-4.10-13). Gesù, nei confronti di quanti lo contestavano per il fatto che mangiava con i peccatori, così si è espresso: « Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori » (Mt 9, 13). I seguaci di Cristo, battezzati nella sua morte e nella sua risurrezione, devono essere sempre uomini e donne di misericordia e di perdono.

 

La necessità del perdono

8. Ma che cosa significa, in concreto, perdonare? E perché perdonare? Un discorso sul perdono non può eludere questi interrogativi. Riprendendo una riflessione che ebbi già modo di offrire per la Giornata Mondiale della Pace 1997 (« Offri il perdono, ricevi la pace »), desidero ricordare che il perdono ha la sua sede nel cuore di ciascuno, prima di essere un fatto sociale. Solo nella misura in cui si affermano un'etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una « politica del perdono », espressa in atteggiamenti sociali ed istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano.

In realtà, il perdono è innanzitutto una scelta personale, una opzione del cuore che va contro l'istinto spontaneo di ripagare il male col male. Tale opzione ha il suo termine di confronto nell'amore di Dio, che ci accoglie nonostante il nostro peccato, e ha il suo modello supremo nel perdono di Cristo che sulla croce ha pregato: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23, 34).

Il perdono ha dunque una radice e una misura divine. Questo tuttavia non esclude che se ne possa cogliere il valore anche alla luce di considerazioni di umana ragionevolezza. Prima fra tutte, quella relativa all'esperienza che l'essere umano vive in se stesso quando commette il male. Egli si rende allora conto della sua fragilità e desidera che gli altri siano indulgenti con lui. Perché dunque non fare agli altri ciò che ciascuno desidera sia fatto a se stesso? Ogni essere umano coltiva in sé la speranza di poter ricominciare un percorso di vita e di non rimanere prigioniero per sempre dei propri errori e delle proprie colpe. Sogna di poter tornare a sollevare lo sguardo verso il futuro, per scoprire ancora una prospettiva di fiducia e di impegno. 

9. In quanto atto umano, il perdono è innanzitutto un'iniziativa del singolo soggetto nel suo rapporto con gli altri suoi simili. La persona, tuttavia, ha un'essenziale dimensione sociale, in virtù della quale intreccia una rete di rapporti in cui esprime se stessa: non solo nel bene, purtroppo, ma anche nel male. Conseguenza di ciò è che il perdono si rende necessario anche a livello sociale. Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale.

Il perdono mancato, al contrario, specialmente quando alimenta la continuazione di conflitti, ha costi enormi per lo sviluppo dei popoli. Le risorse vengono impiegate per sostenere la corsa agli armamenti, le spese delle guerre, le conseguenze delle ritorsioni economiche. Vengono così a mancare le disponibilità finanziarie necessarie per produrre sviluppo, pace, giustizia. Quanti dolori soffre l'umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono.

 

Il perdono, strada maestra

10. La proposta del perdono non è di immediata comprensione né di facile accettazione; è un messaggio per certi versi paradossale. Il perdono infatti comporta sempre un'apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine. La violenza è l'esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara a distanza una perdita reale e permanente. Il perdono potrebbe sembrare una debolezza; in realtà, sia per essere concesso che per essere accettato, suppone una grande forza spirituale e un coraggio morale a tutta prova. Lungi dallo sminuire la persona, il perdono la conduce ad una umanità più piena e più ricca, capace di riflettere in sé un raggio dello splendore del Creatore.

Il ministero che svolgo al servizio del Vangelo mi fa sentire vivamente il dovere, e mi dà al tempo stesso la forza, di insistere sulla necessità del perdono. Lo faccio anche oggi, sorretto dalla speranza di poter suscitare riflessioni serene e mature in vista di un generale rinnovamento, nei cuori delle persone e nelle relazioni tra i popoli della terra. 

11. Meditando sul tema del perdono, non si possono non ricordare alcune tragiche situazioni di conflitto, che da troppo tempo alimentano odi profondi e laceranti, con la conseguente spirale inarrestabile di tragedie personali e collettive. Mi riferisco, in particolare, a quanto avviene nella Terra Santa, luogo benedetto e sacro dell'incontro di Dio con gli uomini, luogo della vita, morte e risurrezione di Gesù, il Principe della pace.

La delicata situazione internazionale sollecita a sottolineare con forza rinnovata l'urgenza della risoluzione del conflitto arabo-israeliano, che dura ormai da più di cinquant'anni, con un'alternanza di fasi più o meno acute. Il continuo ricorso ad atti terroristici o di guerra, che aggravano per tutti la situazione e incupiscono le prospettive, deve lasciare finalmente il posto ad un negoziato risolutore. I diritti e le esigenze di ciascuno potranno essere tenuti in debito conto e contemperati in modo equo, se e quando prevarrà in tutti la volontà di giustizia e di riconciliazione. A quegli amati popoli rivolgo nuovamente l'invito accorato ad adoperarsi per un'era nuova di rispetto mutuo e di accordo costruttivo.

 

Comprensione e cooperazione interreligiosa

12. In questo grande sforzo, i leader religiosi hanno una loro specifica responsabilità. Le confessioni cristiane e le grandi religioni dell'umanità devono collaborare tra loro per eliminare le cause sociali e culturali del terrorismo, insegnando la grandezza e la dignità della persona e diffondendo una maggiore consapevolezza dell'unità del genere umano. Si tratta di un preciso campo del dialogo e della collaborazione ecumenica ed interreligiosa, per un urgente servizio delle religioni alla pace tra i popoli.

In particolare, sono convinto che i leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani debbano prendere l'iniziativa mediante la condanna pubblica del terrorismo, rifiutando a chi se ne rende partecipe ogni forma di legittimazione religiosa o morale. 

13. Nel dare comune testimonianza alla verità morale secondo cui l'assassinio deliberato dell'innocente è sempre un grave peccato, dappertutto e senza eccezioni, i leader religiosi del mondo favoriranno la formazione di una pubblica opinione moralmente corretta. E questo il presupposto necessario per l'edificazione di una società internazionale capace di perseguire la tranquillità dell'ordine nella giustizia e nella libertà.

Un impegno di questo tipo da parte delle religioni non potrà non introdursi sulla via del perdono, che porta alla comprensione reciproca, al rispetto e alla fiducia. Il servizio che le religioni possono dare per la pace e contro il terrorismo consiste proprio nella pedagogia del perdono, perché l'uomo che perdona o chiede perdono capisce che c'è una Verità più grande di lui, accogliendo la quale egli può trascendere se stesso.

 

Preghiera per la pace

14. Proprio per questa ragione, la preghiera per la pace non è un elemento che « viene dopo » l'impegno per la pace. Al contrario, essa sta al cuore dello sforzo per l'edificazione di una pace nell'ordine, nella giustizia e nella libertà. Pregare per la pace significa aprire il cuore umano all'irruzione della potenza rinnovatrice di Dio. Dio, con la forza vivificante della sua grazia, può creare aperture per la pace là dove sembra che vi siano soltanto ostacoli e chiusure; può rafforzare e allargare la solidarietà della famiglia umana, nonostante lunghe storie di divisioni e di lotte. Pregare per la pace significa pregare per la giustizia, per un adeguato ordinamento all'interno delle Nazioni e nelle relazioni fra di loro. Vuol dire anche pregare per la libertà, specialmente per la libertà religiosa, che è un diritto fondamentale umano e civile di ogni individuo. Pregare per la pace significa pregare per ottenere il perdono di Dio e per crescere al tempo stesso nel coraggio che è necessario a chi vuole a propria volta perdonare le offese subite.

Per tutti questi motivi ho invitato i rappresentanti delle religioni del mondo a venire ad Assisi, la città di san Francesco, il prossimo 24 gennaio, a pregare per la pace. Vogliamo con ciò mostrare che il genuino sentimento religioso è una sorgente inesauribile di mutuo rispetto e di armonia tra i popoli: in esso, anzi, risiede il principale antidoto contro la violenza ed i conflitti. In questo tempo di grave preoccupazione, l'umana famiglia ha bisogno di sentirsi ricordare le sicure ragioni della nostra speranza. Proprio questo noi intendiamo proclamare ad Assisi, pregando Dio Onnipotente — secondo la suggestiva espressione attribuita allo stesso san Francesco — di fare di noi uno strumento della sua pace.

15. Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: ecco ciò che voglio annunciare in questo Messaggio a credenti e non credenti, agli uomini e alle donne di buona volontà, che hanno a cuore il bene della famiglia umana e il suo futuro.

Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo voglio ricordare a quanti detengono le sorti delle comunità umane, affinché si lascino sempre guidare, nelle loro scelte gravi e difficili, dalla luce del vero bene dell'uomo, nella prospettiva del bene comune.

Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo monito non mi stancherò di ripetere a quanti, per una ragione o per l'altra, coltivano dentro di sé odio, desiderio di vendetta, bramosia di distruzione.

In questa Giornata della Pace, salga dal cuore di ogni credente più intensa la preghiera per ciascuna delle vittime del terrorismo, per le loro famiglie tragicamente colpite, e per tutti i popoli che il terrorismo e la guerra continuano a ferire e a sconvolgere. Non restino fuori del raggio di luce della nostra preghiera coloro stessi che offendono gravemente Dio e l'uomo mediante questi atti senza pietà: sia loro concesso di rientrare in se stessi e di rendersi conto del male che compiono, così che siano spinti ad abbandonare ogni proposito di violenza e a cercare il perdono. In questi tempi burrascosi, possa l'umana famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall'incontro della giustizia con la misericordia! 

Dal Vaticano, 8 dicembre 2001.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

PACEM IN TERRIS:
UN IMPEGNO PERMANENTE

1 gennaio 2003

 

1. Sono trascorsi quasi quarant'anni da quell'11 aprile 1963, in cui Papa Giovanni XXIII pubblicò la storica Lettera enciclica Pacem in terris. Si celebrava in quel giorno il Giovedì Santo. Rivolgendosi «a tutti gli uomini di buona volontà», il mio venerato Predecessore, che sarebbe morto due mesi più tardi, compendiava il suo messaggio di pace al mondo nella prima affermazione dell'Enciclica: «La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris, introd.: AAS, 55 [1963], 257).

 

Parlare di pace ad un mondo diviso

2. In realtà, il mondo a cui Giovanni XXIII si rivolgeva era in un profondo stato di disordine. Il XX secolo era iniziato con una grande attesa di progresso. L'umanità aveva invece dovuto registrare, in sessant'anni di storia, lo scoppio di due guerre mondiali, l'affermarsi di sistemi totalitari devastanti, l'accumularsi di immense sofferenze umane e lo scatenarsi, nei confronti della Chiesa, della più grande persecuzione che la storia abbia mai conosciuto. 

Solo due anni prima della Pacem in terris, nel 1961, il « muro di Berlino » veniva eretto per dividere e mettere l'una contro l'altra non soltanto due parti di quella Città, ma anche due modi di comprendere e di costruire la città terrena. Da una parte e dall'altra del muro la vita assunse uno stile differente, ispirato a regole tra loro spesso contrapposte, in un clima diffuso di sospetto e di diffidenza. Tanto come visione del mondo quanto come concreta impostazione della vita, quel muro attraversò l'umanità nel suo insieme e penetrò nel cuore e nella mente delle persone, creando divisioni che sembravano destinate a durare per sempre.

Inoltre, proprio sei mesi prima della pubblicazione dell'Enciclica, mentre a Roma si era da pochi giorni aperto il Concilio Vaticano II, il mondo, a causa della crisi dei missili a Cuba, si trovò sull'orlo di una guerra nucleare. La strada verso un mondo di pace, di giustizia e di libertà sembrava bloccata. Molti ritenevano che l'umanità fosse condannata a vivere per tanto tempo ancora in quelle precarie condizioni di « guerra fredda », costantemente sottoposta all'incubo che un'aggressione o un incidente potessero scatenare da un giorno all'altro la peggior guerra di tutta la storia umana. L'uso delle armi atomiche, infatti, l'avrebbe trasformata in un conflitto che avrebbe messo a repentaglio il futuro stesso dell'umanità.

 

I quattro pilastri della pace

3. Papa Giovanni XXIII non era d'accordo con coloro che ritenevano impossibile la pace. Con l'Enciclica, egli fece sì che questo fondamentale valore – con tutta la sua esigente verità – cominciasse a bussare da entrambe le parti di quel muro e di tutti i muri. A ciascuno l'Enciclica parlò della comune appartenenza alla famiglia umana e accese per tutti una luce sull'aspirazione della gente di ogni parte della terra a vivere in sicurezza, giustizia e speranza per il futuro.

Da spirito illuminato qual era, Giovanni XXIII identificò le condizioni essenziali per la pace in quattro precise esigenze dell'animo umano: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà (cfr ibid., I: l.c., 265-266). La verità – egli disse – sarà fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L'amore sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni.

Guardando al presente e al futuro con gli occhi della fede e della ragione, il beato Giovanni XXIII intravide ed interpretò le spinte profonde che già erano all'opera nella storia. Egli sapeva che le cose non sempre sono come appaiono in superficie. Malgrado le guerre e le minacce di guerre, c'era qualcos'altro all'opera nelle vicende umane, qualcosa che il Papa colse come il promettente inizio di una rivoluzione spirituale. 

 

Una nuova coscienza della dignità dell'uomo e dei suoi inalienabili diritti

4. L'umanità, egli scrisse, ha intrapreso una nuova tappa del suo cammino (cfr ibid., I: l.c., 267-269). La fine del colonialismo, la nascita di nuovi Stati indipendenti, la difesa più efficace dei diritti dei lavoratori, la nuova e gradita presenza delle donne nella vita pubblica, gli apparivano come altrettanti segni di un'umanità che stava entrando in una nuova fase della sua storia, una fase caratterizzata dalla « convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale » (ibid., I: l.c., 268). Certo, tale dignità era ancora calpestata in molte parti del mondo. Il Papa non lo ignorava. Egli era tuttavia convinto che, malgrado la situazione fosse sotto alcuni aspetti drammatica, il mondo stava diventando sempre più consapevole di certi valori spirituali e sempre più aperto alla ricchezza di contenuto di quei «pilastri della pace» che erano la verità, la giustizia, l'amore e la libertà (cfr ibid., I: l.c., 268-269). Attraverso l'impegno di portare questi valori nella vita sociale, sia nazionale che internazionale, uomini e donne sarebbero diventati sempre più consapevoli dell'importanza del loro rapporto con Dio, fonte di ogni bene, quale solido fondamento e supremo criterio della loro vita, sia come singoli individui che come esseri sociali (cfr ibid.). Questa più acuta sensibilità spirituale, il Papa ne era convinto, avrebbe avuto anche profonde conseguenze pubbliche e politiche.

Davanti alla crescente consapevolezza dei diritti umani che andava emergendo a livello sia nazionale che internazionale, Giovanni XXIII intuì la forza insita nel fenomeno ed il suo straordinario potere di cambiare la storia. Quel che avvenne pochi anni dopo soprattutto nell'Europa centrale ed orientale ne offrì la singolare conferma. La strada verso la pace, insegnava il Papa nell'Enciclica, doveva passare attraverso la difesa e la promozione dei diritti umani fondamentali. Di essi infatti ogni persona umana gode, non come di beneficio elargito da una certa classe sociale o dallo Stato, ma come di una prerogativa che le è propria in quanto persona: «In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (ibid., I: l.c., 259).

Non si trattava semplicemente di idee astratte. Erano idee dalle vaste conseguenze pratiche, come la storia avrebbe presto dimostrato. Sulla base della convinzione che ogni essere umano è uguale in dignità e che, di conseguenza, la società deve adeguare le sue strutture a tale presupposto, sorsero ben presto i movimenti per i diritti umani, che diedero espressione politica concreta a una delle grandi dinamiche della storia contemporanea. La promozione della libertà fu riconosciuta come una componente indispensabile dell'impegno per la pace. Emergendo praticamente in ogni parte del mondo, questi movimenti contribuirono al rovesciamento di forme di governo dittatoriali e spinsero a sostituirle con altre forme più democratiche e partecipative. Essi dimostrarono, in pratica, che pace e progresso possono essere ottenuti solo attraverso il rispetto della legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite, 5 ottobre 1995, n. 3). 

 

Il bene comune universale

5. Su di un altro punto l'insegnamento della Pacem in terris si dimostrò profetico, precorrendo la fase successiva dell'evoluzione delle politiche mondiali. Davanti ad un mondo che stava diventando sempre più interdipendente e globale, Papa Giovanni XXIII suggerì che il concetto di bene comune doveva essere elaborato con un orizzonte mondiale. Ormai, per essere corretto, il discorso doveva far riferimento al concetto di «bene comune universale» (Pacem in terris, IV: l.c., 292). Una delle conseguenze di questa evoluzione era l'evidente esigenza che vi fosse un'autorità pubblica a livello internazionale, che potesse disporre dell'effettiva capacità di promuovere tale bene comune universale. Questa autorità, soggiungeva immediatamente il Papa, non avrebbe dovuto essere stabilita attraverso la coercizione, ma solo attraverso il consenso delle nazioni. Si sarebbe dovuto trattare di un organismo avente come «obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona» (ibid., IV: l.c., 294).

Non sorprende perciò che Giovanni XXIII guardasse con grande speranza all'Organizzazione delle Nazioni Unite, costituita il 26 giugno 1945. Egli vedeva in essa uno strumento credibile per mantenere e rafforzare la pace nel mondo. Proprio per questo espresse particolare apprezzamento per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, considerandola «un passo importante nel cammino verso l'organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale» (ibid., IV: l.c., 295). In tale Dichiarazione infatti venivano fissati i fondamenti morali sui quali avrebbe potuto poggiare l'edificazione di un mondo caratterizzato dall'ordine anziché dal disordine, dal dialogo anziché dalla forza. In questa prospettiva, il Papa lasciava intendere che la difesa dei diritti umani da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite era il presupposto indispensabile per lo sviluppo della capacità dell'Organizzazione stessa di promuovere e difendere la sicurezza internazionale.

Non solo la visione precorritrice di Papa Giovanni XXIII, la prospettiva cioè di un'autorità pubblica internazionale a servizio dei diritti umani, della libertà e della pace, non si è ancora interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo, la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel dovere di rispettare e applicare i diritti umani. Questo dovere tocca tutti i diritti fondamentali e non consente scelte arbitrarie, che porterebbero a realizzare forme di discriminazione e di ingiustizia. Allo stesso tempo, siamo testimoni dell'affermarsi di una preoccupante forbice tra una serie di nuovi «diritti» promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo: penso, ad esempio, al diritto al cibo, all'acqua potabile, alla casa, all'auto- determinazione e all'indipendenza. La pace richiede che questa distanza sia urgentemente ridotta e infine superata.

Un'osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d'insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l'ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell'esercizio di un arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo.

 

Un nuovo ordine morale internazionale

6. Resta comunque vero che, nonostante molte difficoltà e ritardi, nei quarant'anni trascorsi si è avuto un notevole progresso verso la realizzazione della nobile visione di Papa Giovanni XXIII. Il fatto che gli Stati quasi in ogni parte del mondo si sentano obbligati ad onorare l'idea dei diritti umani mostra come siano potenti gli strumenti della convinzione morale e dell'integrità spirituale. Furono queste le forze che si rivelarono decisive in quella mobilitazione delle coscienze che fu all'origine della rivoluzione non violenta del 1989, evento che determinò il crollo del comunismo europeo. E sebbene nozioni distorte di libertà, intesa come licenza, continuino a minacciare la democrazia e le società libere, è sicuramente significativo che, nei quarant'anni trascorsi dalla Pacem in terris, molte popolazioni del mondo siano diventate più libere, strutture di dialogo e di cooperazione tra le nazioni si siano rafforzate e la minaccia di una guerra globale nucleare, quale si profilò drasticamente ai tempi di Papa Giovanni XXIII, sia stata efficacemente contenuta.

A questo proposito, con umile coraggio vorrei osservare come l'insegnamento plurisecolare della Chiesa sulla pace intesa come «tranquillitas ordinis» – «tranquillità dell'ordine», secondo la definizione di Sant'Agostino (De civitate Dei, 19, 13), si sia rivelato, alla luce anche degli approfondimenti della Pacem in terris, particolarmente significativo per il mondo odierno, tanto per i Capi delle nazioni quanto per i semplici cittadini. Che ci sia un grande disordine nella situazione del mondo contemporaneo è constatazione da tutti facilmente condivisa. L'interrogativo che si impone è perciò il seguente: quale tipo di ordine può sostituire questo disordine, per dare agli uomini e alle donne la possibilità di vivere in libertà, giustizia e sicurezza? E poiché il mondo, pur nel suo disordine, si sta comunque «organizzando» in vari campi (economico, culturale e perfino politico), sorge un'altra domanda ugualmente pressante: secondo quali principi si stanno sviluppando queste nuove forme di ordine mondiale?

Queste domande ad ampio raggio indicano che il problema dell'ordine negli affari mondiali, che è poi il problema della pace rettamente intesa, non può prescindere da questioni legate ai principi morali. In altre parole, emerge anche da questa angolatura la consapevolezza che la questione della pace non può essere separata da quella della dignità e dei diritti umani. Proprio questa è una delle perenni verità insegnate dalla Pacem in terris, e noi faremmo bene a ricordarla e a meditarla in questo quarantesimo anniversario.

Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare alla costituzione di una nuova organizzazione dell'intera famiglia umana, per assicurare la pace e l'armonia tra i popoli, ed insieme promuovere il loro progresso integrale? È importante evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla costituzione di un super-stato globale. Si intende piuttosto sottolineare l'urgenza di accelerare i processi già in corso per rispondere alla pressoché universale domanda di modi democratici nell'esercizio dell'autorità politica, sia nazionale che internazionale, come anche alla richiesta di trasparenza e di credibilità ad ogni livello della vita pubblica. Confidando nella bontà presente nel cuore di ogni persona, Papa Giovanni XXIII volle far leva su di essa e chiamò il mondo intero ad una più nobile visione della vita pubblica e dell'esercizio della pubblica autorità. Con audacia, spinse il mondo a proiettarsi al di là del proprio presente stato di disordine, e ad immaginare nuove forme di ordine internazionale che fossero a misura della dignità umana.

 

Il legame tra pace e verità

7. Contestando la visione di coloro che pensavano alla politica come ad un territorio svincolato dalla morale e soggetto al solo criterio dell'interesse, Giovanni XXIII, attraverso l'Enciclica Pacem in terris, delineò una più vera immagine dell'umana realtà e indicò la via verso un futuro migliore per tutti. Proprio perché le persone sono create con la capacità di elaborare scelte morali, nessuna attività umana si situa al di fuori della sfera dei valori etici. La politica è un'attività umana; perciò anch'essa è soggetta al giudizio morale. Questo è vero anche per la politica internazionale. Il Papa scriveva: «La stessa legge naturale che regola i rapporti tra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche» (Pacem in terris, III: l.c., 279). Quanti ritengono che la vita pubblica internazionale si esplichi in qualche modo fuori dell'ambito del giudizio morale, non hanno che da riflettere sull'impatto dei movimenti per i diritti umani sulle politiche nazionali e internazionali del XX secolo, da poco concluso. Questi sviluppi, che l'insegnamento dell'Enciclica aveva precorso, confutano decisamente la pretesa che le politiche internazionali si collochino in una sorta di «zona franca » in cui la legge morale non avrebbe alcun potere.

Forse non c'è un altro luogo in cui si avverta con uguale chiarezza la necessità di un uso corretto dell'autorità politica, quanto nella drammatica situazione del Medio Oriente e della Terra Santa. Giorno dopo giorno e anno dopo anno, l'effetto cumulativo di un esasperato rifiuto reciproco e di una catena infinita di violenze e di vendette ha frantumato sinora ogni tentativo di avviare un dialogo serio sulle reali questioni in causa. La precarietà della situazione è resa ancor più drammatica dallo scontro di interessi esistente tra i membri della comunità internazionale. Finché coloro che occupano posizioni di responsabilità non accetteranno di porre coraggiosamente in questione il loro modo di gestire il potere e di procurare il benessere dei loro popoli, sarà difficile immaginare che si possa davvero progredire verso la pace. La lotta fratricida, che ogni giorno scuote la Terra Santa contrapponendo tra loro le forze che tessono l'immediato futuro del Medio Oriente, pone l'urgente esigenza di uomini e di donne convinti della necessità di una politica fondata sul rispetto della dignità e dei diritti della persona. Una simile politica è per tutti incomparabilmente più vantaggiosa che la continuazione delle situazioni di conflitto in atto. Occorre partire da questa verità. Essa è sempre più liberante di qualsiasi forma di propaganda, specialmente quando tale propaganda servisse a dissimulare intenzioni inconfessabili.

 

Le premesse di una pace durevole

8. C'è un legame inscindibile tra l'impegno per la pace e il rispetto della verità. L'onestà nel dare informazioni, l'equità dei sistemi giuridici, la trasparenza delle procedure democratiche danno ai cittadini quel senso di sicurezza, quella disponibilità a comporre le controversie con mezzi pacifici e quella volontà di intesa leale e costruttiva che costituiscono le vere premesse di una pace durevole. Gli incontri politici a livello nazionale e internazionale servono la causa della pace solo se l'assunzione comune degli impegni è poi rispettata da ogni parte. In caso contrario, questi incontri rischiano di diventare irrilevanti e inutili, ed il risultato è che la gente è tentata di credere sempre meno all'utilità del dialogo e di confidare invece nell'uso della forza come via per risolvere le controversie. Le ripercussioni negative, che sul processo di pace hanno gli impegni presi e poi non rispettati, devono indurre i Capi di Stato e di Governo a ponderare con grande senso di responsabilità ogni loro decisione.

Pacta sunt servanda, recita l'antico adagio. Se tutti gli impegni assunti devono essere rispettati, speciale cura deve essere posta nel dare esecuzione agli impegni assunti verso i poveri. Particolarmente frustrante sarebbe infatti, nei loro confronti, il mancato adempimento di promesse da loro sentite come di vitale interesse. In questa prospettiva, il mancato adempimento degli impegni con le nazioni in via di sviluppo costituisce una seria questione morale e mette ancora più in luce l'ingiustizia delle disuguaglianze esistenti nel mondo. La sofferenza causata dalla povertà risulta drammaticamente accresciuta dal venir meno della fiducia. Il risultato finale è la caduta di ogni speranza. La presenza della fiducia nelle relazioni internazionali è un capitale sociale di valore fondamentale.

 

Una cultura di pace

9. A voler guardare le cose a fondo, si deve riconoscere che la pace non è tanto questione di strutture, quanto di persone. Strutture e procedure di pace – giuridiche, politiche ed economiche – sono certamente necessarie e fortunatamente sono spesso presenti. Esse tuttavia non sono che il frutto della saggezza e dell'esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli gesti di pace, posti da uomini e donne che hanno saputo sperare senza cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di pace nascono dalla vita di persone che coltivano nel proprio animo costanti atteggiamenti di pace. Sono frutto della mente e del cuore di «operatori di pace» (Mt 5, 9). Gesti di pace sono possibili quando la gente apprezza pienamente la dimensione comunitaria della vita, così da percepire il significato e le conseguenze che certi eventi hanno sulla propria comunità e sul mondo nel suo insieme. Gesti di pace creano una tradizione e una cultura di pace.

La religione possiede un ruolo vitale nel suscitare gesti di pace e nel consolidare condizioni di pace. Essa può esercitare questo ruolo tanto più efficacemente, quanto più decisamente si concentra su ciò che le è proprio: l'apertura a Dio, l'insegnamento di una fratellanza universale e la promozione di una cultura di solidarietà. La «Giornata di preghiera per la pace», che ho promosso ad Assisi il 24 gennaio 2002 coinvolgendo i rappresentanti di numerose religioni, aveva proprio questo scopo. Voleva esprimere il desiderio di educare alla pace attraverso la diffusione di una spiritualità e di una cultura di pace.

 

L'eredità della «Pacem in terris»

10. Il beato Giovanni XXIII era persona che non temeva il futuro. Lo aiutava in questo atteggiamento di ottimismo quella convinta confidenza in Dio e nell'uomo che gli veniva dal profondo clima di fede in cui era cresciuto. Forte di questo abbandono alla Provvidenza, persino in un contesto che sembrava di permanente conflitto, non esitò a proporre ai leader del suo tempo una visione nuova del mondo. È questa l'eredità che egli ci ha lasciato. Guardando a lui, in questa Giornata Mondiale della Pace 2003, siamo invitati ad impegnarci in quei medesimi sentimenti che furono suoi: fiducia in Dio misericordioso e compassionevole, che ci chiama alla fratellanza; fiducia negli uomini e nelle donne del nostro come di ogni altro tempo, a motivo dell'immagine di Dio impressa ugualmente negli animi di tutti. È partendo da questi sentimenti che si può sperare di costruire un mondo di pace sulla terra.

All'inizio di un nuovo anno nella storia dell'umanità, è questo l'augurio che mi sale spontaneo dal profondo del cuore: che nell'animo di tutti possa sbocciare uno slancio di rinnovata adesione alla nobile missione che l'Enciclica Pacem in terris proponeva quarant'anni fa a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Tale compito, che l'Enciclica qualificava come «immenso», era indicato nel «ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell'amore, nella libertà». Il Papa precisava poi di riferirsi ai «rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche, da una parte, e, dall'altra, la comunità mondiale». E concludeva ribadendo che l'impegno di «attuare la vera pace nell'ordine stabilito da Dio» costituiva un «ufficio nobilissimo» (Pacem in terris, V: l.c., 301-302).

Il quarantesimo anniversario della Pacem in terris è un'occasione quanto mai opportuna per fare tesoro dell'insegnamento profetico di Papa Giovanni XXIII. Le comunità ecclesiali studieranno come celebrare questo anniversario in modo appropriato durante l'anno, con iniziative che non mancheranno di avere carattere ecumenico e interreligioso, aprendosi a tutti coloro che hanno un profondo anelito a «superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie» (ibid., V: l.c., 304).

Accompagno questi auspici con la preghiera a Dio Onnipotente, sorgente di ogni nostro bene. Egli, che dalle condizioni di oppressione e di conflitto ci chiama alla libertà e alla cooperazione per il bene di tutti, aiuti le persone in ogni angolo della terra a costruire un mondo di pace, sempre più saldamente fondato sui quattro pilastri che il beato Giovanni XXIII ha indicato a tutti nella sua storica Enciclica: verità, giustizia, amore e libertà.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2002.

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXVII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

UN IMPEGNO SEMPRE ATTUALE:
EDUCARE ALLA PACE

1 gennaio 2004

 

 A voi mi rivolgo, Capi delle Nazioni, che avete il dovere di promuovere la pace!

A voi, Giuristi, impegnati a tracciare cammini di pacifica intesa, predisponendo convenzioni e trattati che rafforzano la legalità internazionale!

A voi, Educatori della gioventù, che in ogni continente instancabilmente lavorate per formare le coscienze nel cammino della comprensione e del dialogo!

Ed anche a voi mi rivolgo, uomini e donne che siete tentati di ricorrere all'inaccettabile strumento del terrorismo, compromettendo così alla radice la causa per la quale combattete!

Ascoltate tutti l'umile appello del successore di Pietro che grida: Oggi ancora, all'inizio del nuovo anno 2004, la pace resta possibile. E se possibile, la pace è anche doverosa!

Una concreta iniziativa

1. Il primo mio Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, all'inizio del Gennaio del 1979, era centrato sul motto: «  Per giungere alla pace, educare alla pace  ».

Quel Messaggio di Capodanno si inseriva nel solco tracciato dal Papa Paolo VI, di v. m., il quale aveva voluto per il 1º Gennaio di ogni anno la celebrazione di una Giornata Mondiale di preghiere per la Pace. Ricordo le parole del compianto Pontefice nel Capodanno 1968: «  Sarebbe Nostro desiderio che poi ogni anno questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa, all'inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo, che sia la pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo svolgimento della storia avvenire  ».(1)

Facendo mio il voto espresso dal venerato Predecessore sulla Cattedra di Pietro, ogni anno ho voluto continuare la nobile tradizione, dedicando il primo giorno dell'anno civile alla riflessione ed alla preghiera per la pace nel mondo.

Nei venticinque anni di Pontificato, che il Signore mi ha finora concesso, non ho cessato di levare la mia voce, di fronte alla Chiesa ed al mondo, per invitare i credenti, come tutte le persone di buona volontà, a far propria la causa della pace, per contribuire a realizzare questo bene primario, assicurando così al mondo un'era migliore, nella serena convivenza e nel rispetto reciproco.

Anche quest'anno sento il dovere di invitare gli uomini e le donne di ogni Continente a celebrare una nuova Giornata Mondiale della Pace. L'umanità infatti ha più che mai bisogno di ritrovare la strada della concordia, scossa com'è da egoismi e da odi, da sete di dominio e da desiderio di vendetta.

La scienza della pace

2. Gli undici Messaggi rivolti al mondo dal Papa Paolo VI hanno progressivamente tracciato le coordinate del cammino da compiere per raggiungere l'ideale della pace. Poco a poco, il grande Pontefice è venuto illustrando i vari capitoli di una vera e propria «  scienza della pace  ». Può essere utile riandare con la memoria ai temi dei Messaggi lasciatici da Papa Montini per tale occasione.(2) Ognuno di essi conserva ancor oggi una grande attualità. Anzi, di fronte al dramma delle guerre che, all'inizio del Terzo Millennio, ancora insanguinano le contrade del mondo, soprattutto in Medio Oriente, quegli scritti, in certi loro passaggi, assurgono al valore di moniti profetici.

Il sillabario della pace

3. Da parte mia, nel corso di questi venticinque anni di Pontificato ho cercato di avanzare sul cammino intrapreso dal mio venerato Predecessore. All'alba di ogni nuovo anno, ho richiamato le persone di buona volontà a riflettere sui vari aspetti di una ordinata convivenza, alla luce della ragione e della fede.

È nata così una sintesi di dottrina sulla pace, che è quasi un sillabario su questo fondamentale argomento: un sillabario semplice da comprendere per chi ha l'animo ben disposto, ma al tempo stesso estremamente esigente per ogni persona sensibile alle sorti della umanità.(3)

I vari aspetti del prisma della pace sono stati ormai abbondantemente illustrati. Ora non rimane che operare, affinché l'ideale della pacifica convivenza, con le sue precise esigenze, entri nella coscienza degli individui e dei popoli. Noi cristiani, l'impegno di educare noi stessi e gli altri alla pace lo sentiamo come appartenente al genio stesso della nostra religione. Per il cristiano, infatti, proclamare la pace è annunziare Cristo che è «  la nostra pace  » (Ef 2,14), è annunziare il suo Vangelo, che è «  Vangelo della pace  » (Ef 6,15), è chiamare tutti alla beatitudine di essere «  artefici di pace  » (cfr Mt 5,9).

L'educazione alla pace

4. Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1º Gennaio 1979 lanciavo già quest'appello: «  Per giungere alla pace, educare alla pace  ». Ciò è oggi più urgente che mai, perché gli uomini, di fronte alle tragedie che continuano ad affliggere l'umanità, sono tentati di cedere al fatalismo, quasi che la pace sia un ideale irraggiungibile.

La Chiesa, invece, ha sempre insegnato ed insegna ancor oggi un assioma molto semplice: la pace è possibile. Anzi, la Chiesa non si stanca di ripetere: la pace è doverosa. Essa va costruita sui quattro pilastri indicati dal beato Giovanni XXIII nell'Enciclica Pacem in terris, e cioè sulla verità, la giustizia, l'amore e la libertà. Un dovere, quindi, s'impone a tutti gli amanti della pace, ed è quello di educare le nuove generazioni a questi ideali, per preparare un'era migliore per l'intera umanità.

L'educazione alla legalità

5. In questo compito di educare alla pace, s'inserisce con particolare urgenza la necessità di guidare gli individui ed i popoli a rispettare l'ordine internazionale e ad osservare gli impegni assunti dalle Autorità, che legittimamente li rappresentano. La pace ed il diritto internazionale sono intimamente legati fra loro: il diritto favorisce la pace.

Fin dagli albori della civiltà i raggruppamenti umani che venivano formandosi ebbero cura di stabilire tra loro intese e patti che evitassero l'arbitrario uso della forza e consentissero il tentativo di una soluzione pacifica delle controversie via via insorgenti. Accanto agli ordinamenti giuridici dei singoli popoli si costituì così progressivamente un altro complesso di norme, che fu qualificato col nome di jus gentium (diritto delle genti). Col passare del tempo, esso venne estendendosi e precisandosi alla luce delle vicende storiche dei vari popoli.

Questo processo subì una forte accelerazione con la nascita degli Stati moderni. A partire dal XVI secolo giuristi, filosofi e teologi si impegnarono nella elaborazione dei vari capitoli del diritto internazionale, ancorandolo a postulati fondamentali del diritto naturale. In questo cammino presero forma, con forza crescente, principi universali che sono anteriori e superiori al diritto interno degli Stati, e che tengono in conto l'unità e la comune vocazione della famiglia umana.

Centrale fra tutti questi principi è sicuramente quello secondo cui pacta sunt servanda: gli accordi liberamente sottoscritti devono essere onorati. È questo il cardine ed il presupposto inderogabile di ogni rapporto fra parti contraenti responsabili. La sua violazione non può che avviare una situazione di illegalità e di conseguenti attriti e contrapposizioni che non mancherà di avere durevoli ripercussioni negative. Risulta opportuno richiamare questa regola fondamentale, soprattutto nei momenti in cui si avverte la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto.

Uno di questi momenti fu senza dubbio il dramma che l'umanità sperimentò durante la seconda guerra mondiale: una voragine di violenza, di distruzione e di morte quale mai s'era conosciuta prima d'allora.

L'osservanza del diritto

6. Quella guerra, con gli orrori e le terrificanti violazioni della dignità dell'uomo a cui dette occasione, condusse ad un profondo rinnovamento dell'ordinamento giuridico internazionale. La difesa e la promozione della pace furono collocate al centro di un sistema normativo e istituzionale ampiamente aggiornato. A vegliare sulla pace e sulla sicurezza globali, a incoraggiare gli sforzi degli Stati per mantenere e garantire questi fondamentali beni dell'umanità, i Governi chiamarono un'organizzazione appositamente costituita – l'Organizzazione delle Nazioni Unite – con un Consiglio di Sicurezza investito di ampi poteri d'azione. Quale cardine del sistema venne posto il divieto del ricorso alla forza. Un divieto che, secondo il noto cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, prevede due sole eccezioni. Una è quella che conferma il diritto naturale alla legittima difesa, da esercitarsi secondo le modalità previste e nell'ambito delle Nazioni Unite: di conseguenza, anche dentro i tradizionali limiti della necessità e della proporzionalità.

L'altra eccezione è rappresentata dal sistema di sicurezza collettiva, che assegna al Consiglio di Sicurezza la competenza e la responsabilità in materia di mantenimento della pace, con potere di decisione e ampia discrezionalità.

Il sistema elaborato con la Carta delle Nazioni Unite avrebbe dovuto «  preservare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nell'arco di una vita umana ha inflitto indicibili sofferenze all'umanità  ».(4) Nei decenni successivi, tuttavia, la divisione della comunità internazionale in blocchi contrapposti, la guerra fredda in una parte del globo terrestre, i violenti conflitti scoppiati in altre regioni, il fenomeno del terrorismo, hanno prodotto un crescente scostamento dalle previsioni e dalle aspettative dell'immediato dopoguerra.

Un nuovo ordinamento internazionale

7. È doveroso tuttavia riconoscere che l'Organizzazione delle Nazioni Unite, pur con limiti e ritardi dovuti in gran parte alle inadempienze dei suoi membri, ha contribuito notevolmente a promuovere il rispetto della dignità umana, la libertà dei popoli e l'esigenza dello sviluppo, preparando il terreno culturale e istituzionale su cui costruire la pace.

L'azione dei Governi nazionali trarrà un forte incoraggiamento dal constatare che gli ideali delle Nazioni Unite sono largamente diffusi, in particolare mediante i concreti gesti di solidarietà e di pace delle tante persone che operano anche nelle Organizzazioni Non Governative e nei Movimenti per i diritti dell'uomo.

Si tratta di un significativo stimolo per una riforma che metta l'Organizzazione delle Nazioni Unite in grado di funzionare efficacemente per il conseguimento dei propri fini statutari, tuttora validi: «  L'umanità, di fronte a una fase nuova e più difficile del suo autentico sviluppo, ha oggi bisogno di un grado superiore di ordinamento internazionale  ».(5) Gli Stati devono considerare tale obiettivo come un preciso obbligo morale e politico, che richiede prudenza e determinazione. Rinnovo l'auspicio formulato nel 1995: «  Occorre che l'Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una “famiglia di nazioni”  ».(6)

La piaga funesta del terrorismo

8. Oggi il diritto internazionale fa fatica ad offrire soluzioni alla conflittualità derivante dai mutamenti nella fisionomia del mondo contemporaneo. Tale conflittualità, infatti, trova frequentemente tra i suoi protagonisti attori che non sono Stati, ma enti derivati dalla disgregazione degli Stati o legati a rivendicazioni indipendentiste o connessi con agguerrite organizzazioni criminali. Un ordinamento giuridico costituito da norme elaborate nei secoli per disciplinare i rapporti tra Stati sovrani si trova in difficoltà a fronteggiare conflitti in cui agiscono anche enti non riconducibili ai tradizionali caratteri della statualità. Ciò vale, in particolare, nel caso dei gruppi terroristici.

La piaga del terrorismo è diventata in questi anni più virulenta e ha prodotto massacri efferati, che hanno reso sempre più irta di ostacoli la via del dialogo e del negoziato, esacerbando gli animi e aggravando i problemi, particolarmente nel Medio Oriente.

Tuttavia, per essere vincente, la lotta contro il terrorismo non può esaurirsi soltanto in operazioni repressive e punitive. È essenziale che il pur necessario ricorso alla forza sia accompagnato da una coraggiosa e lucida analisi delle motivazioni soggiacenti agli attacchi terroristici. Allo stesso tempo, l'impegno contro il terrorismo deve esprimersi anche sul piano politico e pedagogico: da un lato, rimuovendo le cause che stanno all'origine di situazioni di ingiustizia, dalle quali scaturiscono sovente le spinte agli atti più disperati e sanguinosi; dall'altro, insistendo su un'educazione ispirata al rispetto per la vita umana in ogni circostanza: l'unità del genere umano è infatti una realtà più forte delle divisioni contingenti che separano uomini e popoli.

Nella doverosa lotta contro il terrorismo, il diritto internazionale è ora chiamato ad elaborare strumenti giuridici dotati di efficienti meccanismi di prevenzione, di monitoraggio e di repressione dei reati. In ogni caso, i Governi democratici ben sanno che l'uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai principi di uno Stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell'uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!

Il contributo della Chiesa

9. «  Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio  » (Mt 5,9). Come potrebbe questa parola, che invita a operare nell'immenso campo della pace, trovare così intense risonanze nel cuore umano, se non corrispondesse ad un anelito e ad una speranza che vivono in noi indistruttibili? E per quale altro motivo gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio, se non perché Egli per sua natura è il Dio della pace? Proprio per questo, nell'annuncio di salvezza che la Chiesa diffonde nel mondo, vi sono elementi dottrinali di fondamentale importanza per l'elaborazione dei principi necessari ad una pacifica convivenza tra le Nazioni.

Le vicende storiche insegnano che l'edificazione della pace non può prescindere dal rispetto di un ordine etico e giuridico, secondo l'antico adagio: «  Serva ordinem et ordo servabit te  » (conserva l'ordine e l'ordine conserverà te). Il diritto internazionale deve evitare che prevalga la legge del più forte. Suo scopo essenziale è di sostituire «  alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto  »,(7) prevedendo appropriate sanzioni per i trasgressori, nonché adeguate riparazioni per le vittime. Ciò deve valere anche per quei governanti i quali violano impunemente la dignità e i diritti dell'uomo, celandosi dietro il pretesto inaccettabile che si tratterebbe di questioni interne al loro Stato.

Rivolgendomi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 13 Gennaio 1997, individuavo nel diritto internazionale uno strumento di prim'ordine per il perseguimento della pace: «  Il diritto internazionale è stato per molto tempo un diritto della guerra e della pace. Credo che esso sia sempre più chiamato a diventare esclusivamente un diritto della pace, concepita in funzione della giustizia e della solidarietà. In questo contesto, la morale è chiamata a fecondare il diritto; essa può esercitare altresì una funzione di anticipo sul diritto, nella misura in cui gli indica la direzione del giusto e del bene  ».(8)

Rilevante è stato, nel corso dei secoli, il contributo dottrinale offerto dalla Chiesa, mediante la riflessione filosofica e teologica di numerosi pensatori cristiani, per orientare il diritto internazionale verso il bene comune dell'intera famiglia umana. In particolare, nella storia contemporanea i Papi non hanno esitato a sottolineare l'importanza del diritto internazionale quale garanzia di pace, nella convinzione che «  un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace  » (Gc 3,18). Su tale via è impegnata, mediante gli strumenti che le sono propri, la Chiesa, alla luce perenne del Vangelo e con l'ausilio indispensabile della preghiera.

La civiltà dell'amore

10. Al termine di queste considerazioni ritengo, però, doveroso ricordare che, per l'instaurazione della vera pace nel mondo, la giustizia deve trovare il suo completamento nella carità. Certo, il diritto è la prima strada da imboccare per giungere alla pace. Ed i popoli debbono essere educati al rispetto di tale diritto. Non si arriverà però al termine del cammino, se la giustizia non sarà integrata dall'amore. Giustizia e amore appaiono, a volte, come forze antagoniste. In verità, non sono che le due facce di una medesima realtà, due dimensioni dell'esistenza umana che devono vicendevolmente completarsi. È l'esperienza storica a confermarlo. Essa mostra come la giustizia non riesca spesso a liberarsi dal rancore, dall'odio e perfino dalla crudeltà. Da sola, la giustizia non basta. Può anzi arrivare a negare se stessa, se non si apre a quella forza più profonda che è l'amore.

È per questo che, più volte, ho ricordato ai cristiani e a tutte le persone di buona volontà la necessità del perdono per risolvere i problemi sia dei singoli che dei popoli. Non c'è pace senza perdono! Lo ripeto anche in questa circostanza, avendo davanti agli occhi, in particolare, la crisi che continua ad imperversare in Palestina e in Medio Oriente: una soluzione ai gravissimi problemi di cui da troppo tempo soffrono le popolazioni di quelle regioni non si troverà fino a quando non ci si deciderà a superare la logica della semplice giustizia per aprirsi anche a quella del perdono.

Il cristiano sa che l'amore è il motivo per cui Dio entra in rapporto con l'uomo. Ed è ancora l'amore che Egli s'attende come risposta dall'uomo. L'amore è perciò la forma più alta e più nobile di rapporto degli esseri umani anche tra loro. L'amore dovrà dunque animare ogni settore della vita umana, estendendosi anche all'ordine internazionale. Solo un'umanità nella quale regni la «  civiltà dell'amore  » potrà godere di una pace autentica e duratura.

All'inizio di un nuovo anno voglio ricordare alle donne ed agli uomini di ogni lingua, religione e cultura l'antica massima: «  Omnia vincit amor  » (l'amore vince tutto). Sì, cari Fratelli e Sorelle di ogni parte del mondo, alla fine l'amore vincerà! Ciascuno si impegni ad affrettare questa vittoria. È ad essa che, in fondo, anela il cuore di tutti.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2003.

 

 

MESSAGGIO
DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA XXXVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NON LASCIARTI VINCERE DAL MALE
MA VINCI CON IL BENE IL MALE

1 gennaio 2005

 

 1. All'inizio del nuovo anno, torno a rivolgere la mia parola ai responsabili delle Nazioni ed a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, che avvertono quanto necessario sia costruire la pace nel mondo. Ho scelto come tema per la Giornata Mondiale della Pace 2005 l'esortazione di san Paolo nella Lettera ai Romani: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (12,21). Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male.

La prospettiva delineata dal grande Apostolo pone in evidenza una verità di fondo: la pace è il risultato di una lunga ed impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene. Di fronte ai drammatici scenari di violenti scontri fratricidi, in atto in varie parti del mondo, dinanzi alle inenarrabili sofferenze ed ingiustizie che ne scaturiscono, l'unica scelta veramente costruttiva è di fuggire il male con orrore e di attaccarsi al bene (cfr Rm 12,9), come suggerisce ancora san Paolo.

La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l'intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene. Si comprende allora la profonda verità di un'altra massima di Paolo: « Non rendete a nessuno male per male » (Rm 12,17). L'unico modo per uscire dal circolo vizioso del male per il male è quello di accogliere la parola dell'Apostolo: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male » (Rm 12,21).

Il male, il bene e l'amore

2. Fin dalle origini, l'umanità ha conosciuto la tragica esperienza del male e ha cercato di coglierne le radici e spiegarne le cause. Il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. Il male passa attraverso la libertà umana. Proprio questa facoltà, che distingue l'uomo dagli altri viventi sulla terra, sta al centro del dramma del male e ad esso costantemente si accompagna. Il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e di donne che liberamente lo scelgono. La Sacra Scrittura insegna che, agli inizi della storia, Adamo ed Eva si ribellarono a Dio e Abele fu ucciso dal fratello Caino (cfr Gn 3-4). Furono le prime scelte sbagliate, a cui ne seguirono innumerevoli altre nel corso dei secoli. Ciascuna di esse porta in sé un'essenziale connotazione morale, che implica precise responsabilità da parte del soggetto e chiama in causa le relazioni fondamentali della persona con Dio, con le altre persone e con il creato.

A cercarne le componenti profonde, il male è, in definitiva, un tragico sottrarsi alle esigenze dell'amore(1). Il bene morale, invece, nasce dall'amore, si manifesta come amore ed è orientato all'amore. Questo discorso è particolarmente chiaro per il cristiano, il quale sa che la partecipazione all'unico Corpo mistico di Cristo lo pone in una relazione particolare non solo con il Signore, ma anche con i fratelli. La logica dell'amore cristiano, che nel Vangelo costituisce il cuore pulsante del bene morale, spinge, se portata alle conseguenze, fino all'amore per i nemici: « Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere » (Rm 12,20).

La « grammatica » della legge morale universale

3. Volgendo lo sguardo all'attuale situazione del mondo, non si può non constatare un impressionante dilagare di molteplici manifestazioni sociali e politiche del male: dal disordine sociale all'anarchia e alla guerra, dall'ingiustizia alla violenza contro l'altro e alla sua soppressione. Per orientare il proprio cammino tra gli opposti richiami del bene e del male, la famiglia umana ha urgente necessità di far tesoro del comune patrimonio di valori morali ricevuto in dono da Dio stesso. Per questo, a quanti sono determinati a vincere il male con il bene san Paolo rivolge l'invito a coltivare nobili e disinteressati atteggiamenti di generosità e di pace (cfr Rm 12,17-21).

Parlando all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dieci anni or sono, della comune impresa al servizio della pace, ebbi a far riferimento alla « grammatica » della legge morale universale(2), richiamata dalla Chiesa nei suoi molteplici pronunciamenti in questa materia. Ispirando valori e principi comuni, tale legge unisce gli uomini tra loro, pur nella diversità delle rispettive culture, ed è immutabile: « rimane sotto l'evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso... Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore dell'uomo. Sempre risorge nella vita degli individui e delle società »(3).

4. Questa comune grammatica della legge morale impone di impegnarsi sempre e con responsabilità per far sì che la vita delle persone e dei popoli venga rispettata e promossa. Alla sua luce non possono non essere stigmatizzati con vigore i mali di carattere sociale e politico che affliggono il mondo, soprattutto quelli provocati dalle esplosioni della violenza. In questo contesto, come non andare con il pensiero all'amato Continente africano, dove perdurano conflitti che hanno mietuto e continuano a mietere milioni di vittime? Come non evocare la pericolosa situazione della Palestina, la Terra di Gesù, dove non si riescono ad annodare, nella verità e nella giustizia, i fili della mutua comprensione, spezzati da un conflitto che ogni giorno attentati e vendette alimentano in modo preoccupante? E che dire del tragico fenomeno della violenza terroristica che sembra spingere il mondo intero verso un futuro di paura e di angoscia? Come, infine, non constatare con amarezza che il dramma iracheno si prolunga, purtroppo, in situazioni di incertezza e di insicurezza per tutti?

Per conseguire il bene della pace bisogna, con lucida consapevolezza, affermare che la violenza è un male inaccettabile e che mai risolve i problemi. « La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che sostiene di difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani »(4). È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene aprendo loro l'orizzonte dell'umanesimo integrale e solidale, che la Chiesa indica e auspica. Su queste basi è possibile dar vita ad un ordine sociale, economico e politico che tenga conto della dignità, della libertà e dei diritti fondamentali di ogni persona.

Il bene della pace e il bene comune

5. Per promuovere la pace, vincendo il male con il bene, occorre soffermarsi con particolare attenzione sul bene comune(5) e sulle sue declinazioni sociali e politiche. Quando, infatti, a tutti i livelli si coltiva il bene comune, si coltiva la pace. Può forse la persona realizzare pienamente se stessa prescindendo dalla sua natura sociale, cioè dal suo essere « con » e « per » gli altri? Il bene comune la riguarda da vicino. Riguarda da vicino tutte le forme espressive della socialità umana: la famiglia, i gruppi, le associazioni, le città, le regioni, gli Stati, le comunità dei popoli e delle Nazioni. Tutti, in qualche modo, sono coinvolti nell'impegno per il bene comune, nella ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio. Tale responsabilità compete, in particolare, all'autorità politica, ad ogni livello del suo esercizio, perché essa è chiamata a creare quell'insieme di condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona(6).

Il bene comune, pertanto, esige il rispetto e la promozione della persona e dei suoi diritti fondamentali, come pure il rispetto e la promozione dei diritti delle Nazioni in prospettiva universale. Dice in proposito il Concilio Vaticano II: « Dall'interdipendenza ogni giorno più stretta e poco alla volta estesa al mondo intero deriva che il bene comune ... diventa oggi sempre più universale ed implica diritti e doveri che interessano l'intero genere umano. Pertanto ogni comunità deve tener conto delle necessità e delle legittime aspirazioni delle altre comunità, anzi del bene comune di tutta la famiglia umana »(7). Il bene dell'intera umanità, anche per le generazioni future, richiede una vera cooperazione internazionale, a cui ogni Nazione deve offrire il suo apporto(8).

Tuttavia, visioni decisamente riduttive della realtà umana trasformano il bene comune in semplice benessere socio-economico, privo di ogni finalizzazione trascendente, e lo svuotano della sua più profonda ragion d'essere. Il bene comune, invece, riveste anche una dimensione trascendente, perché è Dio il fine ultimo delle sue creature(9). I cristiani inoltre sanno che Gesù ha fatto piena luce sulla realizzazione del vero bene comune dell'umanità. Verso Cristo cammina e in Lui culmina la storia: grazie a Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui, ogni realtà umana può essere condotta al suo pieno compimento in Dio.

Il bene della pace e l'uso dei beni della terra

6. Poiché il bene della pace è strettamente collegato allo sviluppo di tutti i popoli, è indispensabile tener conto delle implicazioni etiche dell'uso dei beni della terra. Il Concilio Vaticano II ha opportunamente ricordato che « Dio ha destinato la terra con tutto quello che in essa è contenuto all'uso di tutti gli uomini e popoli, sicché i beni creati devono pervenire a tutti con equo criterio, avendo per guida la giustizia e per compagna la carità »(10).

L'appartenenza alla famiglia umana conferisce ad ogni persona una specie di cittadinanza mondiale, rendendola titolare di diritti e di doveri, essendo gli uomini uniti da una comunanza di origine e di supremo destino. Basta che un bambino venga concepito perché sia titolare di diritti, meriti attenzioni e cure e qualcuno abbia il dovere di provvedervi. La condanna del razzismo, la tutela delle minoranze, l'assistenza ai profughi e ai rifugiati, la mobilitazione della solidarietà internazionale nei confronti di tutti i bisognosi non sono che coerenti applicazioni del principio della cittadinanza mondiale.

7. Il bene della pace va visto oggi in stretta relazione con i nuovi beni, che provengono dalla conoscenza scientifica e dal progresso tecnologico. Anche questi, in applicazione del principio della destinazione universale dei beni della terra, vanno posti a servizio dei bisogni primari dell'uomo. Opportune iniziative a livello internazionale possono dare piena attuazione al principio della destinazione universale dei beni, assicurando a tutti — individui e Nazioni — le condizioni di base per partecipare allo sviluppo. Ciò diventa possibile se si abbattono le barriere e i monopoli che lasciano ai margini tanti popoli(11).

Il bene della pace sarà poi meglio garantito se la comunità internazionale si farà carico, con maggiore senso di responsabilità, di quelli che vengono comunemente identificati come beni pubblici. Sono quei beni dei quali tutti i cittadini godono automaticamente senza aver operato scelte precise in proposito. È quanto avviene, a livello nazionale, per beni quali, ad esempio, il sistema giudiziario, il sistema di difesa, la rete stradale o ferroviaria. Nel mondo, investito oggi in pieno dal fenomeno della globalizzazione, sono sempre più numerosi i beni pubblici che assumono carattere globale e conseguentemente aumentano pure di giorno in giorno gli interessi comuni. Basti pensare alla lotta alla povertà, alla ricerca della pace e della sicurezza, alla preoccupazione per i cambiamenti climatici, al controllo della diffusione delle malattie. A tali interessi, la Comunità internazionale deve rispondere con una rete sempre più ampia di accordi giuridici, atta a regolamentare il godimento dei beni pubblici, ispirandosi agli universali principi dell'equità e della solidarietà.

8. Il principio della destinazione universale dei beni consente, inoltre, di affrontare adeguatamente la sfida della povertà, soprattutto tenendo conto delle condizioni di miseria in cui vive ancora oltre un miliardo di esseri umani. La Comunità internazionale si è posta come obiettivo prioritario, all'inizio del nuovo millennio, il dimezzamento del numero di queste persone entro l'anno 2015. La Chiesa sostiene ed incoraggia tale impegno ed invita i credenti in Cristo a manifestare, in modo concreto e in ogni ambito, un amore preferenziale per i poveri(12).

Il dramma della povertà appare ancora strettamente connesso con la questione del debito estero dei Paesi poveri. Malgrado i significativi progressi sinora compiuti, la questione non ha ancora trovato adeguata soluzione. Sono trascorsi quindici anni da quando ebbi a richiamare l'attenzione della pubblica opinione sul fatto che il debito estero dei Paesi poveri « è intimamente legato ad un insieme di altri problemi, quali l'investimento estero, il giusto funzionamento delle maggiori organizzazioni internazionali, il prezzo delle materie prime e così via »(13). I recenti meccanismi per la riduzione dei debiti, maggiormente centrati sulle esigenze dei poveri, hanno senz'altro migliorato la qualità della crescita economica. Quest'ultima, tuttavia, per una serie di fattori, risulta quantitativamente ancora insufficiente, specie in vista del raggiungimento degli obiettivi stabiliti all'inizio del millennio. I Paesi poveri restano prigionieri di un circolo vizioso: i bassi redditi e la crescita lenta limitano il risparmio e, a loro volta, gli investimenti deboli e l'uso inefficace del risparmio non favoriscono la crescita.

9. Come ha affermato il Papa Paolo VI e come io stesso ho ribadito, l'unico rimedio veramente efficace per consentire agli Stati di affrontare la drammatica questione della povertà è di fornire loro le risorse necessarie mediante finanziamenti esteri — pubblici e privati — concessi a condizioni accessibili, nel quadro di rapporti commerciali internazionali regolati secondo equità(14). Si rende doverosamente necessaria una mobilitazione morale ed economica, rispettosa da una parte degli accordi presi in favore dei Paesi poveri, ma disposta dall'altra a rivedere quegli accordi che l'esperienza avesse dimostrato essere troppo onerosi per determinati Paesi. In questa prospettiva, si rivela auspicabile e necessario imprimere un nuovo slancio all'aiuto pubblico allo sviluppo, ed esplorare, malgrado le difficoltà che può presentare questo percorso, le proposte di nuove forme di finanziamento allo sviluppo(15). Alcuni governi stanno già valutando attentamente meccanismi promettenti che vanno in questa direzione, iniziative significative da portare avanti in modo autenticamente condiviso e nel rispetto del principio di sussidiarietà. Occorre pure controllare che la gestione delle risorse economiche destinate allo sviluppo dei Paesi poveri segua scrupolosi criteri di buona amministrazione, sia da parte dei donatori che dei destinatari. La Chiesa incoraggia ed offre a questi sforzi il suo apporto. Basti citare, ad esempio, il prezioso contributo dato attraverso le numerose agenzie cattoliche di aiuto e di sviluppo.

10. Al termine del Grande Giubileo dell'Anno 2000, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte ho fatto cenno all'urgenza di una nuova fantasia della carità(16) per diffondere nel mondo il Vangelo della speranza. Ciò si rende evidente particolarmente quando ci si avvicina ai tanti e delicati problemi che ostacolano lo sviluppo del Continente africano: si pensi ai numerosi conflitti armati, alle malattie pandemiche rese più pericolose dalle condizioni di miseria, all'instabilità politica cui si accompagna una diffusa insicurezza sociale. Sono realtà drammatiche che sollecitano un cammino radicalmente nuovo per l'Africa: è necessario dar vita a forme nuove di solidarietà, a livello bilaterale e multilaterale, con un più deciso impegno di tutti, nella piena consapevolezza che il bene dei popoli africani rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale.

Possano i popoli africani prendere in mano da protagonisti il proprio destino e il proprio sviluppo culturale, civile, sociale ed economico! L'Africa cessi di essere solo oggetto di assistenza, per divenire responsabile soggetto di condivisioni convinte e produttive! Per raggiungere tali obiettivi si rende necessaria una nuova cultura politica, specialmente nell'ambito della cooperazione internazionale. Ancora una volta vorrei ribadire che il mancato adempimento delle reiterate promesse relative all'aiuto pubblico allo sviluppo, la questione tuttora aperta del pesante debito internazionale dei Paesi africani e l'assenza di una speciale considerazione per essi nei rapporti commerciali internazionali, costituiscono gravi ostacoli alla pace, e pertanto vanno affrontati e superati con urgenza. Mai come oggi risulta determinante e decisiva, per la realizzazione della pace nel mondo, la consapevolezza dell'interdipendenza tra Paesi ricchi e poveri, per cui « lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso »(17).

Universalità del male e speranza cristiana

11. Di fronte ai tanti drammi che affliggono il mondo, i cristiani confessano con umile fiducia che solo Dio rende possibile all'uomo ed ai popoli il superamento del male per raggiungere il bene. Con la sua morte e risurrezione Cristo ci ha redenti e riscattati « a caro prezzo » (1 Cor 6,20; 7,23), ottenendo la salvezza per tutti. Con il suo aiuto, pertanto, è possibile a tutti vincere il male con il bene.

Fondandosi sulla certezza che il male non prevarrà, il cristiano coltiva un'indomita speranza che lo sostiene nel promuovere la giustizia e la pace. Nonostante i peccati personali e sociali che segnano l'agire umano, la speranza imprime slancio sempre rinnovato all'impegno per la giustizia e la pace, insieme ad una ferma fiducia nella possibilità di costruire un mondo migliore.

Se nel mondo è presente ed agisce il « mistero dell'iniquità » (2 Ts 2,7), non va dimenticato che l'uomo redento ha in sé sufficienti energie per contrastarlo. Creato ad immagine di Dio e redento da Cristo « che si è unito in certo modo ad ogni uomo »(18) questi può cooperare attivamente al trionfo del bene. L'azione dello « Spirito del Signore riempie l'universo » (Sap 1,7). I cristiani, specialmente i fedeli laici, « non nascondano questa speranza nell'interiorità del loro animo, ma con la continua conversione e la lotta “contro i dominatori di questo mondo di tenebra e contro gli spiriti del male” (Ef 6,12) la esprimano anche attraverso le strutture della vita secolare »(19).

12. Nessun uomo, nessuna donna di buona volontà può sottrarsi all'impegno di lottare per vincere con il bene il male. È una lotta che si combatte validamente soltanto con le armi dell'amore. Quando il bene vince il male, regna l'amore e dove regna l'amore regna la pace. È l'insegnamento del Vangelo, riproposto dal Concilio Vaticano II: « La legge fondamentale della perfezione umana, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità »(20).

Ciò è vero anche in ambito sociale e politico. A questo proposito, il Papa LeoneXIII scriveva che quanti hanno il dovere di provvedere al bene della pace nelle relazioni tra i popoli devono alimentare in sé e accendere negli altri « la carità, signora e regina di tutte le virtù »(21). I cristiani siano testimoni convinti di questa verità; sappiano mostrare con la loro vita che l'amore è l'unica forza capace di condurre alla perfezione personale e sociale, l'unico dinamismo in grado di far avanzare la storia verso il bene e la pace.

In quest'anno dedicato all'Eucaristia, i figli della Chiesa trovino nel sommo Sacramento dell'amore la sorgente di ogni comunione: della comunione con Gesù Redentore e, in Lui, con ogni essere umano. È in virtù della morte e risurrezione di Cristo, rese sacramentalmente presenti in ogni Celebrazione eucaristica, che siamo salvati dal male e resi capaci di fare il bene. È in virtù della vita nuova di cui Egli ci ha fatto dono che possiamo riconoscerci fratelli, al di là di ogni differenza di lingua, di nazionalità, di cultura. In una parola, è in virtù della partecipazione allo stesso Pane e allo stesso Calice che possiamo sentirci « famiglia di Dio » e insieme recare uno specifico ed efficace contributo all'edificazione di un mondo fondato sui valori della giustizia, della libertà e della pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2004.

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XXXIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NELLA VERITÀ, LA PACE

1 gennaio 2006

 

1. Con il tradizionale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, all'inizio del nuovo anno, desidero far giungere un affettuoso augurio a tutti gli uomini e a tutte le donne del mondo, particolarmente a coloro che soffrono a causa della violenza e dei conflitti armati. È un augurio carico di speranza per un mondo più sereno, dove cresca il numero di quanti, individualmente o comunitariamente, si impegnano a percorrere le strade della giustizia e della pace.

2. Vorrei subito rendere un sincero tributo di gratitudine ai miei Predecessori, i grandi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, illuminati operatori di pace. Animati dallo spirito delle Beatitudini, essi hanno saputo leggere nei numerosi eventi storici, che hanno segnato i loro rispettivi Pontificati, il provvidenziale intervento di Dio, mai dimentico delle sorti del genere umano. A più riprese, quali infaticabili messaggeri del Vangelo, essi hanno invitato ogni persona a ripartire da Dio per poter promuovere una pacifica convivenza in tutte le regioni della terra. Nella scia di questo nobilissimo insegnamento si colloca il mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace: con esso desidero ancora una volta confermare la ferma volontà della Santa Sede di continuare a servire la causa della pace.

Il nome stesso di Benedetto, che ho scelto il giorno dell'elezione alla Cattedra di Pietro, sta ad indicare il mio convinto impegno in favore della pace. Ho inteso, infatti, riferirmi sia al Santo Patrono d'Europa, ispiratore di una civilizzazione pacificatrice nell'intero Continente, sia al Papa Benedetto XV, che condannò la Prima Guerra Mondiale come « inutile strage » (1) e si adoperò perché da tutti venissero riconosciute le superiori ragioni della pace.

3. Il tema di riflessione di quest'anno — « Nella verità, la pace » esprime la convinzione che, dove e quando l'uomo si lascia illuminare dallo splendore della verità, intraprende quasi naturalmente il cammino della pace. La Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Ecumenico Vaticano II, chiusosi 40 anni or sono, afferma che l'umanità non riuscirà a « costruire un mondo veramente più umano per tutti gli uomini su tutta la terra, se gli uomini non si volgeranno con animo rinnovato alla verità della pace ».(2) Ma quali significati intende richiamare l'espressione « verità della pace »? Per rispondere in modo adeguato a tale interrogativo, occorre tener ben presente che la pace non può essere ridotta a semplice assenza di conflitti armati, ma va compresa come « il frutto dell'ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore », un ordine « che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta ».(3) Quale risultato di un ordine disegnato e voluto dall'amore di Dio, la pace possiede una sua intrinseca e invincibile verità e corrisponde « ad un anelito e ad una speranza che vivono in noi indistruttibili ».(4)

4. Delineata in questo modo, la pace si configura come dono celeste e grazia divina, che richiede, a tutti i livelli, l'esercizio della responsabilità più grande, quella di conformare — nella verità, nella giustizia, nella libertà e nell'amore — la storia umana all'ordine divino. Quando viene a mancare l'adesione all'ordine trascendente delle cose, come pure il rispetto di quella « grammatica » del dialogo che è la legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo,(5) quando viene ostacolato e impedito lo sviluppo integrale della persona e la tutela dei suoi diritti fondamentali, quando tanti popoli sono costretti a subire ingiustizie e disuguaglianze intollerabili, come si può sperare nella realizzazione del bene della pace? Vengono infatti meno quegli elementi essenziali che danno forma alla verità di tale bene. Sant'Agostino ha descritto la pace come « tranquillitas ordinis »,(6) la tranquillità dell'ordine, vale a dire quella situazione che permette, in definitiva, di rispettare e realizzare appieno la verità dell'uomo.

5. E allora, chi e che cosa può impedire la realizzazione della pace? A questo proposito, la Sacra Scrittura mette in evidenza nel suo primo Libro, la Genesi, la menzogna, pronunciata all'inizio della storia dall'essere dalla lingua biforcuta, qualificato dall'evangelista Giovanni come « padre della menzogna » (Gv 8,44). La menzogna è pure uno dei peccati che ricorda la Bibbia nell'ultimo capitolo del suo ultimo Libro, l'Apocalisse, per segnalare l'esclusione dalla Gerusalemme celeste dei menzogneri: « Fuori... chiunque ama e pratica la menzogna! » (22,15). Alla menzogna è legato il dramma del peccato con le sue conseguenze perverse, che hanno causato e continuano a causare effetti devastanti nella vita degli individui e delle nazioni. Basti pensare a quanto è successo nel secolo scorso, quando aberranti sistemi ideologici e politici hanno mistificato in modo programmato la verità ed hanno condotto allo sfruttamento ed alla soppressione di un numero impressionante di uomini e di donne, sterminando addirittura intere famiglie e comunità. Come non restare seriamente preoccupati, dopo tali esperienze, di fronte alle menzogne del nostro tempo, che fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo? L'autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevolezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo e ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta.

6. La pace è anelito insopprimibile presente nel cuore di ogni persona, al di là delle specifiche identità culturali. Proprio per questo ciascuno deve sentirsi impegnato al servizio di un bene tanto prezioso, lavorando perché non si insinui nessuna forma di falsità ad inquinare i rapporti. Tutti gli uomini appartengono ad un'unica e medesima famiglia. L'esaltazione esasperata delle proprie differenze contrasta con questa verità di fondo. Occorre ricuperare la consapevolezza di essere accomunati da uno stesso destino, in ultima istanza trascendente, per poter valorizzare al meglio le proprie differenze storiche e culturali, senza contrapporsi ma coordinandosi con gli appartenenti alle altre culture. Sono queste semplici verità a rendere possibile la pace; esse diventano facilmente comprensibili ascoltando il proprio cuore con purezza di intenzioni. La pace appare allora in modo nuovo: non come semplice assenza di guerra, ma come convivenza dei singoli cittadini in una società governata dalla giustizia, nella quale si realizza in quanto possibile il bene anche per ognuno di loro. La verità della pace chiama tutti a coltivare relazioni feconde e sincere, stimola a ricercare ed a percorrere le strade del perdono e della riconciliazione, ad essere trasparenti nelle trattative e fedeli alla parola data. In particolare, il discepolo di Cristo, che si sente insidiato dal male e per questo bisognoso dell'intervento liberante del Maestro divino, a Lui si rivolge con fiducia ben sapendo che « Egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca » (1 Pt 2,22; cfr Is 53,9). Gesù infatti si è definito la Verità in persona e, parlando in visione al veggente dell'Apocalisse, ha dichiarato totale avversione per « chiunque ama e pratica la menzogna » (22,15). È Lui a svelare la piena verità dell'uomo e della storia. Con la forza della sua grazia è possibile essere nella verità e vivere di verità, perché solo Lui è totalmente sincero e fedele. Gesù è la verità che ci dà la pace.

7. La verità della pace deve valere e far valere il suo benefico riverbero di luce anche quando ci si trovi nella tragica situazione della guerra. I Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, sottolineano che non diventa « tutto lecito tra le parti in conflitto quando la guerra è ormai disgraziatamente scoppiata ».(7) La Comunità Internazionale si è dotata di un diritto internazionale umanitario per limitare al massimo, soprattutto per le popolazioni civili, le conseguenze devastanti della guerra. In molteplici circostanze e in diverse modalità, la Santa Sede ha espresso il suo sostegno a tale diritto umanitario, incoraggiandone il rispetto e la pronta attuazione, convinta che esiste, anche nella guerra, la verità della pace. Il diritto internazionale umanitario è da annoverare tra le espressioni più felici ed efficaci delle esigenze che promanano dalla verità della pace. Proprio per questo il rispetto di tale diritto si impone come un dovere per tutti i popoli. Ne va apprezzato il valore ed occorre garantirne la corretta applicazione, aggiornandolo con norme puntuali, capaci di fronteggiare i mutevoli scenari degli odierni conflitti armati, nonché l'utilizzo di sempre nuovi e più sofisticati armamenti.

8. Il mio grato pensiero va alle Organizzazioni Internazionali e a quanti con diuturno sforzo operano per l'applicazione del diritto internazionale umanitario. Come potrei qui dimenticare i tanti soldati impegnati in delicate operazioni di composizione dei conflitti e di ripristino delle condizioni necessarie alla realizzazione della pace? Anche ad essi desidero ricordare le parole del Concilio Vaticano II: « Coloro che, al servizio della patria, sono reclutati nell'esercito, si considerino anch'essi ministri della sicurezza e della libertà dei popoli. Se adempiono rettamente a questo dovere, concorrono anch'essi veramente a stabilire la pace ».(8) Su tale esigente fronte si colloca l'azione pastorale degli Ordinariati militari della Chiesa Cattolica: tanto agli Ordinari militari quanto ai cappellani militari va il mio incoraggiamento a mantenersi, in ogni situazione e ambiente, fedeli evangelizzatori della verità della pace.

9. Al giorno d'oggi, la verità della pace continua ad essere compromessa e negata, in modo drammatico, dal terrorismo che, con le sue minacce ed i suoi atti criminali, è in grado di tenere il mondo in stato di ansia e di insicurezza. I miei Predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II sono intervenuti più volte per denunciare la tremenda responsabilità dei terroristi e per condannare l'insensatezza dei loro disegni di morte. Tali disegni, infatti, risultano ispirati da un nichilismo tragico e sconvolgente, che il Papa Giovanni Paolo II descriveva con queste parole: « Chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l'umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro: tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto ».(9) Non solo il nichilismo, ma anche il fanatismo religioso, oggi spesso denominato fondamentalismo, può ispirare e alimentare propositi e gesti terroristici. Intuendo fin dall'inizio il dirompente pericolo che il fondamentalismo fanatico rappresenta, Giovanni Paolo II lo stigmatizzò duramente, mettendo in guardia dalla pretesa di imporre con la violenza, anziché di proporre alla libera accettazione degli altri la propria convinzione circa la verità. Scriveva: « Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell'essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine ».(10)

10. A ben vedere, il nichilismo e il fondamentalismo fanatico si rapportano in modo errato alla verità: i nichilisti negano l'esistenza di qualsiasi verità, i fondamentalisti accampano la pretesa di poterla imporre con la forza. Pur avendo origini differenti e pur essendo manifestazioni che si inscrivono in contesti culturali diversi, il nichilismo e il fondamentalismo si trovano accomunati da un pericoloso disprezzo per l'uomo e per la sua vita e, in ultima analisi, per Dio stesso. Infatti, alla base di tale comune tragico esito sta, in definitiva, lo stravolgimento della piena verità di Dio: il nichilismo ne nega l'esistenza e la provvidente presenza nella storia; il fondamentalismo ne sfigura il volto amorevole e misericordioso, sostituendo a Lui idoli fatti a propria immagine. Nell'analizzare le cause del fenomeno contemporaneo del terrorismo è auspicabile che, oltre alle ragioni di carattere politico e sociale, si tengano presenti anche le più profonde motivazioni culturali, religiose ed ideologiche.

11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.

12. Guardando all'attuale contesto mondiale, possiamo registrare con piacere alcuni promettenti segnali nel cammino della costruzione della pace. Penso, ad esempio, al calo numerico dei conflitti armati. Si tratta di passi certamente ancora assai timidi sul sentiero della pace, ma già in grado di prospettare un futuro di maggiore serenità, in particolare per le popolazioni martoriate della Palestina, la Terra di Gesù, e per gli abitanti di talune regioni dell'Africa e dell'Asia, che da anni attendono il positivo concludersi degli avviati percorsi di pacificazione e di riconciliazione. Sono segnali consolanti, che chiedono di essere confermati e consolidati attraverso una concorde ed infaticabile azione, soprattutto da parte della Comunità Internazionale e dei suoi Organi, preposti a prevenire i conflitti e a dare soluzione pacifica a quelli in atto.

13. Tutto ciò non deve indurre però ad un ingenuo ottimismo. Non si può infatti dimenticare che, purtroppo, proseguono ancora sanguinosi conflitti fratricidi e guerre devastanti che seminano in vaste zone della terra lacrime e morte. Ci sono situazioni in cui il conflitto, che cova come fuoco sotto la cenere, può nuovamente divampare causando distruzioni di imprevedibile vastità. Le autorità che, invece di porre in atto quanto è in loro potere per promuovere efficacemente la pace, fomentano nei cittadini sentimenti di ostilità verso altre nazioni, si caricano di una gravissima responsabilità: mettono a repentaglio, in regioni particolarmente a rischio, i delicati equilibri raggiunti a prezzo di faticosi negoziati, contribuendo a rendere così più insicuro e nebuloso il futuro dell'umanità. Che dire poi dei governi che contano sulle armi nucleari per garantire la sicurezza dei loro Paesi? Insieme ad innumerevoli persone di buona volontà, si può affermare che tale prospettiva, oltre che essere funesta, è del tutto fallace. In una guerra nucleare non vi sarebbero, infatti, dei vincitori, ma solo delle vittime. La verità della pace richiede che tutti — sia i governi che in modo dichiarato o occulto possiedono armi nucleari, sia quelli che intendono procurarsele —, invertano congiuntamente la rotta con scelte chiare e ferme, orientandosi verso un progressivo e concordato disarmo nucleare. Le risorse in tal modo risparmiate potranno essere impiegate in progetti di sviluppo a vantaggio di tutti gli abitanti e, in primo luogo, dei più poveri.

14. A questo proposito, non si possono non registrare con rammarico i dati di un aumento preoccupante delle spese militari e del sempre prospero commercio delle armi, mentre ristagna nella palude di una quasi generale indifferenza il processo politico e giuridico messo in atto dalla Comunità Internazionale per rinsaldare il cammino del disarmo. Quale avvenire di pace sarà mai possibile, se si continua a investire nella produzione di armi e nella ricerca applicata a svilupparne di nuove? L'auspicio che sale dal profondo del cuore è che la Comunità Internazionale sappia ritrovare il coraggio e la saggezza di rilanciare in maniera convinta e congiunta il disarmo, dando concreta applicazione al diritto alla pace, che è di ogni uomo e di ogni popolo. Impegnandosi a salvaguardare il bene della pace, i vari Organismi della Comunità Internazionale potranno ritrovare quell'autorevolezza che è indispensabile per rendere credibili ed incisive le loro iniziative.

15. I primi a trarre vantaggio da una decisa scelta per il disarmo saranno i Paesi poveri, che reclamano giustamente, dopo tante promesse, l'attuazione concreta del diritto allo sviluppo. Un tale diritto è stato solennemente riaffermato anche nella recente Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha celebrato quest'anno il 60o anniversario della sua fondazione. La Chiesa cattolica, nel confermare la propria fiducia in questa Organizzazione internazionale, ne auspica un rinnovamento istituzionale ed operativo che la metta in grado di rispondere alle mutate esigenze dell'epoca odierna, segnata dal vasto fenomeno della globalizzazione. L'Organizzazione delle Nazioni Unite deve divenire uno strumento sempre più efficiente nel promuovere nel mondo i valori della giustizia, della solidarietà e della pace. Da parte sua la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal suo Fondatore, non si stanca di proclamare dappertutto il « Vangelo della pace ». Animata com'è dalla salda consapevolezza di rendere un indispensabile servizio a quanti si dedicano a promuovere la pace, essa ricorda a tutti che, per essere autentica e duratura, la pace deve essere costruita sulla roccia della verità di Dio e della verità dell'uomo. Solo questa verità può sensibilizzare gli animi alla giustizia, aprirli all'amore e alla solidarietà, incoraggiare tutti ad operare per un'umanità realmente libera e solidale. Sì, solo sulla verità di Dio e dell'uomo poggiano le fondamenta di un'autentica pace.

16. A conclusione di questo messaggio, vorrei ora rivolgermi particolarmente ai credenti in Cristo, per rinnovare loro l'invito a farsi attenti e disponibili discepoli del Signore. Ascoltando il Vangelo, cari fratelli e sorelle, impariamo a fondare la pace sulla verità di un'esistenza quotidiana ispirata al comandamento dell'amore. È necessario che ogni comunità si impegni in un'intensa e capillare opera di educazione e di testimonianza che faccia crescere in ciascuno la consapevolezza dell'urgenza di scoprire sempre più a fondo la verità della pace. Chiedo al tempo stesso che si intensifichi la preghiera, perché la pace è anzitutto dono di Dio da implorare incessantemente. Grazie all'aiuto divino, risulterà di certo più convincente e illuminante l'annuncio e la testimonianza della verità della pace. Volgiamo con fiducia e filiale abbandono lo sguardo verso Maria, la Madre del Principe della Pace. All'inizio di questo nuovo anno Le chiediamo di aiutare l'intero Popolo di Dio ad essere in ogni situazione operatore di pace, lasciandosi illuminare dalla Verità che rende liberi (cfr Gv 8,32). Per sua intercessione possa l'umanità crescere nell'apprezzamento di questo fondamentale bene ed impegnarsi a consolidarne la presenza nel mondo, per consegnare un avvenire più sereno e più sicuro alle generazioni che verranno.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2005.

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XL GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA PERSONA UMANA, CUORE DELLA PACE

1 gennaio 2007

 

1. All'inizio del nuovo anno, vorrei far giungere ai Governanti e ai Responsabili delle Nazioni, come anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il mio augurio di pace. Lo rivolgo, in particolare, a quanti sono nel dolore e nella sofferenza, a chi vive minacciato dalla violenza e dalla forza delle armi o, calpestato nella sua dignità, attende il proprio riscatto umano e sociale. Lo rivolgo ai bambini, che con la loro innocenza arricchiscono l'umanità di bontà e di speranza e, con il loro dolore, ci stimolano a farci tutti operatori di giustizia e di pace. Proprio pensando ai bambini, specialmente a quelli il cui futuro è compromesso dallo sfruttamento e dalla cattiveria di adulti senza scrupoli, ho voluto che in occasione della Giornata Mondiale della Pace la comune attenzione si concentrasse sul tema: Persona umana, cuore della pace. Sono infatti convinto che rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni.

La persona umana e la pace: dono e compito

2. Afferma la Sacra Scrittura: « Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (Gn 1,27). Perché creato ad immagine di Dio, l'individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone. Al tempo stesso, egli è chiamato, per grazia, ad un'alleanza con il suo Creatore, a offrirgli una risposta di fede e di amore che nessun altro può dare al posto suo(1). In questa mirabile prospettiva, si comprende il compito affidato all'essere umano di maturare se stesso nella capacità d'amore e di far progredire il mondo, rinnovandolo nella giustizia e nella pace. Con un'efficace sintesi sant'Agostino insegna: « Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi »(2). È pertanto doveroso per tutti gli esseri umani coltivare la consapevolezza del duplice aspetto di dono e di compito.

3. Anche la pace è insieme un dono e un compito. Se è vero che la pace tra gli individui ed i popoli — la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà — rappresenta un impegno che non conosce sosta, è anche vero, lo è anzi di più, che la pace è dono di Dio. La pace è, infatti, una caratteristica dell'agire divino, che si manifesta sia nella creazione di un universo ordinato e armonioso come anche nella redenzione dell'umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del peccato. Creazione e redenzione offrono dunque la chiave di lettura che introduce alla comprensione del senso della nostra esistenza sulla terra. Il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, rivolgendosi all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 5 ottobre 1995, ebbe a dire che noi « non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso [...] vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli »(3). La trascendente “grammatica”, vale a dire l'insieme di regole dell'agire individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia e solidarietà, è iscritta nelle coscienze, nelle quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio. Come recentemente ho voluto riaffermare, « noi crediamo che all'origine c'è il Verbo eterno, la Ragione e non l'Irrazionalità »(4). La pace è quindi anche un compito che impegna ciascuno ad una risposta personale coerente col piano divino. Il criterio cui deve ispirarsi tale risposta non può che essere il rispetto della “grammatica” scritta nel cuore dell'uomo dal divino suo Creatore.

In tale prospettiva, le norme del diritto naturale non vanno considerate come direttive che si impongono dall'esterno, quasi coartando la libertà dell'uomo. Al contrario, esse vanno accolte come una chiamata a realizzare fedelmente l'universale progetto divino iscritto nella natura dell'essere umano. Guidati da tali norme, i popoli — all'interno delle rispettive culture — possono così avvicinarsi al mistero più grande, che è il mistero di Dio. Il riconoscimento e il rispetto della legge naturale pertanto costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. È questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un'autentica pace.

Il diritto alla vita e alla libertà religiosa

4. Il dovere del rispetto per la dignità di ogni essere umano, nella cui natura si rispecchia l'immagine del Creatore, comporta come conseguenza che della persona non si possa disporre a piacimento. Chi gode di maggiore potere politico, tecnologico, economico, non può avvalersene per violare i diritti degli altri meno fortunati. È infatti sul rispetto dei diritti di tutti che si fonda la pace. Consapevole di ciò, la Chiesa si fa paladina dei diritti fondamentali di ogni persona. In particolare, essa rivendica il rispetto della vita e della libertà religiosa di ciascuno. Il rispetto del diritto alla vita in ogni sua fase stabilisce un punto fermo di decisiva importanza: la vita è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità. Ugualmente, l'affermazione del diritto alla libertà religiosa pone l'essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all'arbitrio dell'uomo. Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell'uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell'uomo in quanto tale.

5. Per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall'aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall'eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?

L'aborto e la sperimentazione sugli embrioni costituiscono la diretta negazione dell'atteggiamento di accoglienza verso l'altro che è indispensabile per instaurare durevoli rapporti di pace. Per quanto riguarda poi la libera espressione della propria fede, un altro preoccupante sintomo di mancanza di pace nel mondo è rappresentato dalle difficoltà che tanto i cristiani quanto i seguaci di altre religioni incontrano spesso nel professare pubblicamente e liberamente le proprie convinzioni religiose. Parlando in particolare dei cristiani, debbo rilevare con dolore che essi non soltanto sono a volte impediti; in alcuni Stati vengono addirittura perseguitati, ed anche di recente si sono dovuti registrare tragici episodi di efferata violenza. Vi sono regimi che impongono a tutti un'unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose. In ogni caso, non viene rispettato un diritto umano fondamentale, con gravi ripercussioni sulla convivenza pacifica. Ciò non può che promuovere una mentalità e una cultura negative per la pace.

L'uguaglianza di natura di tutte le persone

6. All'origine di non poche tensioni che minacciano la pace sono sicuramente le tante ingiuste disuguaglianze ancora tragicamente presenti nel mondo. Tra esse particolarmente insidiose sono, da una parte, le disuguaglianze nell'accesso a beni essenziali, come il cibo, l'acqua, la casa, la salute; dall'altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna nell'esercizio dei diritti umani fondamentali.

Costituisce un elemento di primaria importanza per la costruzione della pace il riconoscimento dell'essenziale uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro comune trascendente dignità. L'uguaglianza a questo livello è quindi un bene di tutti inscritto in quella “grammatica” naturale, desumibile dal progetto divino della creazione; un bene che non può essere disatteso o vilipeso senza provocare pesanti ripercussioni da cui è messa a rischio la pace. Le gravissime carenze di cui soffrono molte popolazioni, specialmente del Continente africano, sono all'origine di violente rivendicazioni e costituiscono pertanto una tremenda ferita inferta alla pace.

7. Anche la non sufficiente considerazione per la condizione femminile introduce fattori di instabilità nell'assetto sociale. Penso allo sfruttamento di donne trattate come oggetti e alle tante forme di mancanza di rispetto per la loro dignità; penso anche — in contesto diverso — alle visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all'arbitrio dell'uomo, con conseguenze lesive per la sua dignità di persona e per l'esercizio delle stesse libertà fondamentali. Non ci si può illudere che la pace sia assicurata finché non siano superate anche queste forme di discriminazione, che ledono la dignità personale, inscritta dal Creatore in ogni essere umano(5).

L'« ecologia della pace »

8. Scrive Giovanni Paolo II nella Lettera enciclica Centesimus annus: « Non solo la terra è stata data da Dio all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l'uomo è stato donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato »(6). È rispondendo a questa consegna, a lui affidata dal Creatore, che l'uomo, insieme ai suoi simili, può dar vita a un mondo di pace. Accanto all'ecologia della natura c'è dunque un'ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un”‘ecologia sociale”. E ciò comporta che l'umanità, se ha a cuore la pace, debba tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l'ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e l'ecologia umana. L'esperienza dimostra che ogni atteggiamento irrispettoso verso l'ambiente reca danni alla convivenza umana, e viceversa. Sempre più chiaramente emerge un nesso inscindibile tra la pace con il creato e la pace tra gli uomini. L'una e l'altra presuppongono la pace con Dio. La poesia-preghiera di San Francesco, nota anche come « Cantico di Frate Sole », costituisce un mirabile esempio — sempre attuale — di questa multiforme ecologia della pace.

9. Ci aiuta a comprendere quanto sia stretto questo nesso tra l'una ecologia e l'altra il problema ogni giorno più grave dei rifornimenti energetici. In questi anni nuove Nazioni sono entrate con slancio nella produzione industriale, incrementando i bisogni energetici. Ciò sta provocando una corsa alle risorse disponibili che non ha confronti con situazioni precedenti. Nel frattempo, in alcune regioni del pianeta si vivono ancora condizioni di grande arretratezza, in cui lo sviluppo è praticamente inceppato anche a motivo del rialzo dei prezzi dell'energia. Che ne sarà di quelle popolazioni? Quale genere di sviluppo o di non-sviluppo sarà loro imposto dalla scarsità di rifornimenti energetici? Quali ingiustizie e antagonismi provocherà la corsa alle fonti di energia? E come reagiranno gli esclusi da questa corsa? Sono domande che pongono in evidenza come il rispetto della natura sia strettamente legato alla necessità di tessere tra gli uomini e tra le Nazioni rapporti attenti alla dignità della persona e capaci di soddisfare ai suoi autentici bisogni. La distruzione dell'ambiente, un suo uso improprio o egoistico e l'accaparramento violento delle risorse della terra generano lacerazioni, conflitti e guerre, proprio perché sono frutto di un concetto disumano di sviluppo. Uno sviluppo infatti che si limitasse all'aspetto tecnico-economico, trascurando la dimensione morale-religiosa, non sarebbe uno sviluppo umano integrale e finirebbe, in quanto unilaterale, per incentivare le capacità distruttive dell'uomo.

Visioni riduttive dell'uomo

10. Urge pertanto, pur nel quadro delle attuali difficoltà e tensioni internazionali, impegnarsi per dar vita ad un'ecologia umana che favorisca la crescita dell'« albero della pace ». Per tentare una simile impresa è necessario lasciarsi guidare da una visione della persona non viziata da pregiudizi ideologici e culturali o da interessi politici ed economici, che incitino all'odio e alla violenza. È comprensibile che le visioni dell'uomo varino nelle diverse culture. Ciò che invece non si può ammettere è che vengano coltivate concezioni antropologiche che rechino in se stesse il germe della contrapposizione e della violenza. Ugualmente inaccettabili sono concezioni di Dio che stimolino all'insofferenza verso i propri simili e al ricorso alla violenza nei loro confronti. È questo un punto da ribadire con chiarezza: una guerra in nome di Dio non è mai accettabile! Quando una certa concezione di Dio è all'origine di fatti criminosi, è segno che tale concezione si è già trasformata in ideologia.

11. Oggi, però, la pace non è messa in questione solo dal conflitto tra le visioni riduttive dell'uomo, ossia tra le ideologie. Lo è anche dall'indifferenza per ciò che costituisce la vera natura dell'uomo. Molti contemporanei negano, infatti, l'esistenza di una specifica natura umana e rendono così possibili le più stravaganti interpretazioni dei costitutivi essenziali dell'essere umano. Anche qui è necessaria la chiarezza: una visione « debole » della persona, che lasci spazio ad ogni anche eccentrica concezione, solo apparentemente favorisce la pace. In realtà impedisce il dialogo autentico ed apre la strada all'intervento di imposizioni autoritarie, finendo così per lasciare la persona stessa indifesa e, conseguentemente, facile preda dell'oppressione e della violenza.

Diritti umani e Organizzazioni internazionali

12. Una pace vera e stabile presuppone il rispetto dei diritti dell'uomo. Se però questi diritti si fondano su una concezione debole della persona, come non ne risulteranno anch'essi indeboliti? Si rende qui evidente la profonda insufficienza di una concezione relativistica della persona, quando si tratta di giustificarne e difenderne i diritti. L'aporia in tal caso è palese: i diritti vengono proposti come assoluti, ma il fondamento che per essi si adduce è solo relativo. C'è da meravigliarsi se, di fronte alle esigenze “scomode” poste dall'uno o dall'altro diritto, possa insorgere qualcuno a contestarlo o a deciderne l'accantonamento? Solo se radicati in oggettive istanze della natura donata all'uomo dal Creatore, i diritti a lui attribuiti possono essere affermati senza timore di smentita. Va da sé, peraltro, che i diritti dell'uomo implicano a suo carico dei doveri. Bene sentenziava, al riguardo, il mahatma Gandhi: « Il Gange dei diritti discende dall'Himalaia dei doveri ». È solo facendo chiarezza su questi presupposti di fondo che i diritti umani, oggi sottoposti a continui attacchi, possono essere adeguatamente difesi. Senza tale chiarezza, si finisce per utilizzare la stessa espressione, ‘diritti umani’ appunto, sottintendendo soggetti assai diversi fra loro: per alcuni, la persona umana contraddistinta da dignità permanente e da diritti validi sempre, dovunque e per chiunque; per altri, una persona dalla dignità cangiante e dai diritti sempre negoziabili: nei contenuti, nel tempo e nello spazio.

13. Alla tutela dei diritti umani fanno costante riferimento gli Organismi internazionali e, in particolare, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, che con la Dichiarazione Universale del 1948 si è prefissata, quale compito fondamentale, la promozione dei diritti dell'uomo. A tale Dichiarazione si guarda come ad una sorta di impegno morale assunto dall'umanità intera. Ciò ha una sua profonda verità soprattutto se i diritti descritti nella Dichiarazione sono considerati come aventi fondamento non semplicemente nella decisione dell'assemblea che li ha approvati, ma nella natura stessa dell'uomo e nella sua inalienabile dignità di persona creata da Dio. È importante, pertanto, che gli Organismi internazionali non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell'uomo. Ciò li sottrarrà al rischio, purtroppo sempre latente, di scivolare verso una loro interpretazione solo positivistica. Se ciò accadesse, gli Organismi internazionali risulterebbero carenti dell'autorevolezza necessaria per svolgere il ruolo di difensori dei diritti fondamentali della persona e dei popoli, principale giustificazione del loro stesso esistere ed operare.

Diritto internazionale umanitario e diritto interno degli Stati

14. A partire dalla consapevolezza che esistono diritti umani inalienabili connessi con la comune natura degli uomini, è stato elaborato un diritto internazionale umanitario, alla cui osservanza gli Stati sono impegnati anche in caso di guerra. Ciò purtroppo non ha trovato coerente attuazione, a prescindere dal passato, in alcune situazioni di guerra verificatesi di recente. Così, ad esempio, è avvenuto nel conflitto che mesi fa ha avuto per teatro il Libano del Sud, dove l'obbligo di proteggere e aiutare le vittime innocenti e di non coinvolgere la popolazione civile è stato in gran parte disatteso. La dolorosa vicenda del Libano e la nuova configurazione dei conflitti, soprattutto da quando la minaccia terroristica ha posto in atto inedite modalità di violenza, richiedono che la comunità internazionale ribadisca il diritto internazionale umanitario e lo applichi a tutte le odierne situazioni di conflitto armato, comprese quelle non previste dal diritto internazionale in vigore. Inoltre, la piaga del terrorismo postula un'approfondita riflessione sui limiti etici che sono inerenti all'utilizzo degli strumenti odierni di tutela della sicurezza nazionale. Sempre più spesso, in effetti, i conflitti non vengono dichiarati, soprattutto quando li scatenano gruppi terroristici decisi a raggiungere con qualunque mezzo i loro scopi. Dinanzi agli sconvolgenti scenari di questi ultimi anni, gli Stati non possono non avvertire la necessità di darsi delle regole più chiare, capaci di contrastare efficacemente la drammatica deriva a cui stiamo assistendo. La guerra rappresenta sempre un insuccesso per la comunità internazionale ed una grave perdita di umanità. Quando, nonostante tutto, ad essa si arriva, occorre almeno salvaguardare i principi essenziali di umanità e i valori fondanti di ogni civile convivenza, stabilendo norme di comportamento che ne limitino il più possibile i danni e tendano ad alleviare le sofferenze dei civili e di tutte le vittime dei conflitti(7).

15. Altro elemento che suscita grande inquietudine è la volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari. Ne è risultato ulteriormente accentuato il diffuso clima di incertezza e di paura per una possibile catastrofe atomica. Ciò riporta gli animi indietro nel tempo, alle ansie logoranti del periodo della cosiddetta « guerra fredda ». Dopo di allora si sperava che il pericolo atomico fosse definitivamente scongiurato e che l'umanità potesse finalmente tirare un durevole sospiro di sollievo. Quanto appare attuale, a questo proposito, il monito del Concilio Ecumenico Vaticano II: « Ogni azione bellica che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni con i loro abitanti è un crimine contro Dio e contro l'uomo, che deve essere condannato con fermezza e senza esitazione »(8). Purtroppo ombre minacciose continuano ad addensarsi all'orizzonte dell'umanità. La via per assicurare un futuro di pace per tutti è rappresentata non solo da accordi internazionali per la non proliferazione delle armi nucleari, ma anche dall'impegno di perseguire con determinazione la loro diminuzione e il loro definitivo smantellamento. Niente si lasci di intentato per arrivare, con la trattativa, al conseguimento di tali obiettivi! È in gioco il destino dell'intera famiglia umana!

La Chiesa a tutela della trascendenza della persona umana

16. Desidero, infine, rivolgere un pressante appello al Popolo di Dio, perché ogni cristiano si senta impegnato ad essere infaticabile operatore di pace e strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti. Grato al Signore per averlo chiamato ad appartenere alla sua Chiesa che, nel mondo, è « segno e tutela della trascendenza della persona umana »(9), il cristiano non si stancherà di implorare da Lui il fondamentale bene della pace che tanta rilevanza ha nella vita di ciascuno. Egli inoltre sentirà la fierezza di servire con generosa dedizione la causa della pace, andando incontro ai fratelli, specialmente a coloro che, oltre a patire povertà e privazioni, sono anche privi di tale prezioso bene. Gesù ci ha rivelato che « Dio è amore » (1 Gv 4,8) e che la vocazione più grande di ogni persona è l'amore. In Cristo noi possiamo trovare le ragioni supreme per farci fermi paladini della dignità umana e coraggiosi costruttori di pace.

17. Non venga quindi mai meno il contributo di ogni credente alla promozione di un vero umanesimo integrale, secondo gli insegnamenti delle Lettere encicliche Populorum progressio e Sollicitudo rei socialis, delle quali ci apprestiamo a celebrare proprio quest'anno il 40o e il 20o anniversario. Alla Regina della Pace, Madre di Gesù Cristo « nostra pace » (Ef 2,14), affido la mia insistente preghiera per l'intera umanità all'inizio dell'anno 2007, a cui guardiamo — pur tra pericoli e problemi — con cuore colmo di speranza. Sia Maria a mostrarci nel Figlio suo la Via della pace, ed illumini i nostri occhi, perché sappiano riconoscere il suo Volto nel volto di ogni persona umana, cuore della pace!

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2006.

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XLI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

FAMIGLIA UMANA, COMUNITÀ DI PACE

1 gennaio 2008

 

1. All'inizio di un nuovo anno desidero far pervenire il mio fervido augurio di pace, insieme con un caloroso messaggio di speranza agli uomini e alle donne di tutto il mondo. Lo faccio proponendo alla riflessione comune il tema con cui ho aperto questo messaggio, e che mi sta particolarmente a cuore: Famiglia umana, comunità di pace. Di fatto, la prima forma di comunione tra persone è quella che l'amore suscita tra un uomo e una donna decisi ad unirsi stabilmente per costruire insieme una nuova famiglia. Ma anche i popoli della terra sono chiamati ad instaurare tra loro rapporti di solidarietà e di collaborazione, quali s'addicono a membri dell'unica famiglia umana: « Tutti i popoli — ha sentenziato il Concilio Vaticano II — formano una sola comunità, hanno un'unica origine, perché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra (cfr At 17,26), ed hanno anche un solo fine ultimo, Dio ».

Famiglia, società e pace

2. La famiglia naturale, quale intima comunione di vita e d'amore, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, costituisce « il luogo primario dell'“umanizzazione” della persona e della società », la « culla della vita e dell'amore ». A ragione, pertanto, la famiglia è qualificata come la prima società naturale, « un'istituzione divina che sta a fondamento della vita delle persone, come prototipo di ogni ordinamento sociale ».

3. In effetti, in una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l'amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell'autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l'aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l'altro e, se necessario, a perdonarlo. Per questo la famiglia è la prima e insostituibile educatrice alla pace. Non meraviglia quindi che la violenza, se perpetrata in famiglia, sia percepita come particolarmente intollerabile. Pertanto, quando si afferma che la famiglia è « la prima e vitale cellula della società », si dice qualcosa di essenziale. La famiglia è fondamento della società anche per questo: perché permette di fare determinanti esperienze di pace. Ne consegue che la comunità umana non può fare a meno del servizio che la famiglia svolge. Dove mai l'essere umano in formazione potrebbe imparare a gustare il « sapore » genuino della pace meglio che nel « nido » originario che la natura gli prepara? Il lessico familiare è un lessico di pace; lì è necessario attingere sempre per non perdere l'uso del vocabolario della pace. Nell'inflazione dei linguaggi, la società non può perdere il riferimento a quella « grammatica » che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole.

4. La famiglia, poiché ha il dovere di educare i suoi membri, è titolare di specifici diritti. La stessa Dichiarazione universale dei diritti umani, che costituisce un'acquisizione di civiltà giuridica di valore veramente universale, afferma che « la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato ». Da parte sua, la Santa Sede ha voluto riconoscere una speciale dignità giuridica alla famiglia pubblicando la Carta dei diritti della famiglia. Nel Preambolo si legge: « I diritti della persona, anche se espressi come diritti dell'individuo, hanno una fondamentale dimensione sociale, che trova nella famiglia la sua nativa e vitale espressione ». I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell'essere umano e a lui manifestata dalla ragione. La negazione o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità sull'uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace.

5. Pertanto, chi anche inconsapevolmente osteggia l'istituto familiare rende fragile la pace nell'intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale « agenzia » di pace. È questo un punto meritevole di speciale riflessione: tutto ciò che contribuisce a indebolire la famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, ciò che direttamente o indirettamente ne frena la disponibilità all'accoglienza responsabile di una nuova vita, ciò che ne ostacola il diritto ad essere la prima responsabile dell'educazione dei figli, costituisce un oggettivo impedimento sulla via della pace. La famiglia ha bisogno della casa, del lavoro o del giusto riconoscimento dell'attività domestica dei genitori, della scuola per i figli, dell'assistenza sanitaria di base per tutti. Quando la società e la politica non si impegnano ad aiutare la famiglia in questi campi, si privano di un'essenziale risorsa a servizio della pace. In particolare, i mezzi della comunicazione sociale, per le potenzialità educative di cui dispongono, hanno una speciale responsabilità nel promuovere il rispetto per la famiglia, nell'illustrarne le attese e i diritti, nel metterne in evidenza la bellezza.

L'umanità è una grande famiglia

6. Anche la comunità sociale, per vivere in pace, è chiamata a ispirarsi ai valori su cui si regge la comunità familiare. Questo vale per le comunità locali come per quelle nazionali; vale anzi per la stessa comunità dei popoli, per la famiglia umana che vive in quella casa comune che è la terra. In questa prospettiva, però, non si può dimenticare che la famiglia nasce dal « sì » responsabile e definitivo di un uomo e di una donna e vive del « sì » consapevole dei figli che vengono via via a farne parte. La comunità familiare per prosperare ha bisogno del consenso generoso di tutti i suoi membri. È necessario che questa consapevolezza diventi convinzione condivisa anche di quanti sono chiamati a formare la comune famiglia umana. Occorre saper dire il proprio « sì » a questa vocazione che Dio ha inscritto nella stessa nostra natura. Non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle. È perciò essenziale che ciascuno si impegni a vivere la propria vita in atteggiamento di responsabilità davanti a Dio, riconoscendo in Lui la sorgente originaria della propria, come dell'altrui, esistenza. È risalendo a questo supremo Principio che può essere percepito il valore incondizionato di ogni essere umano, e possono essere poste così le premesse per l'edificazione di un'umanità pacificata. Senza questo Fondamento trascendente, la società è solo un'aggregazione di vicini, non una comunità di fratelli e sorelle, chiamati a formare una grande famiglia.

Famiglia, comunità umana e ambiente

7. La famiglia ha bisogno di una casa, di un ambiente a sua misura in cui intessere le proprie relazioni. Per la famiglia umana questa casa è la terra, l'ambiente che Dio Creatore ci ha dato perché lo abitassimo con creatività e responsabilità. Dobbiamo avere cura dell'ambiente: esso è stato affidato all'uomo, perché lo custodisca e lo coltivi con libertà responsabile, avendo sempre come criterio orientatore il bene di tutti. L'essere umano, ovviamente, ha un primato di valore su tutto il creato. Rispettare l'ambiente non vuol dire considerare la natura materiale o animale più importante dell'uomo. Vuol dire piuttosto non considerarla egoisticamente a completa disposizione dei propri interessi, perché anche le future generazioni hanno il diritto di trarre beneficio dalla creazione, esprimendo in essa la stessa libertà responsabile che rivendichiamo per noi. Né vanno dimenticati i poveri, esclusi in molti casi dalla destinazione universale dei beni del creato. Oggi l'umanità teme per il futuro equilibrio ecologico. È bene che le valutazioni a questo riguardo si facciano con prudenza, nel dialogo tra esperti e saggi, senza accelerazioni ideologiche verso conclusioni affrettate e soprattutto concertando insieme un modello di sviluppo sostenibile, che garantisca il benessere di tutti nel rispetto degli equilibri ecologici. Se la tutela dell'ambiente comporta dei costi, questi devono essere distribuiti con giustizia, tenendo conto delle diversità di sviluppo dei vari Paesi e della solidarietà con le future generazioni. Prudenza non significa non assumersi le proprie responsabilità e rimandare le decisioni; significa piuttosto assumere l'impegno di decidere assieme e dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l'obiettivo di rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.

8. Fondamentale, a questo riguardo, è « sentire » la terra come « nostra casa comune » e scegliere, per una sua gestione a servizio di tutti, la strada del dialogo piuttosto che delle decisioni unilaterali. Si possono aumentare, se necessario, i luoghi istituzionali a livello internazionale, per affrontare insieme il governo di questa nostra « casa »; ciò che più conta, tuttavia, è far maturare nelle coscienze la convinzione della necessità di collaborare responsabilmente. I problemi che si presentano all'orizzonte sono complessi e i tempi stringono. Per far fronte in modo efficace alla situazione, bisogna agire concordi. Un ambito nel quale sarebbe, in particolare, necessario intensificare il dialogo tra le Nazioni è quello della gestione delle risorse energetiche del pianeta. Una duplice urgenza, a questo riguardo, si pone ai Paesi tecnologicamente avanzati: occorre rivedere, da una parte, gli elevati standard di consumo dovuti all'attuale modello di sviluppo, e provvedere, dall'altra, ad adeguati investimenti per la differenziazione delle fonti di energia e per il miglioramento del suo utilizzo. I Paesi emergenti hanno fame di energia, ma talvolta questa fame viene saziata ai danni dei Paesi poveri i quali, per l'insufficienza delle loro infrastrutture, anche tecnologiche, sono costretti a svendere le risorse energetiche in loro possesso. A volte, la loro stessa libertà politica viene messa in discussione con forme di protettorato o comunque di condizionamento, che appaiono chiaramente umilianti.

Famiglia, comunità umana ed economia

9. Condizione essenziale per la pace nelle singole famiglie è che esse poggino sul solido fondamento di valori spirituali ed etici condivisi. Occorre però aggiungere che la famiglia fa un'autentica esperienza di pace quando a nessuno manca il necessario, e il patrimonio familiare — frutto del lavoro di alcuni, del risparmio di altri e della attiva collaborazione di tutti — è bene gestito nella solidarietà, senza eccessi e senza sprechi. Per la pace familiare è dunque necessaria, da una parte, l'apertura ad un patrimonio trascendente di valori, ma al tempo stesso non è priva di importanza, dall'altra, la saggia gestione sia dei beni materiali che delle relazioni tra le persone. Il venir meno di questa componente ha come conseguenza l'incrinarsi della fiducia reciproca a motivo delle incerte prospettive che minacciano il futuro del nucleo familiare.

10. Un discorso simile va fatto per quell'altra grande famiglia che è l'umanità nel suo insieme. Anche la famiglia umana, oggi ulteriormente unificata dal fenomeno della globalizzazione, ha bisogno, oltre che di un fondamento di valori condivisi, di un'economia che risponda veramente alle esigenze di un bene comune a dimensioni planetarie. Il riferimento alla famiglia naturale si rivela, anche da questo punto di vista, singolarmente suggestivo. Occorre promuovere corrette e sincere relazioni tra i singoli esseri umani e tra i popoli, che permettano a tutti di collaborare su un piano di parità e di giustizia. Al tempo stesso, ci si deve adoperare per una saggia utilizzazione delle risorse e per un'equa distribuzione della ricchezza. In particolare, gli aiuti dati ai Paesi poveri devono rispondere a criteri di sana logica economica, evitando sprechi che risultino in definitiva funzionali soprattutto al mantenimento di costosi apparati burocratici. Occorre anche tenere in debito conto l'esigenza morale di far sì che l'organizzazione economica non risponda solo alle crude leggi del guadagno immediato, che possono risultare disumane.

Famiglia, comunità umana e legge morale

11. Una famiglia vive in pace se tutti i suoi componenti si assoggettano ad una norma comune: è questa ad impedire l'individualismo egoistico e a legare insieme i singoli, favorendone la coesistenza armoniosa e l'operosità finalizzata. Il criterio, in sé ovvio, vale anche per le comunità più ampie: da quelle locali, a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale. Per avere la pace c'è bisogno di una legge comune, che aiuti la libertà ad essere veramente se stessa, anziché cieco arbitrio, e che protegga il debole dal sopruso del più forte. Nella famiglia dei popoli si verificano molti comportamenti arbitrari, sia all'interno dei singoli Stati sia nelle relazioni degli Stati tra loro. Non mancano poi tante situazioni in cui il debole deve piegare la testa davanti non alle esigenze della giustizia, ma alla nuda forza di chi ha più mezzi di lui. Occorre ribadirlo: la forza va sempre disciplinata dalla legge e ciò deve avvenire anche nei rapporti tra Stati sovrani.

12. Sulla natura e la funzione della legge la Chiesa si è pronunciata molte volte: la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio che sta all'origine di tutte le cose. Questa norma morale deve regolare le scelte delle coscienze e guidare tutti i comportamenti degli esseri umani. Esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana? E se esistono, sono esse operanti? La risposta è: sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi.

13. La conoscenza della norma morale naturale non è preclusa all'uomo che rientra in se stesso e, ponendosi di fronte al proprio destino, si interroga circa la logica interna delle più profonde inclinazioni presenti nel suo essere. Pur con perplessità e incertezze, egli può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli esseri umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. È indispensabile risalire a questa legge fondamentale impegnando in questa ricerca le nostre migliori energie intellettuali, senza lasciarci scoraggiare da equivoci e fraintendimenti. Di fatto, valori radicati nella legge naturale sono presenti, anche se in forma frammentata e non sempre coerente, negli accordi internazionali, nelle forme di autorità universalmente riconosciute, nei principi del diritto umanitario recepito nelle legislazioni dei singoli Stati o negli statuti degli Organismi internazionali. L'umanità non è « senza legge ». È tuttavia urgente proseguire nel dialogo su questi temi, favorendo il convergere anche delle legislazioni dei singoli Stati verso il riconoscimento dei diritti umani fondamentali. La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l'altro, dall'impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano, così da evitare il loro ridursi a procedure facilmente aggirabili per motivi egoistici o ideologici.

Superamento dei conflitti e disarmo

14. L'umanità vive oggi, purtroppo, grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul suo futuro. Vaste aree del pianeta sono coinvolte in tensioni crescenti, mentre il pericolo che si moltiplichino i Paesi detentori dell'arma nucleare suscita motivate apprensioni in ogni persona responsabile. Sono ancora in atto molte guerre civili nel Continente africano, sebbene in esso non pochi Paesi abbiano fatto progressi nella libertà e nella democrazia. Il Medio Oriente è tuttora teatro di conflitti e di attentati, che influenzano anche Nazioni e regioni limitrofe, rischiando di coinvolgerle nella spirale della violenza. Su un piano più generale, si deve registrare con rammarico l'aumento del numero di Stati coinvolti nella corsa agli armamenti: persino Nazioni in via di sviluppo destinano una quota importante del loro magro prodotto interno all'acquisto di armi. In questo funesto commercio le responsabilità sono molte: vi sono i Paesi del mondo industrialmente sviluppato che traggono lauti guadagni dalla vendita di armi e vi sono le oligarchie dominanti in tanti Paesi poveri che vogliono rafforzare la loro situazione mediante l'acquisto di armi sempre più sofisticate. È veramente necessaria in tempi tanto difficili la mobilitazione di tutte le persone di buona volontà per trovare concreti accordi in vista di un'efficace smilitarizzazione, soprattutto nel campo delle armi nucleari. In questa fase in cui il processo di non proliferazione nucleare sta segnando il passo, sento il dovere di esortare le Autorità a riprendere con più ferma determinazione le trattative in vista dello smantellamento progressivo e concordato delle armi nucleari esistenti. Nel rinnovare questo appello, so di farmi eco dell'auspicio condiviso da quanti hanno a cuore il futuro dell'umanità.

15. Sessant'anni or sono l'Organizzazione delle Nazioni Unite rendeva pubblica in modo solenne la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948–2008). Con quel documento la famiglia umana reagiva agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, riconoscendo la propria unità basata sulla pari dignità di tutti gli uomini e ponendo al centro della convivenza umana il rispetto dei diritti fondamentali dei singoli e dei popoli: fu quello un passo decisivo nel difficile e impegnativo cammino verso la concordia e la pace. Uno speciale pensiero merita anche la ricorrenza del 25o anniversario dell'adozione da parte della Santa Sede della Carta dei diritti della famiglia (1983–2008), come pure il 40o anniversario della celebrazione della prima Giornata Mondiale della Pace (1968–2008). Frutto di una provvidenziale intuizione di Papa Paolo VI, ripresa con grande convinzione dal mio amato e venerato predecessore, Papa Giovanni Paolo II, la celebrazione di questa Giornata ha offerto nel corso degli anni la possibilità di sviluppare, attraverso i Messaggi pubblicati per la circostanza, un'illuminante dottrina da parte della Chiesa a favore di questo fondamentale bene umano. È proprio alla luce di queste significative ricorrenze che invito ogni uomo e ogni donna a prendere più lucida consapevolezza della comune appartenenza all'unica famiglia umana e ad impegnarsi perché la convivenza sulla terra rispecchi sempre di più questa convinzione da cui dipende l'instaurazione di una pace vera e duratura. Invito poi i credenti ad implorare da Dio senza stancarsi il grande dono della pace. I cristiani, per parte loro, sanno di potersi affidare all'intercessione di Colei che, essendo Madre del Figlio di Dio fattosi carne per la salvezza dell'intera umanità, è Madre comune.

A tutti l'augurio di un lieto Anno nuovo!

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2007

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XLII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

COMBATTERE LA POVERTÀ, COSTRUIRE LA PACE

1 gennaio 2009

 

1. Anche all'inizio di questo nuovo anno desidero far giungere a tutti il mio augurio di pace ed invitare, con questo mio Messaggio, a riflettere sul tema: Combattere la povertà, costruire la pace. Già il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1993, aveva sottolineato le ripercussioni negative che la situazione di povertà di intere popolazioni finisce per avere sulla pace. Di fatto, la povertà risulta sovente tra i fattori che favoriscono o aggravano i conflitti, anche armati. A loro volta, questi ultimi alimentano tragiche situazioni di povertà. « S'afferma... e diventa sempre più grave nel mondo – scriveva Giovanni Paolo II – un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale » [1].

2. In questo contesto, combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale, sollecitando a guardare ai poveri nella consapevole prospettiva di essere tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità.

In tale prospettiva occorre avere, della povertà, una visione ampia ed articolata. Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali. Ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico. Penso, da una parte, a quello che viene chiamato il « sottosviluppo morale » [2] e, dall'altra, alle conseguenze negative del « supersviluppo » [3]. Non dimentico poi che, nelle società cosiddette « povere », la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse. Resta comunque vero che ogni forma di povertà imposta ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera « ecologia umana » [4], si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti sui quali soffermerò brevemente la mia attenzione.

Povertà e implicazioni morali

3. La povertà viene spesso correlata, come a propria causa, allo sviluppo demografico. In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli [5] e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani. A fronte di ciò resta il fatto che, nel 1981, circa il 40% della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta, mentre oggi tale percentuale è sostanzialmente dimezzata, e sono uscite dalla povertà popolazioni caratterizzate, peraltro, da un notevole incremento demografico. Il dato ora rilevato pone in evidenza che le risorse per risolvere il problema della povertà ci sarebbero, anche in presenza di una crescita della popolazione. Né va dimenticato che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la popolazione sulla terra è cresciuta di quattro miliardi e, in larga misura, tale fenomeno riguarda Paesi che di recente si sono affacciati sulla scena internazionale come nuove potenze economiche e hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti. Inoltre, tra le Nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo. In altri termini, la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà.

4. Un altro ambito di preoccupazione sono le malattie pandemiche quali, ad esempio, la malaria, la tubercolosi e l'AIDS, che, nella misura in cui colpiscono i settori produttivi della popolazione, influiscono grandemente sul peggioramento delle condizioni generali del Paese. I tentativi di frenare le conseguenze di queste malattie sulla popolazione non sempre raggiungono risultati significativi. Capita, inoltre, che i Paesi vittime di alcune di tali pandemie, per farvi fronte, debbano subire i ricatti di chi condiziona gli aiuti economici all'attuazione di politiche contrarie alla vita. È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata. Occorre innanzitutto farsi carico di campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona; iniziative poste in atto in tal senso hanno gia dato frutti significativi, facendo diminuire la diffusione dell'AIDS. Occorre poi mettere a disposizione anche dei popoli poveri le medicine e le cure necessarie; ciò suppone una decisa promozione della ricerca medica e delle innovazioni terapeutiche nonché, quando sia necessario, un'applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale, così da garantire a tutti le cure sanitarie di base.

5. Un terzo ambito, oggetto di attenzione nei programmi di lotta alla povertà e che ne mostra l'intrinseca dimensione morale, è la povertà dei bambini. Quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini. Considerare la povertà ponendosi dalla parte dei bambini induce a ritenere prioritari quegli obiettivi che li interessano più direttamente come, ad esempio, la cura delle madri, l'impegno educativo, l'accesso ai vaccini, alle cure mediche e all'acqua potabile, la salvaguardia dell'ambiente e, soprattutto, l'impegno a difesa della famiglia e della stabilità delle relazioni al suo interno. Quando la famiglia si indebolisce i danni ricadono inevitabilmente sui bambini. Ove non è tutelata la dignità della donna e della mamma, a risentirne sono ancora principalmente i figli.

6. Un quarto ambito che, dal punto di vista morale, merita particolare attenzione è la relazione esistente tra disarmo e sviluppo. Suscita preoccupazione l'attuale livello globale di spesa militare. Come ho già avuto modo di sottolineare, capita che « le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto. E questo va contro quanto afferma la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna la comunità internazionale, e gli Stati in particolare, a “promuovere lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26) » [6].

Questo stato di cose non facilita, anzi ostacola seriamente il raggiungimento dei grandi obiettivi di sviluppo della comunità internazionale. Inoltre, un eccessivo accrescimento della spesa militare rischia di accelerare una corsa agli armamenti che provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti. Come ha sapientemente affermato il mio venerato Predecessore Paolo VI, « lo sviluppo è il nuovo nome della pace » [7]. Gli Stati sono pertanto chiamati ad una seria riflessione sulle più profonde ragioni dei conflitti, spesso accesi dall'ingiustizia, e a provvedervi con una coraggiosa autocritica. Se si giungerà ad un miglioramento dei rapporti, ciò dovrebbe consentire una riduzione delle spese per gli armamenti. Le risorse risparmiate potranno essere destinate a progetti di sviluppo delle persone e dei popoli più poveri e bisognosi: l'impegno profuso in tal senso è un impegno per la pace all'interno della famiglia umana.

7. Un quinto ambito relativo alla lotta alla povertà materiale riguarda l'attuale crisi alimentare, che mette a repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di base. Tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze. La malnutrizione può anche provocare gravi danni psicofisici alle popolazioni, privando molte persone delle energie necessarie per uscire, senza speciali aiuti, dalla loro situazione di povertà. E questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri. Cause principali di tale fenomeno sono senza dubbio, da una parte, il cambiamento tecnologico, i cui benefici si concentrano nella fascia più alta della distribuzione del reddito e, dall'altra, la dinamica dei prezzi dei prodotti industriali, che crescono molto più velocemente dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime in possesso dei Paesi più poveri. Capita così che la maggior parte della popolazione dei Paesi più poveri soffra di una doppia marginalizzazione, in termini sia di redditi più bassi sia di prezzi più alti.

Lotta alla povertà e solidarietà globale

8. Una delle strade maestre per costruire la pace è una globalizzazione finalizzata agli interessi della grande famiglia umana [8]. Per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale [9] tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un « codice etico comune » [10], le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15). Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale? La globalizzazione elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse. La Chiesa, che è « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano », [11] continuerà ad offrire il suo contributo affinché siano superate le ingiustizie e le incomprensioni e si giunga a costruire un mondo più pacifico e solidale.

9. Nel campo del commercio internazionale e delle transazioni finanziarie, sono oggi in atto processi che permettono di integrare positivamente le economie, contribuendo al miglioramento delle condizioni generali; ma ci sono anche processi di senso opposto, che dividono e marginalizzano i popoli, creando pericolose premesse per guerre e conflitti. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio internazionale di beni e di servizi è cresciuto in modo straordinariamente rapido, con un dinamismo senza precedenti nella storia. Gran parte del commercio mondiale ha interessato i Paesi di antica industrializzazione, con la significativa aggiunta di molti Paesi emergenti, diventati rilevanti. Ci sono però altri Paesi a basso reddito, che risultano ancora gravemente marginalizzati rispetto ai flussi commerciali. La loro crescita ha risentito negativamente del rapido declino, registrato negli ultimi decenni, dei prezzi dei prodotti primari, che costituiscono la quasi totalità delle loro esportazioni. In questi Paesi, per la gran parte africani, la dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari continua a costituire un potente fattore di rischio. Vorrei qui rinnovare un appello perché tutti i Paesi abbiano le stesse possibilità di accesso al mercato mondiale, evitando esclusioni e marginalizzazioni.

10. Una riflessione simile può essere fatta per la finanza, che concerne uno degli aspetti primari del fenomeno della globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro tra i diversi Paesi. La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari – a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio. Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria [12].

11. Da tutto ciò emerge che la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia. Richiede inoltre incentivi alla creazione di istituzioni efficienti e partecipate, come pure sostegni per lottare contro la criminalità e per promuovere una cultura della legalità. D'altra parte, non si può negare che le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti nell'aiuto ai Paesi poveri. Investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine. Se le attività economiche hanno bisogno, per svilupparsi, di un contesto favorevole, ciò non significa che l'attenzione debba essere distolta dai problemi del reddito. Sebbene si sia opportunamente sottolineato che l'aumento del reddito pro capite non può costituire in assoluto il fine dell'azione politico-economica, non si deve però dimenticare che esso rappresenta uno strumento importante per raggiungere l'obiettivo della lotta alla fame e alla povertà assoluta. Da questo punto di vista va sgomberato il campo dall'illusione che una politica di pura ridistribuzione della ricchezza esistente possa risolvere il problema in maniera definitiva. In un'economia moderna, infatti, il valore della ricchezza dipende in misura determinante dalla capacità di creare reddito presente e futuro. La creazione di valore risulta perciò un vincolo ineludibile, di cui si deve tener conto se si vuole lottare contro la povertà materiale in modo efficace e duraturo.

12. Mettere i poveri al primo posto comporta, infine, che si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale. Gli stessi organismi internazionali riconoscono oggi la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile o delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell'inclusione nella società di quelle fasce della popolazione che sono spesso al di sotto della soglia di povertà estrema e sono al tempo stesso difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali. La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati. In particolare, la società civile assume un ruolo cruciale in ogni processo di sviluppo, poiché lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile [13].

13. Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, la globalizzazione « si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza » [14] e quindi va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra, superando lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli. La sproporzione è di ordine sia culturale e politico che spirituale e morale. Ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano.

Conclusione

14. Nell'Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di « abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto ». « I poveri – egli scriveva - chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero » [15]. Nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili.

15. Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri. Ai tempi dell'Enciclica Rerum novarum essi erano costituiti soprattutto dagli operai della nuova società industriale; nel magistero sociale di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sono state messe in luce nuove povertà man mano che l'orizzonte della questione sociale si allargava, fino ad assumere dimensioni mondiali [16]. Questo allargamento della questione sociale alla globalità va considerato nel senso non solo di un'estensione quantitativa, ma anche di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana. Per questo la Chiesa, mentre segue con attenzione gli attuali fenomeni della globalizzazione e la loro incidenza sulle povertà umane, indica i nuovi aspetti della questione sociale, non solo in estensione, ma anche in profondità, in quanto concernenti l'identità dell'uomo e il suo rapporto con Dio. Sono principi di dottrina sociale che tendono a chiarire i nessi tra povertà e globalizzazione e ad orientare l'azione verso la costruzione della pace. Tra questi principi è il caso di ricordare qui, in modo particolare, l'« amore preferenziale per i poveri » [17], alla luce del primato della carità, testimoniato da tutta la tradizione cristiana, a cominciare da quella della Chiesa delle origini (cfr At 4,32-36; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10).

« Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi », scriveva nel 1891 Leone XIII, aggiungendo: « Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua » [18]. Questa consapevolezza accompagna anche oggi l'azione della Chiesa verso i poveri, nei quali vede Cristo [19], sentendo risuonare costantemente nel suo cuore il mandato del Principe della pace agli Apostoli: « Vos date illis manducare – date loro voi stessi da mangiare » (Lc 9,13). Fedele a quest'invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà pertanto di assicurare all'intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare « gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società » [20]. Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto all'inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l'assioma secondo cui « combattere la povertà è costruire la pace ».

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2008

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XLIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

SE VUOI COLTIVARE LA PACE, CUSTODISCI IL CREATO

1 gennaio 2010

 

1. In occasione dell’inizio del Nuovo Anno, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché «la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio» [1] e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani –, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi «quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino» [2].

2. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità [3]. Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che «move il sole e l’altre stelle» [4].

3. Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda. «Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata... anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura». E aggiungeva che la coscienza ecologica «non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete» [5]. Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che «attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione». Ed aggiunse che in tal caso «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» [6].

4. Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, «esperta in umanità», si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di «crisi ecologica» e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’«urgente necessità morale di una nuova solidarietà» [7]. Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione. Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti «profughi ambientali»: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.

5. Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo [8]. L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale –, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini. Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.

6. Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo «natura», vi è «un disegno di amore e di verità»? Il mondo «non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso... Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà» [9]. Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per «riempire la terra» e «dominarla» come «amministratori» di Dio stesso (cfr Gen 1,28). L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature. La conseguenza è che si è distorto anche il compito di «dominare» la terra, di «coltivarla e custodirla» e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr Gen 3,17-19). L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come «un mucchio di rifiuti sparsi a caso» [10], mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per «custodirla e coltivarla» (cfr Gen 2,15) [11]. Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, «piuttosto tiranneggiata che governata da lui» [12]. L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola [13].

7. Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricordato che «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli» [14]. L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità. Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future [15]. Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato. Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che «ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale» [16], è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente. Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali –, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica. Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.

8. Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale. I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future: «Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale» [17]. L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni [18]; che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani. Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati: «la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro» [19]. La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo. È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati. I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti. Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.

9. È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future. A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo. Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la «ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi» [20]. La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità. Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani [21].

10. Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano. La «nuova solidarietà», che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990 [22], e la «solidarietà globale», che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009 [23], risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale. Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto «lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità» [24]. Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare. Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici. Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà. Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine. È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti. La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune. D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, «la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di «coltivare e custodire la terra» (cfr Gen 2,15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio» [25].

11. Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico. Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita «nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti» [26]. Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico. Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato. Tale responsabilità non conosce frontiere. Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari. Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell’ «ecologia umana». Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi. Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli. Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti. Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della «carità nella verità». In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.

12. La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso. Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui «quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio» [27]. Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale [28]. I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica «ecologia umana» e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura [29]. Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società. Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.

13. Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura. Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della «dignità» di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della «grammatica» che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare. Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana [30].

14. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato. Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto. Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio «sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20). Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati «nuovi cieli e una terra nuova» (2 Pt 3,13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona. Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità: la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2009

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XLIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LIBERTÀ RELIGIOSA, VIA PER LA PACE

1 gennaio 2011

 

1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.

Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell'Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.

Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.[1]

Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.

Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale

2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana,[2] la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.[3]

La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 4-7).

Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli.[4] La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Libertà religiosa e rispetto reciproco

3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, “nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune”.[5]

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti “debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.[6]

La famiglia, scuola di libertà e di pace

4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

Un patrimonio comune

5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.

La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia.[7] L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è “la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani”.[8] Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.[9]

La dimensione pubblica della religione

6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà:
i pericoli della sua strumentalizzazione

7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con “la forza della verità stessa”.[10] In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.

Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.

Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi - purtroppo ancora disattesi o contraddetti - della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.

Una questione di giustizia e di civiltà:
il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti pregiudicano
la laicità positiva degli Stati

8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.

Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi - attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione - all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.

L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità,[11] la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.

Dialogo tra istituzioni civili e religiose

9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.[12]

Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell'armonia della società.

Vivere nell’amore e nella verità

10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di “vita buona”, favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terracome le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).

Dialogo come ricerca in comune

11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. “Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.[13]

Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, “annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose”.[14] Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”.[15]

Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.

Verità morale nella politica e nella diplomazia

12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale.[16] Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.

Oltre l’odio e il pregiudizio

13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi - come ho già affermato - forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Libertà religiosa nel mondo

14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.

Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati [...]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora “l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)”.[17] La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.

Libertà religiosa, via per la pace

15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: “Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti”.[18] La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali. Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello ed in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2010

 

MESSAGGIO
DI BENEDETTO XVI
PER LA XLV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

EDUCARE I GIOVANI ALLA GIUSTIZIA E ALLA PACE

1 gennaio 2012

 

1. L'inizio di un nuovo anno, dono di Dio all’umanità, mi invita a rivolgere a tutti, con grande fiducia e affetto, uno speciale augurio per questo tempo che ci sta dinanzi, perché sia concretamente segnato dalla giustizia e dalla pace.

Con quale atteggiamento guardare al nuovo anno? Nel Salmo 130 troviamo una bellissima immagine. Il Salmista dice che l’uomo di fede attende il Signore « più che le sentinelle l’aurora » (v. 6), lo attende con ferma speranza, perché sa che porterà luce, misericordia, salvezza. Tale attesa nasce dall’esperienza del popolo eletto, il quale riconosce di essere educato da Dio a guardare il mondo nella sua verità e a non lasciarsi abbattere dalle tribolazioni. Vi invito a guardare il 2012 con questo atteggiamento fiducioso. È vero che nell’anno che termina è cresciuto il senso di frustrazione per la crisi che sta assillando la società, il mondo del lavoro e l’economia; una crisi le cui radici sono anzitutto culturali e antropologiche. Sembra quasi che una coltre di oscurità sia scesa sul nostro tempo e non permetta di vedere con chiarezza la luce del giorno.

In questa oscurità il cuore dell’uomo non cessa tuttavia di attendere l’aurora di cui parla il Salmista. Tale attesa è particolarmente viva e visibile nei giovani, ed è per questo che il mio pensiero si rivolge a loro considerando il contributo che possono e debbono offrire alla società. Vorrei dunque presentare il Messaggio per la XLV Giornata Mondiale della Pace in una prospettiva educativa: «Educare i giovani alla giustizia e alla pace », nella convinzione che essi, con il loro entusiasmo e la loro spinta ideale, possono offrire una nuova speranza al mondo.

Il mio Messaggio si rivolge anche ai genitori, alle famiglie, a tutte le componenti educative, formative, come pure ai responsabili nei vari ambiti della vita religiosa, sociale, politica, economica, culturale e della comunicazione. Essere attenti al mondo giovanile, saperlo ascoltare e valorizzare, non è solamente un’opportunità, ma un dovere primario di tutta la società, per la costruzione di un futuro di giustizia e di pace.

Si tratta di comunicare ai giovani l’apprezzamento per il valore positivo della vita, suscitando in essi il desiderio di spenderla al servizio del Bene. È un compito, questo, in cui tutti siamo impegnati in prima persona.

Le preoccupazioni manifestate da molti giovani in questi ultimi tempi, in varie Regioni del mondo, esprimono il desiderio di poter guardare con speranza fondata verso il futuro. Nel momento presente sono molti gli aspetti che essi vivono con apprensione: il desiderio di ricevere una formazione che li prepari in modo più profondo ad affrontare la realtà, la difficoltà a formare una famiglia e a trovare un posto stabile di lavoro, l’effettiva capacità di contribuire al mondo della politica, della cultura e dell’economia per la costruzione di una società dal volto più umano e solidale.

È importante che questi fermenti e la spinta ideale che contengono trovino la dovuta attenzione in tutte le componenti della società. La Chiesa guarda ai giovani con speranza, ha fiducia in loro e li incoraggia a ricercare la verità, a difendere il bene comune, ad avere prospettive aperte sul mondo e occhi capaci di vedere « cose nuove » (Is 42,9; 48,6)!

I responsabili dell’educazione

2. L’educazione è l’avventura più affascinante e difficile della vita. Educare – dal latino educere – significa condurre fuori da se stessi per introdurre alla realtà, verso una pienezza che fa crescere la persona. Tale processo si nutre dell’incontro di due libertà, quella dell’adulto e quella del giovane. Esso richiede la responsabilità del discepolo, che deve essere aperto a lasciarsi guidare alla conoscenza della realtà, e quella dell’educatore, che deve essere disposto a donare se stesso. Per questo sono più che mai necessari autentici testimoni, e non meri dispensatori di regole e di informazioni; testimoni che sappiano vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbraccia spazi più ampi. Il testimone è colui che vive per primo il cammino che propone.

Quali sono i luoghi dove matura una vera educazione alla pace e alla giustizia? Anzitutto la famiglia, poiché i genitori sono i primi educatori. La famiglia è cellula originaria della società. « È nella famiglia che i figli apprendono i valori umani e cristiani che consentono una convivenza costruttiva e pacifica. È nella famiglia che essi imparano la solidarietà fra le generazioni, il rispetto delle regole, il perdono e l’accoglienza dell’altro ». Essa è la prima scuola dove si viene educati alla giustizia e alla pace.

Viviamo in un mondo in cui la famiglia, e anche la vita stessa, sono costantemente minacciate e, non di rado, frammentate. Condizioni di lavoro spesso poco armonizzabili con le responsabilità familiari, preoccupazioni per il futuro, ritmi di vita frenetici, migrazioni in cerca di un adeguato sostentamento, se non della semplice sopravvivenza, finiscono per rendere difficile la possibilità di assicurare ai figli uno dei beni più preziosi: la presenza dei genitori; presenza che permetta una sempre più profonda condivisione del cammino, per poter trasmettere quell’esperienza e quelle certezze acquisite con gli anni, che solo con il tempo trascorso insieme si possono comunicare. Ai genitori desidero dire di non perdersi d’animo! Con l’esempio della loro vita esortino i figli a porre la speranza anzitutto in Dio, da cui solo sorgono giustizia e pace autentiche.

Vorrei rivolgermi anche ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi: veglino con grande senso di responsabilità affinché la dignità di ogni persona sia rispettata e valorizzata in ogni circostanza. Abbiano cura che ogni giovane possa scoprire la propria vocazione, accompagnandolo nel far fruttificare i doni che il Signore gli ha accordato. Assicurino alle famiglie che i loro figli possano avere un cammino formativo non in contrasto con la loro coscienza e i loro principi religiosi.

Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna.

Mi rivolgo poi ai responsabili politici, chiedendo loro di aiutare concretamente le famiglie e le istituzioni educative ad esercitare il loro diritto-dovere di educare. Non deve mai mancare un adeguato supporto alla maternità e alla paternità. Facciano in modo che a nessuno sia negato l’accesso all’istruzione e che le famiglie possano scegliere liberamente le strutture educative ritenute più idonee per il bene dei propri figli. Si impegnino a favorire il ricongiungimento di quelle famiglie che sono divise dalla necessità di trovare mezzi di sussistenza. Offrano ai giovani un’immagine limpida della politica, come vero servizio per il bene di tutti.

Non posso, inoltre, non appellarmi al mondo dei media affinché dia il suo contributo educativo. Nell’odierna società, i mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo particolare: non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene infatti per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona.

Anche i giovani devono avere il coraggio di vivere prima di tutto essi stessi ciò che chiedono a coloro che li circondano. È una grande responsabilità quella che li riguarda: abbiano la forza di fare un uso buono e consapevole della libertà. Anch’essi sono responsabili della propria educazione e formazione alla giustizia e alla pace!

Educare alla verità e alla libertà

3. Sant’Agostino si domandava: « Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem? – Che cosa desidera l’uomo più fortemente della verità? ». Il volto umano di una società dipende molto dal contributo dell’educazione a mantenere viva tale insopprimibile domanda. L’educazione, infatti, riguarda la formazione integrale della persona, inclusa la dimensione morale e spirituale dell’essere, in vista del suo fine ultimo e del bene della società di cui è membro. Perciò, per educare alla verità occorre innanzitutto sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. Contemplando la realtà che lo circonda, il Salmista riflette: « Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? » (Sal 8,4-5). È questa la domanda fondamentale da porsi: chi è l’uomo? L’uomo è un essere che porta nel cuore una sete di infinito, una sete di verità – non parziale, ma capace di spiegare il senso della vita – perché è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Riconoscere allora con gratitudine la vita come dono inestimabile, conduce a scoprire la propria dignità profonda e l’inviolabilità di ogni persona. Perciò, la prima educazione consiste nell’imparare a riconoscere nell’uomo l’immagine del Creatore e, di conseguenza, ad avere un profondo rispetto per ogni essere umano e aiutare gli altri a realizzare una vita conforme a questa altissima dignità. Non bisogna dimenticare mai che « l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione », inclusa quella trascendente, e che non si può sacrificare la persona per raggiungere un bene particolare, sia esso economico o sociale, individuale o collettivo.

Solo nella relazione con Dio l’uomo comprende anche il significato della propria libertà. Ed è compito dell’educazione quello di formare all’autentica libertà. Questa non è l’assenza di vincoli o il dominio del libero arbitrio, non è l’assolutismo dell’io. L’uomo che crede di essere assoluto, di non dipendere da niente e da nessuno, di poter fare tutto ciò che vuole, finisce per contraddire la verità del proprio essere e per perdere la sua libertà. L’uomo, invece, è un essere relazionale, che vive in rapporto con gli altri e, soprattutto, con Dio. L’autentica libertà non può mai essere raggiunta nell’allontanamento da Lui.

La libertà è un valore prezioso, ma delicato; può essere fraintesa e usata male. « Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione, perché separa l’uno dall’altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio “io”. Dentro ad un tale orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza la luce della verità prima o poi ogni persona è infatti condannata a dubitare della bontà della stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune ».

Per esercitare la sua libertà, l’uomo deve dunque superare l’orizzonte relativistico e conoscere la verità su se stesso e la verità circa il bene e il male. Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, ad assumere la responsabilità del bene compiuto e del male commesso. Per questo, l’esercizio della libertà è intimamente connesso alla legge morale naturale, che ha carattere universale, esprime la dignità di ogni persona, pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali, e dunque, in ultima analisi, della convivenza giusta e pacifica fra le persone.

Il retto uso della libertà è dunque centrale nella promozione della giustizia e della pace, che richiedono il rispetto per se stessi e per l’altro, anche se lontano dal proprio modo di essere e di vivere. Da tale atteggiamento scaturiscono gli elementi senza i quali pace e giustizia rimangono parole prive di contenuto: la fiducia reciproca, la capacità di tessere un dialogo costruttivo, la possibilità del perdono, che tante volte si vorrebbe ottenere ma che si fa fatica a concedere, la carità reciproca, la compassione nei confronti dei più deboli, come pure la disponibilità al sacrificio.

Educare alla giustizia

4. Nel nostro mondo, in cui il valore della persona, della sua dignità e dei suoi diritti, al di là delle proclamazioni di intenti, è seriamente minacciato dalla diffusa tendenza a ricorrere esclusivamente ai criteri dell’utilità, del profitto e dell’avere, è importante non separare il concetto di giustizia dalle sue radici trascendenti. La giustizia, infatti, non è una semplice convenzione umana, poiché ciò che è giusto non è originariamente determinato dalla legge positiva, ma dall’identità profonda dell’essere umano. È la visione integrale dell’uomo che permette di non cadere in una concezione contrattualistica della giustizia e di aprire anche per essa l’orizzonte della solidarietà e dell’amore.

Non possiamo ignorare che certe correnti della cultura moderna, sostenute da principi economici razionalistici e individualisti, hanno alienato il concetto di giustizia dalle sue radici trascendenti, separandolo dalla carità e dalla solidarietà: « La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo ».

« Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati » (Mt 5,6). Saranno saziati perché hanno fame e sete di relazioni rette con Dio, con se stessi, con i loro fratelli e sorelle, e con l’intero creato.

Educare alla pace

5. « La pace non è la semplice assenza di guerra e non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della fratellanza ». La pace è frutto della giustizia ed effetto della carità. La pace è anzitutto dono di Dio. Noi cristiani crediamo che Cristo è la nostra vera pace: in Lui, nella sua Croce, Dio ha riconciliato a Sé il mondo e ha distrutto le barriere che ci separavano gli uni dagli altri (cfr Ef 2,14-18); in Lui c’è un’unica famiglia riconciliata nell’amore.

Ma la pace non è soltanto dono da ricevere, bensì anche opera da costruire. Per essere veramente operatori di pace, dobbiamo educarci alla compassione, alla solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità, essere attivi all’interno della comunità e vigili nel destare le coscienze sulle questioni nazionali ed internazionali e sull’importanza di ricercare adeguate modalità di ridistribuzione della ricchezza, di promozione della crescita, di cooperazione allo sviluppo e di risoluzione dei conflitti. « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio », dice Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,9).

La pace per tutti nasce dalla giustizia di ciascuno e nessuno può eludere questo impegno essenziale di promuovere la giustizia, secondo le proprie competenze e responsabilità. Invito in particolare i giovani, che hanno sempre viva la tensione verso gli ideali, ad avere la pazienza e la tenacia di ricercare la giustizia e la pace, di coltivare il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando ciò può comportare sacrificio e andare controcorrente.

Alzare gli occhi a Dio

6. Di fronte alla difficile sfida di percorrere le vie della giustizia e della pace possiamo essere tentati di chiederci, come il Salmista: « Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? » (Sal121,1).

A tutti, in particolare ai giovani, voglio dire con forza: « Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero… il volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore? ». L’amore si compiace della verità, è la forza che rende capaci di impegnarsi per la verità, per la giustizia, per la pace, perché tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (cfr 1 Cor 13,1-13).

Cari giovani, voi siete un dono prezioso per la società. Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento di fronte alle difficoltà e non abbandonatevi a false soluzioni, che spesso si presentano come la via più facile per superare i problemi. Non abbiate paura di impegnarvi, di affrontare la fatica e il sacrificio, di scegliere le vie che richiedono fedeltà e costanza, umiltà e dedizione. Vivete con fiducia la vostra giovinezza e quei profondi desideri che provate di felicità, di verità, di bellezza e di amore vero! Vivete intensamente questa stagione della vita così ricca e piena di entusiasmo.

Siate coscienti di essere voi stessi di esempio e di stimolo per gli adulti, e lo sarete quanto più vi sforzate di superare le ingiustizie e la corruzione, quanto più desiderate un futuro migliore e vi impegnate a costruirlo. Siate consapevoli delle vostre potenzialità e non chiudetevi mai in voi stessi, ma sappiate lavorare per un futuro più luminoso per tutti. Non siete mai soli. La Chiesa ha fiducia in voi, vi segue, vi incoraggia e desidera offrirvi quanto ha di più prezioso: la possibilità di alzare gli occhi a Dio, di incontrare Gesù Cristo, Colui che è la giustizia e la pace.

A voi tutti, uomini e donne che avete a cuore la causa della pace! La pace non è un bene già raggiunto, ma una meta a cui tutti e ciascuno dobbiamo aspirare. Guardiamo con maggiore speranza al futuro, incoraggiamoci a vicenda nel nostro cammino, lavoriamo per dare al nostro mondo un volto più umano e fraterno, e sentiamoci uniti nella responsabilità verso le giovani generazioni presenti e future, in particolare nell’educarle ad essere pacifiche e artefici di pace. È sulla base di tale consapevolezza che vi invio queste riflessioni e vi rivolgo il mio appello: uniamo le nostre forze, spirituali, morali e materiali, per « educare i giovani alla giustizia e alla pace ».

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2011

 

MESSAGGIO DI
BENEDETTO XVI
PER LA XLVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

1 gennaio 2013

 

 

1. Ogni anno nuovo porta con sé l’attesa di un mondo migliore. In tale prospettiva, prego Dio, Padre dell’umanità, di concederci la concordia e la pace, perché possano compiersi per tutti le aspirazioni di una vita felice e prospera.

A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, che ha consentito di rafforzare la missione della Chiesa nel mondo, rincuora constatare che i cristiani, quale Popolo di Dio in comunione con Lui e in cammino tra gli uomini, si impegnano nella storia condividendo gioie e speranze, tristezze ed angosce, annunciando la salvezza di Cristo e promuovendo la pace per tutti.

In effetti, i nostri tempi, contrassegnati dalla globalizzazione, con i suoi aspetti positivi e negativi, nonché da sanguinosi conflitti ancora in atto e da minacce di guerra, reclamano un rinnovato e corale impegno nella ricerca del bene comune, dello sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo.

Allarmano i focolai di tensione e di contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere di una mentalità egoistica e individualista espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato. Oltre a svariate forme di terrorismo e di criminalità internazionale, sono pericolosi per la pace quei fondamentalismi e quei fanatismi che stravolgono la vera natura della religione, chiamata a favorire la comunione e la riconciliazione tra gli uomini.

E tuttavia, le molteplici opere di pace, di cui è ricco il mondo, testimoniano l’innata vocazione dell’umanità alla pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben realizzata. In altri termini, il desiderio di pace corrisponde ad un principio morale fondamentale, ossia, al dovere-diritto di uno sviluppo integrale, sociale, comunitario, e ciò fa parte del disegno di Dio sull’uomo. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio.

Tutto ciò mi ha suggerito di ispirarmi per questo Messaggio alle parole di Gesù Cristo: « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5,9).

La beatitudine evangelica

2. Le beatitudini, proclamate da Gesù (cfr Mt 5,3-12 e Lc 6,20-23), sono promesse. Nella tradizione biblica, infatti, quello della beatitudine è un genere letterario che porta sempre con sé una buona notizia, ossia un vangelo, che culmina in una promessa. Quindi, le beatitudini non sono solo raccomandazioni morali, la cui osservanza prevede a tempo debito – tempo situato di solito nell’altra vita – una ricompensa, ossia una situazione di futura felicità. La beatitudine consiste, piuttosto, nell’adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore. Coloro che si affidano a Dio e alle sue promesse appaiono spesso agli occhi del mondo ingenui o lontani dalla realtà. Ebbene, Gesù dichiara ad essi che non solo nell’altra vita, ma già in questa scopriranno di essere figli di Dio, e che da sempre e per sempre Dio è del tutto solidale con loro. Comprenderanno che non sono soli, perché Egli è dalla parte di coloro che s’impegnano per la verità, la giustizia e l’amore. Gesù, rivelazione dell’amore del Padre, non esita ad offrirsi nel sacrificio di se stesso. Quando si accoglie Gesù Cristo, Uomo-Dio, si vive l’esperienza gioiosa di un dono immenso: la condivisione della vita stessa di Dio, cioè la vita della grazia, pegno di un’esistenza pienamente beata. Gesù Cristo, in particolare, ci dona la pace vera che nasce dall’incontro fiducioso dell’uomo con Dio.

La beatitudine di Gesù dice che la pace è dono messianico e opera umana ad un tempo. In effetti, la pace presuppone un umanesimo aperto alla trascendenza. È frutto del dono reciproco, di un mutuo arricchimento, grazie al dono che scaturisce da Dio e permette di vivere con gli altri e per gli altri. L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. È indispensabile, allora, che le varie culture odierne superino antropologie ed etiche basate su assunti teorico-pratici meramente soggettivistici e pragmatici, in forza dei quali i rapporti della convivenza vengono ispirati a criteri di potere o di profitto, i mezzi diventano fini e viceversa, la cultura e l’educazione sono centrate soltanto sugli strumenti, sulla tecnica e sull’efficienza. Precondizione della pace è lo smantellamento della dittatura del relativismo e dell’assunto di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo. La pace è costruzione della convivenza in termini razionali e morali, poggiando su un fondamento la cui misura non è creata dall’uomo, bensì da Dio. « Il Signore darà potenza al suo popolo, benedirà il suo popolo con la pace », ricorda il Salmo 29 (v. 11).

La pace: dono di Dio e opera dell’uomo

3. La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo. È pace con Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore con il prossimo e con tutto il creato. Comporta principalmente, come scrisse il beato Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris, di cui tra pochi mesi ricorrerà il cinquantesimo anniversario, la costruzione di una convivenza fondata sulla verità, sulla libertà, sull’amore e sulla giustizia. La negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace. Senza la verità sull’uomo, iscritta dal Creatore nel suo cuore, la libertà e l’amore sviliscono, la giustizia perde il fondamento del suo esercizio.

Per diventare autentici operatori di pace sono fondamentali l’attenzione alla dimensione trascendente e il colloquio costante con Dio, Padre misericordioso, mediante il quale si implora la redenzione conquistataci dal suo Figlio Unigenito. Così l’uomo può vincere quel germe di oscuramento e di negazione della pace che è il peccato in tutte le sue forme: egoismo e violenza, avidità e volontà di potenza e di dominio, intolleranza, odio e strutture ingiuste.

La realizzazione della pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere, in Dio, un’unica famiglia umana. Essa si struttura, come ha insegnato l’Enciclica Pacem in terris, mediante relazioni interpersonali ed istituzioni sorrette ed animate da un « noi » comunitario, implicante un ordine morale, interno ed esterno, ove si riconoscono sinceramente, secondo verità e giustizia, i reciproci diritti e i vicendevoli doveri. La pace è ordine vivificato ed integrato dall’amore, così da sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, fare partecipi gli altri dei propri beni e rendere sempre più diffusa nel mondo la comunione dei valori spirituali. È ordine realizzato nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di persone, che per la loro stessa natura razionale, assumono la responsabilità del proprio operare.

La pace non è un sogno, non è un’utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo. Infatti, Dio stesso, mediante l’incarnazione del Figlio e la redenzione da Lui operata, è entrato nella storia facendo sorgere una nuova creazione e una nuova alleanza tra Dio e l’uomo (cfr Ger 31,31-34), dandoci la possibilità di avere « un cuore nuovo » e « uno spirito nuovo » (cfr Ez 36,26).

Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani.

Da questo insegnamento si può evincere che ogni persona e ogni comunità – religiosa, civile, educativa e culturale –, è chiamata ad operare la pace. La pace è principalmente realizzazione del bene comune delle varie società, primarie ed intermedie, nazionali, internazionali e in quella mondiale. Proprio per questo si può ritenere che le vie di attuazione del bene comune siano anche le vie da percorrere per ottenere la pace.

Operatori di pace sono coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua integralità

4. Via di realizzazione del bene comune e della pace è anzitutto il rispetto per la vita umana, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti, a cominciare dal suo concepimento, nel suo svilupparsi, e sino alla sua fine naturale. Veri operatori di pace sono, allora, coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente. La vita in pienezza è il vertice della pace. Chi vuole la pace non può tollerare attentati e delitti contro la vita.

Coloro che non apprezzano a sufficienza il valore della vita umana e, per conseguenza, sostengono per esempio la liberalizzazione dell’aborto, forse non si rendono conto che in tal modo propongono l’inseguimento di una pace illusoria. La fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace. Come si può, infatti, pensare di realizzare la pace, lo sviluppo integrale dei popoli o la stessa salvaguardia dell’ambiente, senza che sia tutelato il diritto alla vita dei più deboli, a cominciare dai nascituri? Ogni lesione alla vita, specie nella sua origine, provoca inevitabilmente danni irreparabili allo sviluppo, alla pace, all’ambiente. Nemmeno è giusto codificare in maniera subdola falsi diritti o arbitrii, che, basati su una visione riduttiva e relativistica dell’essere umano e sull’abile utilizzo di espressioni ambigue, volte a favorire un preteso diritto all’aborto e all’eutanasia, minacciano il diritto fondamentale alla vita.

Anche la struttura naturale del matrimonio va riconosciuta e promossa, quale unione fra un uomo e una donna, rispetto ai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale.

Questi principi non sono verità di fede, né sono solo una derivazione del diritto alla libertà religiosa. Essi sono inscritti nella natura umana stessa, riconoscibili con la ragione, e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa. Tale azione è tanto più necessaria quanto più questi principi vengono negati o mal compresi, perché ciò costituisce un’offesa contro la verità della persona umana, una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace.

Perciò, è anche un’importante cooperazione alla pace che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio dell’obiezione di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia.

Tra i diritti umani basilari, anche per la vita pacifica dei popoli, vi è quello dei singoli e delle comunità alla libertà religiosa. In questo momento storico, diventa sempre più importante che tale diritto sia promosso non solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà di: ad esempio, di testimoniare la propria religione, di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi; di esistere e agire come organismi sociali, strutturati secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che sono loro propri. Purtroppo, anche in Paesi di antica tradizione cristiana si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa, specie nei confronti del cristianesimo e di coloro che semplicemente indossano i segni identitari della propria religione.

L’operatore di pace deve anche tener presente che, presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali. Ora, va considerato che questi diritti e doveri sono fondamentali per la piena realizzazione di altri, a cominciare da quelli civili e politici.

Tra i diritti e i doveri sociali oggi maggiormente minacciati vi è il diritto al lavoro. Ciò è dovuto al fatto che sempre più il lavoro e il giusto riconoscimento dello statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari. A tale proposito, ribadisco che la dignità dell’uomo, nonché le ragioni economiche, sociali e politiche, esigono che si continui « a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti ». In vista della realizzazione di questo ambizioso obiettivo è precondizione una rinnovata considerazione del lavoro, basata su principi etici e valori spirituali, che ne irrobustisca la concezione come bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società. A un tale bene corrispondono un dovere e un diritto che esigono coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti.

Costruire il bene della pace mediante un nuovo modello di sviluppo e di economia

5. Da più parti viene riconosciuto che oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo, come anche un nuovo sguardo sull’economia. Sia uno sviluppo integrale, solidale e sostenibile, sia il bene comune esigono una corretta scala di beni-valori, che è possibile strutturare avendo Dio come riferimento ultimo. Non è sufficiente avere a disposizione molti mezzi e molte opportunità di scelta, pur apprezzabili. Tanto i molteplici beni funzionali allo sviluppo, quanto le opportunità di scelta devono essere usati secondo la prospettiva di una vita buona, di una condotta retta che riconosca il primato della dimensione spirituale e l’appello alla realizzazione del bene comune. In caso contrario, essi perdono la loro giusta valenza, finendo per assurgere a nuovi idoli.

Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono. Concretamente, nell’attività economica l’operatore di pace si configura come colui che instaura con i collaboratori e i colleghi, con i committenti e gli utenti, rapporti di lealtà e di reciprocità. Egli esercita l’attività economica per il bene comune, vive il suo impegno come qualcosa che va al di là del proprio interesse, a beneficio delle generazioni presenti e future. Si trova così a lavorare non solo per sé, ma anche per dare agli altri un futuro e un lavoro dignitoso.

Nell’ambito economico, sono richieste, specialmente da parte degli Stati, politiche di sviluppo industriale ed agricolo che abbiano cura del progresso sociale e dell’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico. È poi fondamentale ed imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri. La sollecitudine dei molteplici operatori di pace deve inoltre volgersi – con maggior risolutezza rispetto a quanto si è fatto sino ad oggi – a considerare la crisi alimentare, ben più grave di quella finanziaria. Il tema della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari è tornato ad essere centrale nell’agenda politica internazionale, a causa di crisi connesse, tra l’altro, alle oscillazioni repentine dei prezzi delle materie prime agricole, a comportamenti irresponsabili da parte di taluni operatori economici e a un insufficiente controllo da parte dei Governi e della Comunità internazionale. Per fronteggiare tale crisi, gli operatori di pace sono chiamati a operare insieme in spirito di solidarietà, dal livello locale a quello internazionale, con l’obiettivo di mettere gli agricoltori, in particolare nelle piccole realtà rurali, in condizione di poter svolgere la loro attività in modo dignitoso e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico.

Educazione per una cultura di pace: il ruolo della famiglia e delle istituzioni

6. Desidero ribadire con forza che i molteplici operatori di pace sono chiamati a coltivare la passione per il bene comune della famiglia e per la giustizia sociale, nonché l’impegno di una valida educazione sociale.

Nessuno può ignorare o sottovalutare il ruolo decisivo della famiglia, cellula base della società dal punto di vista demografico, etico, pedagogico, economico e politico. Essa ha una naturale vocazione a promuovere la vita: accompagna le persone nella loro crescita e le sollecita al mutuo potenziamento mediante la cura vicendevole. In specie, la famiglia cristiana reca in sé il germinale progetto dell’educazione delle persone secondo la misura dell’amore divino. La famiglia è uno dei soggetti sociali indispensabili nella realizzazione di una cultura della pace. Bisogna tutelare il diritto dei genitori e il loro ruolo primario nell’educazione dei figli, in primo luogo nell’ambito morale e religioso. Nella famiglia nascono e crescono gli operatori di pace, i futuri promotori di una cultura della vita e dell’amore.

In questo immenso compito di educazione alla pace sono coinvolte in particolare le comunità religiose. La Chiesa si sente partecipe di una così grande responsabilità attraverso la nuova evangelizzazione, che ha come suoi cardini la conversione alla verità e all’amore di Cristo e, di conseguenza, la rinascita spirituale e morale delle persone e delle società. L’incontro con Gesù Cristo plasma gli operatori di pace impegnandoli alla comunione e al superamento dell’ingiustizia.

Una missione speciale nei confronti della pace è ricoperta dalle istituzioni culturali, scolastiche ed universitarie. Da queste è richiesto un notevole contributo non solo alla formazione di nuove generazioni di leader, ma anche al rinnovamento delle istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali. Esse possono anche contribuire ad una riflessione scientifica che radichi le attività economiche e finanziarie in un solido fondamento antropologico ed etico. Il mondo attuale, in particolare quello politico, necessita del supporto di un nuovo pensiero, di una nuova sintesi culturale, per superare tecnicismi ed armonizzare le molteplici tendenze politiche in vista del bene comune. Esso, considerato come insieme di relazioni interpersonali ed istituzionali positive, a servizio della crescita integrale degli individui e dei gruppi, è alla base di ogni vera educazione alla pace.

Una pedagogia dell’operatore di pace

7. Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. Essa richiede una ricca vita interiore, chiari e validi riferimenti morali, atteggiamenti e stili di vita appropriati. Difatti, le opere di pace concorrono a realizzare il bene comune e creano l’interesse per la pace, educando ad essa. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura della pace, un’atmosfera di rispetto, di onestà e di cordialità. Bisogna, allora, insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vivere con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Incoraggiamento fondamentale è quello di « dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare », in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. Il male, infatti, si vince col bene, e la giustizia va ricercata imitando Dio Padre che ama tutti i suoi figli (cfr Mt 5,21-48). È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza.

Gesù incarna l’insieme di questi atteggiamenti nella sua esistenza, fino al dono totale di sé, fino a « perdere la vita » (cfr Mt 10,39; Lc 17,33; Gv 12,25). Egli promette ai suoi discepoli che, prima o poi, faranno la straordinaria scoperta di cui abbiamo parlato inizialmente, e cioè che nel mondo c’è Dio, il Dio di Gesù, pienamente solidale con gli uomini. In questo contesto, vorrei ricordare la preghiera con cui si chiede a Dio di renderci strumenti della sua pace, per portare il suo amore ove è odio, il suo perdono ove è offesa, la vera fede ove è dubbio. Da parte nostra, insieme al beato Giovanni XXIII, chiediamo a Dio che illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alla sollecitudine per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il prezioso dono della pace; accenda le volontà di tutti a superare le barriere che dividono, a rafforzare i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri e a perdonare coloro che hanno recato ingiurie, così che in virtù della sua azione, tutti i popoli della terra si affratellino e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace.

Con questa invocazione, auspico che tutti possano essere veri operatori e costruttori di pace, in modo che la città dell’uomo cresca in fraterna concordia, nella prosperità e nella pace.

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2012

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA XLVII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

FRATERNITÀ, FONDAMENTO E VIA PER LA PACE

1 gennaio 2014

 

1. In questo mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, desidero rivolgere a tutti, singoli e popoli, l’augurio di un’esistenza colma di gioia e di speranza. Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna alberga, infatti, il desiderio di una vita piena, alla quale appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare.

Infatti, la fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La famiglia è la sorgente di ogni fraternità, e perciò è anche il fondamento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore.

Il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri. Tale vocazione è però ancor oggi spesso contrastata e smentita nei fatti, in un mondo caratterizzato da quella “globalizzazione dell’indifferenza” che ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, chiudendoci in noi stessi.

In tante parti del mondo, sembra non conoscere sosta la grave lesione dei diritti umani fondamentali, soprattutto del diritto alla vita e di quello alla libertà di religione. Il tragico fenomeno del traffico degli esseri umani, sulla cui vita e disperazione speculano persone senza scrupoli, ne rappresenta un inquietante esempio. Alle guerre fatte di scontri armati si aggiungono guerre meno visibili, ma non meno crudeli, che si combattono in campo economico e finanziario con mezzi altrettanto distruttivi di vite, di famiglie, di imprese.

La globalizzazione, come ha affermato Benedetto XVI, ci rende vicini, ma non ci rende fratelli.[1] Inoltre, le molte situazioni di sperequazione, di povertà e di ingiustizia, segnalano non solo una profonda carenza di fraternità, ma anche l’assenza di una cultura della solidarietà. Le nuove ideologie, caratterizzate da diffuso individualismo, egocentrismo e consumismo materialistico, indeboliscono i legami sociali, alimentando quella mentalità dello “scarto”, che induce al disprezzo e all’abbandono dei più deboli, di coloro che vengono considerati “inutili”. Così la convivenza umana diventa sempre più simile a un mero do ut des pragmatico ed egoista.

In pari tempo appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere.[2] Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi “prossimo” che si prende cura dell’altro.

«Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9)

2. Per comprendere meglio questa vocazione dell’uomo alla fraternità, per riconoscere più adeguatamente gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione e individuare le vie per il loro superamento, è fondamentale farsi guidare dalla conoscenza del disegno di Dio, quale è presentato in maniera eminente nella Sacra Scrittura.

Secondo il racconto delle origini, tutti gli uomini derivano da genitori comuni, da Adamo ed Eva, coppia creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26), da cui nascono Caino e Abele. Nella vicenda della famiglia primigenia leggiamo la genesi della società, l’evoluzione delle relazioni tra le persone e i popoli.

Abele è pastore, Caino è contadino. La loro identità profonda e, insieme, la loro vocazione, è quella di essere fratelli, pur nella diversità della loro attività e cultura, del loro modo di rapportarsi con Dio e con il creato. Ma l’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro. Caino, non accettando la predilezione di Dio per Abele, che gli offriva il meglio del suo gregge – «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5) – uccide per invidia Abele. In questo modo rifiuta di riconoscersi fratello, di relazionarsi positivamente con lui, di vivere davanti a Dio, assumendo le proprie responsabilità di cura e di protezione dell’altro. Alla domanda «Dov’è tuo fratello?», con la quale Dio interpella Caino, chiedendogli conto del suo operato, egli risponde: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9). Poi, ci dice la Genesi, «Caino si allontanò dal Signore» (4,16).

Occorre interrogarsi sui motivi profondi che hanno indotto Caino a misconoscere il vincolo di fraternità e, assieme, il vincolo di reciprocità e di comunione che lo legava a suo fratello Abele. Dio stesso denuncia e rimprovera a Caino una contiguità con il male: «il peccato è accovacciato alla tua porta» (Gen 4,7). Caino, tuttavia, si rifiuta di opporsi al male e decide di alzare ugualmente la sua «mano contro il fratello Abele» (Gen 4,8), disprezzando il progetto di Dio. Egli frustra così la sua originaria vocazione ad essere figlio di Dio e a vivere la fraternità.

Il racconto di Caino e Abele insegna che l’umanità porta inscritta in sé una vocazione alla fraternità, ma anche la possibilità drammatica del suo tradimento. Lo testimonia l’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono.

«E voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8)

3. Sorge spontanea la domanda: gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle?

Parafrasando le sue parole, potremmo così sintetizzare la risposta che ci dà il Signore Gesù: poiché vi è un solo Padre, che è Dio, voi siete tutti fratelli (cfr Mt 23,8-9). La radice della fraternità è contenuta nella paternità di Dio. Non si tratta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’amore personale, puntuale e straordinariamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr Mt 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quando è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uomini alla solidarietà e alla condivisione operosa.

In particolare, la fraternità umana è rigenerata in e da Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione. La croce è il “luogo” definitivo di fondazione della fraternità, che gli uomini non sono in grado di generare da soli. Gesù Cristo, che ha assunto la natura umana per redimerla, amando il Padre fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8), mediante la sua risurrezione ci costituisce come umanità nuova, in piena comunione con la volontà di Dio, con il suo progetto, che comprende la piena realizzazione della vocazione alla fraternità.

Gesù riprende dal principio il progetto del Padre, riconoscendogli il primato su ogni cosa. Ma il Cristo, con il suo abbandono alla morte per amore del Padre, diventa principio nuovo e definitivo di tutti noi, chiamati a riconoscerci in Lui come fratelli perché figli dello stesso Padre. Egli è l’Alleanza stessa, lo spazio personale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra loro. Nella morte in croce di Gesù c’è anche il superamento della separazione tra popoli, tra il popolo dell’Alleanza e il popolo dei Gentili, privo di speranza perché fino a quel momento rimasto estraneo ai patti della Promessa. Come si legge nella Lettera agli Efesini, Gesù Cristo è colui che in sé riconcilia tutti gli uomini. Egli è la pace, poiché dei due popoli ne ha fatto uno solo, abbattendo il muro di separazione che li divideva, ovvero l’inimicizia. Egli ha creato in se stesso un solo popolo, un solo uomo nuovo, una sola nuova umanità (cfr 2,14-16).

Chi accetta la vita di Cristo e vive in Lui, riconosce Dio come Padre e a Lui dona totalmente se stesso, amandolo sopra ogni cosa. L’uomo riconciliato vede in Dio il Padre di tutti e, per conseguenza, è sollecitato a vivere una fraternità aperta a tutti. In Cristo, l’altro è accolto e amato come figlio o figlia di Dio, come fratello o sorella, non come un estraneo, tantomeno come un antagonista o addirittura un nemico. Nella famiglia di Dio, dove tutti sono figli di uno stesso Padre, e perché innestati in Cristo, figli nel Figlio, non vi sono “vite di scarto”. Tutti godono di un’eguale ed intangibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Cristo, morto in croce e risorto per ognuno. È  questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti alla sorte dei fratelli.

La fraternità, fondamento e via per la pace

4. Ciò premesso, è facile comprendere che la fraternità è fondamento e via per la pace. Le Encicliche sociali dei miei Predecessori offrono un valido aiuto in tal senso. Sarebbe sufficiente rifarsi alle definizioni di pace della Populorum progressio di Paolo VI o della Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Dalla prima ricaviamo che lo sviluppo integrale dei popoli è il nuovo nome della pace.[3] Dalla seconda, che la pace è opus solidaritatis.[4]

Paolo VI afferma che non soltanto le persone, ma anche le Nazioni debbono incontrarsi in uno spirito di fraternità. E spiega: «In questa comprensione e amicizia vicendevoli, in questa comunione sacra noi dobbiamo […] lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità».[5] Questo dovere riguarda in primo luogo i più favoriti. I loro obblighi sono radicati nella fraternità umana e soprannaturale e si presentano sotto un triplice aspetto: il dovere di solidarietà, che esige che le Nazioni ricche aiutino quelle meno progredite; il dovere di giustizia sociale, che richiede il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni difettose tra popoli forti e popoli deboli; il dovere di carità universale, che implica la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri.[6]

Così, se si considera la pace come opus solidaritatis, allo stesso modo, non si può pensare che la fraternità non ne sia il fondamento precipuo. La pace, afferma Giovanni Paolo II, è un bene indivisibile. O è bene di tutti o non lo è di nessuno. Essa può essere realmente conquistata e fruita, come miglior qualità della vita e come sviluppo più umano e sostenibile, solo se si attiva, da parte di tutti, «una determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune»[7]. Ciò implica di non farsi guidare dalla «brama del profitto» e dalla «sete del potere». Occorre avere la disponibilità a «“perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto. […] L’“altro” – persona, popolo o Nazione – [non va visto] come uno strumento qualsiasi, per sfruttare a basso costo la sua capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più, ma come un nostro “simile”, un “aiuto”».[8]

La solidarietà cristiana presuppone che il prossimo sia amato non solo come «un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma [come] viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo»[9], come un altro fratello. «Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fraternità di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà – rammenta Giovanni Paolo II – al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo»,[10] per trasformarlo.

Fraternità, premessa per sconfiggere la povertà

5. Nella Caritas in veritate il mio Predecessore ricordava al mondo come la mancanza di fraternità tra i popoli e gli uomini sia una causa importante della povertà.[11] In molte società sperimentiamo una profonda povertà relazionaledovuta alla carenza di solide relazioni familiari e comunitarie. Assistiamo con preoccupazione alla crescita di diversi tipi di disagio, di emarginazione, di solitudine e di varie forme di dipendenza patologica. Una simile povertà può essere superata solo attraverso la riscoperta e la valorizzazione di rapporti fraterni in seno alle famiglie e alle comunità, attraverso la condivisione delle gioie e dei dolori, delle difficoltà e dei successi che accompagnano la vita delle persone.

Inoltre, se da un lato si riscontra una riduzione della povertà assoluta, dall’altro lato non possiamo non riconoscere una grave crescita della povertà relativa, cioè di diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storico-culturale. In tal senso, servono anche politiche efficaci che promuovano il principio della fraternità, assicurando alle persone - eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali - di accedere ai “capitali”, ai servizi, alle risorse educative, sanitarie, tecnologiche affinché ciascuno abbia l’opportunità di esprimere e di realizzare il suo progetto di vita, e possa svilupparsi in pienezza come persona.

Si ravvisa anche la necessità di politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito. Non dobbiamo dimenticare l’insegnamento della Chiesa sulla cosiddetta ipoteca sociale, in base alla quale se è lecito, come dice san Tommaso d’Aquino, anzi necessario «che l’uomo abbia la proprietà dei beni»[12], quanto all’uso, li «possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri»[13].

Infine, vi è un ulteriore modo di promuovere la fraternità - e così sconfiggere la povertà - che dev’essere alla base di tutti gli altri. È il distacco di chi sceglie di vivere stili di vita sobri ed essenziali, di chi, condividendo le proprie ricchezze, riesce così a sperimentare la comunione fraterna con gli altri. Ciò è fondamentale per seguire Gesù Cristo ed essere veramente cristiani. È il caso non solo delle persone consacrate che professano voto di povertà, ma anche di tante famiglie e tanti cittadini responsabili, che credono fermamente che sia la relazione fraterna con il prossimo a costituire il bene più prezioso.

La riscoperta della fraternità nell’economia

6. Le gravi crisi finanziarie ed economiche contemporanee - che trovano la loro origine nel progressivo allontanamento dell’uomo da Dio e dal prossimo, nella ricerca avida di beni materiali, da un lato, e nel depauperamento delle relazioni interpersonali e comunitarie dall’altro - hanno spinto molti a ricercare la soddisfazione, la felicità e la sicurezza nel consumo e nel guadagno oltre ogni logica di una sana economia. Già nel 1979 Giovanni Paolo II avvertiva l’esistenza di «un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale».[14]

Il succedersi delle crisi economiche deve portare agli opportuni ripensamenti dei modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita. La crisi odierna, pur con il suo grave retaggio per la vita delle persone, può essere anche un’occasione propizia per recuperare le virtù della prudenza, della temperanza, della giustizia e della fortezza. Esse ci possono aiutare a superare i momenti difficili e a riscoprire i vincoli fraterni che ci legano gli uni agli altri, nella fiducia profonda che l’uomo ha bisogno ed è capace di qualcosa in più rispetto alla massimizzazione del proprio interesse individuale. Soprattutto tali virtù sono necessarie per costruire e mantenere una società a misura della dignità umana.

La fraternità spegne  la guerra

7. Nell’anno trascorso, molti nostri fratelli e sorelle hanno continuato a vivere l’esperienza dilaniante della guerra, che costituisce una grave e profonda ferita inferta alla fraternità.

Molti sono i conflitti che si consumano nell’indifferenza generale. A tutti coloro che vivono in terre in cui le armi impongono terrore e distruzioni, assicuro la mia personale vicinanza e quella di tutta la Chiesa. Quest’ultima ha per missione di portare la carità di Cristo anche alle vittime inermi delle guerre dimenticate, attraverso la preghiera per la pace, il servizio ai feriti, agli affamati, ai rifugiati, agli sfollati e a quanti vivono nella paura. La Chiesa alza altresì la sua voce per far giungere ai responsabili il grido di dolore di quest’umanità sofferente e per far cessare, insieme alle ostilità, ogni sopruso e violazione dei diritti fondamentali dell’uomo[15].

Per questo motivo desidero rivolgere un forte appello a quanti con le armi seminano violenza e morte: riscoprite in colui che oggi considerate solo un nemico da abbattere il vostro fratello e fermate la vostra mano! Rinunciate alla via delle armi e andate incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione per ricostruire la giustizia, la fiducia e la speranza intorno a voi! «In quest’ottica, appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti armati costituiscono sempre la deliberata negazione di ogni possibile concordia internazionale, creando divisioni profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per rimarginarsi. Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data»[16].

Tuttavia, finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità. Per questo faccio mio l’appello dei miei Predecessori in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico.

Non possiamo però non constatare che gli accordi internazionali e le leggi nazionali, pur essendo necessari ed altamente auspicabili, non sono sufficienti da soli a porre l’umanità al riparo dal rischio dei conflitti armati. È necessaria una conversione dei cuori che permetta a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello di cui prendersi cura, con il quale lavorare insieme per costruire una vita in pienezza per tutti. È questo lo spirito che anima molte delle iniziative della società civile, incluse le organizzazioni religiose, in favore della pace. Mi auguro che l’impegno quotidiano di tutti continui a portare frutto e che si possa anche giungere all’effettiva applicazione nel diritto internazionale del diritto alla pace, quale diritto umano fondamentale, pre-condizione necessaria per l’esercizio di tutti gli altri diritti.

La corruzione e il crimine organizzato avversano la fraternità

8. L’orizzonte della fraternità rimanda alla crescita in pienezza di ogni uomo e donna. Le giuste ambizioni di una persona, soprattutto se giovane, non vanno frustrate e offese, non va rubata la speranza di poterle realizzare. Tuttavia, l’ambizione non va confusa con la prevaricazione. Al contrario, occorre gareggiare nello stimarsi a vicenda (cfrRm 12,10). Anche nelle dispute, che costituiscono un aspetto ineliminabile della vita, bisogna sempre ricordarsi di essere fratelli e perciò educare ed educarsi a non considerare il prossimo come un nemico o come un avversario da eliminare.

La fraternità genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune. Una comunità politica deve, allora, agire in modo trasparente e responsabile per favorire tutto ciò. I cittadini devono sentirsi rappresentati dai poteri pubblici nel rispetto della loro libertà. Invece, spesso, tra cittadino e istituzioni, si incuneano interessi di parte che deformano una tale relazione, propiziando la creazione di un clima perenne di conflitto.

Un autentico spirito di fraternità vince l’egoismo individuale che contrasta la possibilità delle persone di vivere in libertà e in armonia tra di loro. Tale egoismo si sviluppa socialmente sia nelle molte forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse, sia nella formazione delle organizzazioni criminali, dai piccoli gruppi a quelli organizzati su scala globale, che, logorando in profondità la legalità e la giustizia, colpiscono al cuore la dignità della persona. Queste organizzazioni offendono gravemente Dio, nuocciono ai fratelli e danneggiano il creato, tanto più quando hanno connotazioni religiose.

Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili; alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità. Scrisse al riguardo Giovanni XXIII: «Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse»[17]. L’uomo, però, si può convertire e non bisogna mai disperare della possibilità di cambiare vita. Desidererei che questo fosse un messaggio di fiducia per tutti, anche per coloro che hanno commesso crimini efferati, poiché Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23).

Nel contesto ampio della socialità umana, guardando al delitto e alla pena, viene anche da pensare alle condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo, soffocato anche in ogni volontà ed espressione di riscatto. La Chiesa fa molto in tutti questi ambiti, il più delle volte nel silenzio. Esorto ed incoraggio a fare sempre di più, nella speranza che tali azioni messe in campo da tanti uomini e donne coraggiosi possano essere sempre più sostenute lealmente e onestamente anche dai poteri civili.

La fraternità aiuta a custodire e a coltivare la natura

9. La famiglia umana ha ricevuto dal Creatore un dono in comune: la natura. La visione cristiana della creazione comporta un giudizio positivo sulla liceità degli interventi sulla natura per trarne beneficio, a patto di agire responsabilmente, cioè riconoscendone quella “grammatica” che è in essa inscritta ed usando saggiamente le risorse a vantaggio di tutti, rispettando la bellezza, la finalità e l’utilità dei singoli esseri viventi e la loro funzione nell’ecosistema. Insomma, la natura è a nostra disposizione, e noi siamo chiamati ad amministrarla responsabilmente. Invece, siamo spesso guidati dall’avidità, dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non custodiamo la natura, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura e da mettere a servizio dei fratelli, comprese le generazioni future.

In particolare, il settore agricolo è il settore produttivo primario con la vitale vocazione di coltivare e custodire le risorse naturali per nutrire l’umanità. A tale riguardo, la persistente vergogna della fame nel mondo mi incita a condividere con voi la domanda: in che modo usiamo le risorse della terra? Le società odierne devono riflettere sulla gerarchia delle priorità a cui si destina la produzione. Difatti, è un dovere cogente che si utilizzino le risorse della terra in modo che tutti siano liberi dalla fame. Le iniziative e le soluzioni possibili sono tante e non si limitano all’aumento della produzione. E’ risaputo che quella attuale è sufficiente, eppure ci sono milioni di persone che soffrono e muoiono di fame e ciò costituisce un vero scandalo. È necessario allora trovare i modi affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra, non soltanto per evitare che si allarghi il divario tra chi più ha e chi deve accontentarsi delle briciole, ma anche e soprattutto per un’esigenza di giustizia e di equità e di rispetto verso ogni essere umano. In tal senso, vorrei richiamare a tutti quella necessaria destinazione universale dei beni che è uno dei principi-cardine della dottrina sociale della Chiesa. Rispettare tale principio è la condizione essenziale per consentire un fattivo ed equo accesso a quei beni essenziali e primari di cui ogni uomo ha bisogno e diritto.

Conclusione

10. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata. Ma è solo l’amore donato da Dio che ci consente di accogliere e di vivere pienamente la fraternità.

Il necessario realismo della politica e dell’economia non può ridursi ad un tecnicismo privo di idealità, che ignora la dimensione trascendente dell’uomo. Quando manca questa apertura a Dio, ogni attività umana diventa più povera e le persone vengono ridotte a oggetti da sfruttare. Solo se accettano di muoversi nell’ampio spazio assicurato da questa apertura a Colui che ama ogni uomo e ogni donna, la politica e l’economia riusciranno a strutturarsi sulla base di un autentico spirito di carità fraterna e potranno essere strumento efficace di sviluppo umano integrale e di pace.

Noi cristiani crediamo che nella Chiesa siamo membra gli uni degli altri, tutti reciprocamente necessari, perché ad ognuno di noi è stata data una grazia secondo la misura del dono di Cristo, per l’utilità comune (cfr Ef 4,7.25; 1 Cor12,7). Cristo è venuto nel mondo per portarci la grazia divina, cioè la possibilità di partecipare alla sua vita. Ciò comporta tessere una relazionalità fraterna, improntata alla reciprocità, al perdono, al dono totale di sé, secondo l’ampiezza e la profondità dell’amore di Dio, offerto all’umanità da Colui che, crocifisso e risorto, attira tutti a sé: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). È questa la buona novella che richiede ad ognuno un passo in più, un esercizio perenne di empatia, di ascolto della sofferenza e della speranza dell’altro, anche del più lontano da me, incamminandosi sulla strada esigente di quell’amore che sa donarsi e spendersi con gratuità per il bene di ogni fratello e sorella.

Cristo abbraccia tutto l’uomo e vuole che nessuno si perda. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Lo fa senza opprimere, senza costringere nessuno ad aprirgli le porte del suo cuore e della sua mente. «Chi fra voi è il più grande diventi come il più piccolo e chi governa diventi come quello che serve» – dice Gesù Cristo – «io sono in mezzo a voi come uno che serve» (Lc 22,26-27). Ogni attività deve essere, allora, contrassegnata da un atteggiamento di servizio alle persone, specialmente quelle più lontane e sconosciute. Il servizio è l’anima di quella fraternità che edifica la pace.

Maria, la Madre di Gesù, ci aiuti a comprendere e a vivere tutti i giorni la fraternità che sgorga dal cuore del suo Figlio, per portare pace ad ogni uomo su questa nostra amata terra.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2013

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA XLVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

NON PIÙ SCHIAVI, MA FRATELLI

1 gennaio 2015

 

1. All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità.

Nel messaggio per il 1° gennaio scorso, avevo osservato che al «desiderio di una vita piena … appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare».[1] Essendo l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia. Purtroppo, la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme sulle quali desidero brevemente riflettere, affinché, alla luce della Parola di Dio, possiamo considerare tutti gli uomini “non più schiavi, ma fratelli”.

In ascolto del progetto di Dio sull’umanità

2. Il tema che ho scelto per il presente messaggio richiama la Lettera di san Paolo a Filemone, nella quale l’Apostolo chiede al suo collaboratore di accogliere Onesimo, già schiavo dello stesso Filemone e ora diventato cristiano e, quindi, secondo Paolo, meritevole di essere considerato un fratello. Così scrive l’Apostolo delle genti: «E’ stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 15-16). Onesimo è diventato fratello di Filemone diventando cristiano. Così la conversione a Cristo, l’inizio di una vita di discepolato in Cristo, costituisce una nuova nascita (cfr 2 Cor 5,17; 1 Pt 1,3) che rigenera la fraternità quale vincolo fondante della vita familiare e basamento della vita sociale.

Nel Libro della Genesi (cfr 1,27-28) leggiamo che Dio creò l’uomo maschio e femmina e li benedisse, affinché crescessero e si moltiplicassero: Egli fece di Adamo ed Eva dei genitori, i quali, realizzando la benedizione di Dio di essere fecondi e moltiplicarsi, generarono la prima fraternità, quella di Caino e Abele. Caino e Abele sono fratelli, perché provengono dallo stesso grembo, e perciò hanno la stessa origine, natura e dignità dei loro genitori creati ad immagine e somiglianza di Dio.

Ma la fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità. In quanto fratelli e sorelle, quindi, tutte le persone sono per natura in relazione con le altre, dalle quali si differenziano ma con cui condividono la stessa origine, natura e dignità. E’ in forza di ciò che la fraternità costituisce la rete di relazioni fondamentali per la costruzione della famiglia umana creata da Dio.

Purtroppo, tra la prima creazione narrata nel Libro della Genesi e la nuova nascita in Cristo, che rende i credenti fratelli e sorelle del «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), vi è la realtà negativa del peccato, che più volte interrompe la fraternità creaturale e continuamente deforma la bellezza e la nobiltà dell’essere fratelli e sorelle della stessa famiglia umana. Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia commettendo il primo fratricidio. «L’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro».[2]

Anche nella storia della famiglia di Noè e dei suoi figli (cfr Gen 9,18-27), è l’empietà di Cam nei confronti del padre Noè che spinge quest’ultimo a maledire il figlio irriverente e a benedire gli altri, quelli che lo avevano onorato, dando luogo così a una disuguaglianza tra fratelli nati dallo stesso grembo.

Nel racconto delle origini della famiglia umana, il peccato di allontanamento da Dio, dalla figura del padre e dal fratello diventa un’espressione del rifiuto della comunione e si traduce nella cultura dell’asservimento (cfr Gen 9,25-27), con le conseguenze che ciò implica e che si protraggono di generazione in generazione: rifiuto dell’altro, maltrattamento delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione di diseguaglianze. Di qui, la necessità di una conversione continua all’Alleanza, compiuta dall’oblazione di Cristo sulla croce, fiduciosi che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia … per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 5,20.21). Egli, il Figlio amato (cfr Mt 3,17), è venuto per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù «fratello, sorella e madre» (Mt 12,50), e pertanto figlio adottivo di suo Padre (cfr Ef 1,5).

Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo. L’essere figlio di Dio segue l’imperativo della conversione: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Tutti quelli che hanno risposto con la fede e la vita a questa predicazione di Pietro sono entrati nella fraternitàdella prima comunità cristiana (cfr 1 Pt 2,17; At 1,15.16; 6,3; 15,23): ebrei ed ellenisti, schiavi e uomini liberi (cfr 1 Cor 12,13; Gal3,28), la cui diversità di origine e stato sociale non sminuisce la dignità di ciascuno né esclude alcuno dall’appartenenza al popolo di Dio. La comunità cristiana è quindi il luogo della comunione vissuta nell’amore tra i fratelli (cfr Rm 12,10; 1 Ts 4,9; Eb 13,1; 1 Pt1,22; 2 Pt 1,7).

Tutto ciò dimostra come la Buona Novella di Gesù Cristo, mediante il quale Dio fa «nuove tutte le cose» (Ap 21,5)[3], sia anche capace di redimere le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo. Gesù stesso disse ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

I molteplici volti della schiavitù ieri e oggi

3. Fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce.

Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità,[4] è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile.

Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.

Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore.

Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al “lavoro schiavo”.

Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori, ed alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso.

Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per esserearruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale.

Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi.

Alcune cause profonde della schiavitù   

4. Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine.

Accanto a questa causa ontologica – rifiuto dell’umanità nell’altro –, altre cause concorrono a spiegare le forme contemporanee di schiavitù. Tra queste, penso anzitutto alla povertà, al sottosviluppo e all’esclusione, specialmente quando essi si combinano con ilmancato accesso all’educazione o con una realtà caratterizzata da scarse, se non inesistenti, opportunità di lavoro. Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo.

Anche la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va annoverata tra le cause della schiavitù. Infatti, l’asservimento ed il traffico delle persone umane richiedono una complicità che spesso passa attraverso la corruzione degli intermediari, di alcuni membri delle forze dell’ordine o di altri attori statali o di istituzioni diverse, civili e militari. «Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il dominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori».[5]

Altre cause della schiavitù sono i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Numerose persone vengono rapite per essere vendute, oppure arruolate come combattenti, oppure sfruttate sessualmente, mentre altre si trovano costrette a emigrare, lasciando tutto ciò che possiedono: terra, casa, proprietà, e anche i familiari. Queste ultime sono spinte a cercare un’alternativa a tali condizioni terribili anche a rischio della propria dignità e sopravvivenza, rischiando di entrare, in tal modo, in quel circolo vizioso che le rende preda della miseria, della corruzione e delle loro perniciose conseguenze.

Un impegno comune per sconfiggere la schiavitù

5. Spesso, osservando il fenomeno della tratta delle persone, del traffico illegale dei migranti e di altri volti conosciuti e sconosciuti della schiavitù, si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale.

Se questo è, purtroppo, in gran parte vero, vorrei ricordare l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime. Tali istituti operano in contesti difficili, dominati talvolta dalla violenza, cercando di spezzare le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e sfruttatori; catene le cui maglie sono fatte sia di sottili meccanismi psicologici, che rendono le vittime dipendenti dai loro aguzzini, tramite il ricatto e la minaccia ad essi e ai loro cari, ma anche attraverso mezzi materiali, come la confisca dei documenti di identità e la violenza fisica. L’azione delle congregazioni religiose si articola principalmente intorno a tre opere: il soccorso alle vittime, la loro riabilitazione sotto il profilo psicologico e formativo e la loro reintegrazione nella società di destinazione o di origine.

Questo immenso lavoro, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza, merita apprezzamento da parte di tutta la Chiesa e della società. Ma esso da solo non può naturalmente bastare per porre un termine alla piaga dello sfruttamento della persona umana. Occorre anche un triplice impegno a livello istituzionale di prevenzione, di protezione delle vittime e di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Inoltre, come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società.

Gli Stati dovrebbero vigilare affinché le proprie legislazioni nazionali sulle migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona. Sono necessarie leggi giuste, incentrate sulla persona umana, che difendano i suoi diritti fondamentali e li ripristinino se violati, riabilitando chi è vittima e assicurandone l’incolumità, nonché meccanismi efficaci di controllo della corretta applicazione di tali norme, che non lascino spazio alla corruzione e all’impunità.E’ necessario anche che venga riconosciuto il ruolo della donna nella società, operando anche sul piano culturale e della comunicazione per ottenere i risultati sperati.

Le organizzazioni intergovernative, conformemente al principio di sussidiarietà, sono chiamate ad attuare iniziative coordinate per combattere le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono la tratta delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti. Si rende necessaria una cooperazione a diversi livelli, che includa cioè le istituzioni nazionali ed internazionali, così come le organizzazioni della società civile ed il mondo imprenditoriale.

Le imprese[6], infatti, hanno il dovere di garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose e stipendi adeguati, ma anche di vigilare affinché forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo nelle catene di distribuzione. Alla responsabilità sociale dell’impresa si accompagna poi la responsabilità sociale del consumatore. Infatti, ciascuna persona dovrebbe avere la consapevolezza che «acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico».[7]

Le organizzazioni della società civile, dal canto loro, hanno il compito di sensibilizzare e stimolare le coscienze sui passi necessari a contrastare e sradicare la cultura dell’asservimento.

Negli ultimi anni, la Santa Sede, accogliendo il grido di dolore delle vittime della tratta e la voce delle congregazioni religiose che le accompagnano verso la liberazione, ha moltiplicato gli appelli alla comunità internazionale affinché i diversi attori uniscano gli sforzi e cooperino per porre termine a questa piaga.[8] Inoltre, sono stati organizzati alcuni incontri allo scopo di dare visibilità al fenomeno della tratta delle persone e di agevolare la collaborazione tra diversi attori, tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impegnati in favore delle vittime. Mi auguro che questo impegno continui e si rafforzi nei prossimi anni.

Globalizzare la fraternità, non la schiavitù né l’indifferenza

6. Nella sua opera di «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società»[9], la Chiesa si impegna costantemente nelle azioni di carattere caritativo a partire dalla verità sull’uomo. Essa ha il compito di mostrare a tutti il cammino verso la conversione, che induca a cambiare lo sguardo verso il prossimo, a riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella in umanità, a riconoscerne la dignità intrinseca nella verità e nella libertà, come ci illustra la storia di Giuseppina Bakhita, la santa originaria della regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose vicende, “libera figlia di Dio” mediante la fede vissuta nella consacrazione religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli. Questa Santa, vissuta fra il XIX e il XX secolo, è anche oggi testimone esemplare di speranza[10]per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa «piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo».[11]

In questa prospettiva, desidero invitare ciascuno, nel proprio ruolo e nelle proprie responsabilità particolari, a operare gesti di fraternità nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o in quanto singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone. Alcuni di noi, per indifferenza, o perché distratti dalle preoccupazioni quotidiane, o per ragioni economiche, chiudono un occhio. Altri, invece, scelgono di fare qualcosa di positivo, di impegnarsi nelle associazioni della società civile o di compiere piccoli gesti quotidiani – questi gesti hanno tanto valore! – come rivolgere una parola, un saluto, un “buongiorno” o un sorriso, che non ci costano niente ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive nell’invisibilità, e anche cambiare la nostra vita nel confronto con questa realtà.

Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che supera le competenze di una sola comunità o nazione. Per sconfiggerlo, occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo[12], che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45).

Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2014

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA XLIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

VINCI L'INDIFFERENZA E CONQUISTA LA PACE

1 gennaio 2016

 

1. Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo, come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni. Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo.

Custodire le ragioni della speranza

2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.

Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite,dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro quell’anno.

Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» [1], la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto [2].

In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia, di «perdonare e di donare», di aprirsi «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge» [3].

Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno, vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e conquistare la pace.

Alcune forme di indifferenza

3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.

La prima forma di indifferenza nella società umana è quella verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico. L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti [4]. Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo [5]; e prima di lui Paolo VIaveva affermato che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana» [6].

L’indifferenza nei confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo, non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale [7]. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti» [8].

In altri casi, l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete [9]. «Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene» [10].

Vivendo in una casa comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato di fare nella Laudato si’. L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali influisce sulle sue relazioni con gli altri [11], per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in casa propria[12].

In questi ed in altri casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.

La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata

4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra» [13]. Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace» [14]. L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno prodotto crudeltà e violenza senza misura [15].

A livello individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza.

In questo senso l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità [16].

Quando poi investe il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza [17].

Inoltre, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali [18]?

Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del cuore

5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16), era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità. Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia» [19]. Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.

Dio interviene, allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile, proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).

Caino dice di non sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare, umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio, invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente. È attento e opera.

Allo stesso modo, nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro, specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o disoccupate (cfr Mt20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.

Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) denuncia l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide e passò oltre» (cfr Lc 10,31.32). Nello stesso tempo, mediante questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli, ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle, alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti, cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.

La misericordia è il cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv 3,17; cfr Gc 2,15-16).

Ecco perché «è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia» [20].

Così, anche noi siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre relazioni gli uni con gli altri [21]. Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» [22]. La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» [23], perché la compassione scaturisce dalla fraternità.

Così compresa, la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato, tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella di altri uomini e donne nel resto del mondo [24].

Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza

6. La solidarietà come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo.

Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli [25].

Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna» [26].

Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene, infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona» [27]. Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito.

La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione

7. Consapevoli della minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono buone pratiche nel cammino verso una società più umana.

Ci sono tante organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al termine della nostra vita.

Il mio pensiero va anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante i conflitti armati.

Quante famiglie, poi, in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie, le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di rifugiati [28].

Infine, vorrei menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).

La pace nel segno del Giubileo della Misericordia

8. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.

Anche gli Stati sono chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i malati.

Per quanto concerne i detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio [29], avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.

Per quanto riguarda i migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.

Desidero, inoltre, in quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne – purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.

Infine, vorrei invitare a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati, garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.

Volgendo lo sguardo al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni.

In questa prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.

Affido queste riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno, all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace, l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno quotidiano per un mondo fraterno e solidale.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA L GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA NONVIOLENZA: STILE DI UNA POLITICA PER LA PACE

1 gennaio 2017

 

1. All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.

 

Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’ finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.

 

In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.

 

Un mondo frantumato

 

2. Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.

 

In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?

 

La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.

 

La Buona Notizia

 

3. Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]

 

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».[6]

 

Più potente della violenza

 

4. La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata.

 

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

 

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».[11]

 

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

 

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[15]

 

La radice domestica di una politica nonviolenta

 

5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.[16] Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

 

Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]

 

Il mio invito

 

6. La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

 

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[22]

 

Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.

 

In conclusione

 

7. Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.

 

«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]

 

Dal Vaticano, 8 dicembre 2016

 

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA LI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

MIGRANTI E RIFUGIATI: UOMINI E DONNE IN CERCA DI PACE

1 gennaio 2018

 

1. Augurio di pace

Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale,[1] è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace».[2] Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta.

Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale.

Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento».[3] Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare.[4]

2. Perché così tanti rifugiati e migranti?

In vista del Grande Giubileo per i 2000 anni dall’annuncio di pace degli angeli a Betlemme, San Giovanni Paolo II annoverò il crescente numero di profughi tra le conseguenze di «una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di “pulizie etniche”»,[5] che avevano segnato il XX secolo. Quello nuovo non ha finora registrato una vera svolta: i conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre.

Ma le persone migrano anche per altre ragioni, prima fra tutte il «desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la “disperazione” di un futuro impossibile da costruire».[6] Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o di istruzione: chi non può godere di questi diritti, non vive in pace. Inoltre, come ho sottolineato nell’Enciclica Laudato si’, «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale».[7]

La maggioranza migra seguendo un percorso regolare, mentre alcuni prendono altre strade, soprattutto a causa della disperazione, quando la patria non offre loro sicurezza né opportunità, e ogni via legale pare impraticabile, bloccata o troppo lenta.

In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano.[8]

Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace.

3. Con sguardo contemplativo

La sapienza della fede nutre questo sguardo, capace di accorgersi che tutti facciamo «parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione».[9] Queste parole ci ripropongono l’immagine della nuova Gerusalemme. Il libro del profeta Isaia (cap. 60) e poi quello dell’Apocalisse (cap. 21) la descrivono come una città con le porte sempre aperte, per lasciare entrare genti di ogni nazione, che la ammirano e la colmano di ricchezze. La pace è il sovrano che la guida e la giustizia il principio che governa la convivenza al suo interno.

Abbiamo bisogno di rivolgere anche sulla città in cui viviamo questo sguardo contemplativo, «ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze [...] promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia»,[10] in altre parole realizzando la promessa della pace.

Osservando i migranti e i rifugiati, questo sguardo saprà scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio,capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono. Saprà scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti.

Questo sguardo contemplativo, infine, saprà guidare il discernimento dei responsabili della cosa pubblica, così da spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei «limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso»,[11] considerando cioè le esigenze di tutti i membri dell’unica famiglia umana e il bene di ciascuno di essi.

Chi è animato da questo sguardo sarà in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e si prenderà cura della loro crescita. Trasformerà così in cantieri di pace le nostre città, spesso divise e polarizzate da conflitti che riguardano proprio la presenza di migranti e rifugiati.

4. Quattro pietre miliari per l’azione

Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.[12]

“Accogliere” richiama l’esigenza di ampliare le possibilità di ingresso legale, di non respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze, e di bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale con la tutela dei diritti umani fondamentali. La Scrittura ci ricorda: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo».[13]

“Proteggere” ricorda il dovere di riconoscere e tutelare l’inviolabile dignità di coloro che fuggono da un pericolo reale in cerca di asilo e sicurezza, di impedire il loro sfruttamento. Penso in particolare alle donne e ai bambini che si trovano in situazioni in cui sono più esposti ai rischi e agli abusi che arrivano fino a renderli schiavi. Dio non discrimina: «Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova».[14]

“Promuovere” rimanda al sostegno allo sviluppo umano integrale di migranti e rifugiati. Tra i molti strumenti che possono aiutare in questo compito, desidero sottolineare l’importanza di assicurare ai bambini e ai giovani l’accesso a tutti i livelli di istruzione: in questo modo essi non solo potranno coltivare e mettere a frutto le proprie capacità, ma saranno anche maggiormente in grado di andare incontro agli altri, coltivando uno spirito di dialogo anziché di chiusura o di scontro. La Bibbia insegna che Dio «ama lo straniero e gli dà pane e vestito»; perciò esorta: «Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto».[15]

“Integrare”, infine, significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».[16]

5. Una proposta per due Patti internazionali

Auspico di cuore che sia questo spirito ad animare il processo che lungo il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza.

Il dialogo e il coordinamento, in effetti, costituiscono una necessità e un dovere proprio della comunità internazionale. Al di fuori dei confini nazionali, è possibile anche che Paesi meno ricchi possano accogliere un numero maggiore di rifugiati, o accoglierli meglio, se la cooperazione internazionale assicura loro la disponibilità dei fondi necessari.

La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha suggerito 20 punti di azione[17] quali piste concrete per l’attuazione di questi quattro verbi nelle politiche pubbliche, oltre che nell’atteggiamento e nell’azione delle comunità cristiane. Questi ed altri contributi intendono esprimere l’interesse della Chiesa cattolica al processo che porterà all’adozione dei suddetti patti globali delle Nazioni Unite. Tale interesse conferma una più generale sollecitudine pastorale nata con la Chiesa e continuata in molteplici sue opere fino ai nostri giorni.

6. Per la nostra casa comune

Ci ispirano le parole di San Giovanni Paolo II: «Se il “sogno” di un mondo in pace è condiviso da tanti, se si valorizza l’apporto dei migranti e dei rifugiati, l’umanità può divenire sempre più famiglia di tutti e la nostra terra una reale “casa comune”».[18] Molti nella storia hanno creduto in questo “sogno” e quanto hanno compiuto testimonia che non si tratta di una utopia irrealizzabile.

Tra costoro va annoverata Santa Francesca Saverio Cabrini, di cui ricorre nel 2017 il centenario della nascita al cielo. Oggi, 13 novembre, molte comunità ecclesiali celebrano la sua memoria. Questa piccola grande donna, che consacrò la propria vita al servizio dei migranti, diventandone poi la celeste patrona, ci ha insegnato come possiamo accogliere, proteggere, promuovere e integrare questi nostri fratelli e sorelle. Per la sua intercessione il Signore conceda a noi tutti di sperimentare che «un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace».[19]

 

Dal Vaticano, 13 novembre 2017

Memoria di Santa Francesca Saverio Cabrini, Patrona dei migranti

 

 

MESSAGGIO DI
FRANCESCO
PER LA LII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

LA BUONA POLITICA È AL SERVIZIO DELLA PACE

1 gennaio 2019

 

 

1. “Pace a questa casa!”

Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6).

Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo. E questa offerta è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana.[1] La “casa” di cui parla Gesù è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.

Sia questo dunque anche il mio augurio all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”.

2. La sfida della buona politica

La pace è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy;[2] è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione.

«Se uno vuol essere il primo – dice Gesù – sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35). Come sottolineava Papa San Paolo VI: «Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità».[3]

In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.

3. Carità e virtù umane per una politica al servizio dei diritti umani e della pace

Papa Benedetto XVI ricordava che «ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. […] Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. […] L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana».[4] È un programma nel quale si possono ritrovare tutti i politici, di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà.

A questo proposito meritano di essere ricordate le “beatitudini del politico”, proposte dal Cardinale vietnamita François-Xavier Nguyễn Vãn Thuận, morto nel 2002, che è stato un fedele testimone del Vangelo:

Beato il politico che ha un’alta consapevolezza e una profonda coscienza del suo ruolo.

Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.

Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il proprio interesse.

Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.

Beato il politico che realizza l’unità.

Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.

Beato il politico che sa ascoltare.

Beato il politico che non ha paura.[5]

Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica costituisce un’occasione per tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto. Ne siamo certi: la buona politica è al servizio della pace; essa rispetta e promuove i diritti umani fondamentali, che sono ugualmente doveri reciproci, affinché tra le generazioni presenti e quelle future si tessa un legame di fiducia e di riconoscenza.

4. I vizi della politica

Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi, dovuti sia ad inettitudine personale sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni. È chiaro a tutti che i vizi della vita politica tolgono credibilità ai sistemi entro i quali essa si svolge, così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano. Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone –, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della “ragion di Stato”, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio.

5. La buona politica promuove la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro

Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona. «Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo».[6]

Ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali. Una tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse. In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno. Oggi più che mai, le nostre società necessitano di “artigiani della pace” che possano essere messaggeri e testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana.

6. No alla guerra e alla strategia della paura

Cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate.

Il nostro pensiero va, inoltre, in modo particolare ai bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto, e a tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze, quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità.

7. Un grande progetto di pace

Celebriamo in questi giorni il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Ricordiamo in proposito l’osservazione del Papa San Giovanni XXIII: «Quando negli esseri umani affiora la coscienza dei loro diritti, in quella coscienza non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli».[7]

La pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli esseri umani. Ma è anche una sfida che chiede di essere accolta giorno dopo giorno. La pace è una conversione del cuore e dell’anima, ed è facile riconoscere tre dimensioni indissociabili di questa pace interiore e comunitaria:

- la pace con sé stessi, rifiutando l’intransigenza, la collera e l’impazienza e, come consigliava San Francesco di Sales, esercitando “un po’ di dolcezza verso sé stessi”, per offrire “un po’ di dolcezza agli altri”;

- la pace con l’altro: il familiare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente…; osando l’incontro e ascoltando il messaggio che porta con sé;

- la pace con il creato, riscoprendo la grandezza del dono di Dio e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi, come abitante del mondo, cittadino e attore dell’avvenire.

La politica della pace, che ben conosce le fragilità umane e se ne fa carico, può sempre attingere dallo spirito del Magnificat che Maria, Madre di Cristo Salvatore e Regina della Pace, canta a nome di tutti gli uomini: «Di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; […] ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,50-55).

Dal Vaticano, 8 dicembre 2018

 

 

 

001 1968: 1º Gennaio: Giornata Mondiale della Pace
002 1969: La promozione dei diritti dell'uomo, cammino verso la pace
003 1970: Educarsi alla pace attraverso la riconciliazione
004 1971: Ogni uomo è mio fratello
005 1972: Se vuoi la pace, lavora per la giustizia
006 1973: La pace è possibile
007 1974: La pace dipende anche da te
008 1975: La riconciliazione, via alla pace
009 1976: Le vere armi della pace
010 1977: Se vuoi la pace, difendi la vita
011 1978: No alla violenza, Sì alla pace

012 1979: Per giungere alla pace, educare alla pace
013 1980: La verità come forza della pace
014
1981: Per servire la pace, rispetta la libertà
015
1982: La pace, dono di Dio affidato agli uomini
016
1983: Il dialogo per la pace, una sfida per il nostro tempo
017
1984: La pace nasce da un cuore nuovo
018
1985: La pace e i giovani camminano insieme
019
1986: La pace è valore senza frontiere. Nord-Sud, Est-Ovest: una sola pace
020
1987: Sviluppo e solidarietà, chiavi della pace
021
1988: La libertà religiosa, condizione per la pacifica convivenza
022
1989: Per costruire la pace, rispettare le minoranze
023
1990: Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato
024
1991: Se vuoi la pace, rispetta la coscienza di ogni uomo
025
1992: I credenti uniti nella costruzione della pace
026
1993: Se cerchi la pace, va' incontro ai poveri
027
1994: Dalla famiglia nasce la pace della famiglia umana
028
1995: Donna: educatrice alla pace
029
1996: Diamo ai bambini un futuro di pace
030
1997: Offri il perdono, ricevi la pace
031
1998: Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti
032
1999: Nel rispetto dei diritti umani il segreto della vera pace
033
2000: « Pace in terra agli uomini, che Dio ama! »
034
2001: Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace
035
2002: Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono
036
2003: « Pacem in terris »: un impegno permanente

037 2004: Un impegno sempre attuale educare alla pace

038 2005: Non lasciarti vincere dal male ma vinci con il bene il male
039
2006: Nella verità, la pace
040
2007: La persona umana, cuore della pace

041 2008: Famiglia umana, comunità di pace

042 2009: Combattere la povertà, costruire la pace
043
2010: Se vuoi coltivare la pace custodisci il creato
044
2011: Libertà religiosa, via per la pace

045 2012: Educare i giovani alla giustizia e alla pace
046
2013: Beati gli operatori di pace

047 2014: Fraternità, fondamento e via per la pace

048 2015: Non più schiavi, ma fratelli

049 2016: Vinci l'indifferenza e conquista la pace

050 2017: La nonviolenza: stile di una politica per la pace

051 2018: Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace

052 2019: La buona politica è al servizio della pace

 

 

 

 

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